Politica

Una gravosa eredità

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Nel 1874, Friedrich Engels, scrivendo a un suo corrispondente, prendeva atto che l’Internazionale, l’organizzazione proletaria in cui aveva prevalso il socialismo “scientifico” ispirato da lui e Marx, nella sua vecchia forma aveva fatto il suo tempo e così preconizzava il futuro: «per poter creare una nuova Internazionale nel modo in cui si è creata la vecchia, un’alleanza di tutti i partiti proletari di tutti i paesi, sarebbe necessaria una generale sconfitta del movimento operaio, come ha predominato dal 1849 al 1864. Ma il movimento proletario è diventato troppo grande, troppo ampio perché ciò possa avvenire. Ritengo che la prossima Internazionale sarà – dopo che gli scritti di Marx avranno agito per alcuni anni – direttamente comunista e che inalbererà apertamente i nostri principi». Sebbene dilazionata dall’interregno della Seconda Internazionale, la previsione di Engels si rivelò azzeccata, poiché la Terza Internazionale sorse su basi interamente comuniste ispirandosi alle teorie sue e di Marx. Ma non è per questo che suscita ancora interesse la sua previsione, quanto per la condizione che egli pone per la rinascita di una nuova Internazionale simile alla Prima, ovvero una ulteriore «generale sconfitta del movimento operaio» che egli però riteneva impossibile perché il movimento proletario era diventato «troppo grande, troppo ampio» perché ciò potesse avvenire. A smentita di tale premessa, il tempo presente è quello di un movimento operaio che, divenuto grande e ampio al punto da dar luogo a una Internazionale interamente comunista, è stato poi sconfitto e rinchiuso in una prigione a cielo aperto dove, da decenni ormai, la “coesione sociale”’ è l’ordine esistente, le “tensioni sociali” danno luogo non a lotte di classe ma a “delicate vertenze occupazionali” e, infine, le “specifiche rivendicazioni dei lavoratori” non devono mai tralignare nella “militanza politico-ideologica”. I più tosti si scagliano contro queste sbarre linguistiche, per la verità, senza molto costrutto, gli altri si abbandonano alla malinconia, un sentimento più reattivo della nostalgia ma che risponde più al narcisismo del proprio io ferito che non a una effettiva volontà d’azione. Si aprono così le porte delle celle a regime speciale, avvengono le bastonature “occasionali” da parte di forze dell’ordine “democratiche”, si moltiplicano le identificazioni delle questure, si alza la canea vociante contro prese di posizione “rivoluzionarie” che però si rivelano incaute anche per chi anela al martirio verbale. Eppure, ci fu un tempo in cui c’era chi, come Norberto Bobbio, poneva l’esigenza di elaborare una teoria volta a chiarire le modalità di inserimento dell’esperienza comunista nello sviluppo della civiltà liberale di cui, egli precisava, «il comunismo è certamente figlio, se pur non ancora a pieno diritto l’erede» (Bobbio, Politica e cultura, p. 131). Il non riconoscimento di tale diritto e addirittura la cacciata di casa del legittimo erede ha finito per compromettere la stabilità dell’intero edificio della civiltà liberale, governato ormai da vecchi dormienti e pazzi esagitati. Ma per restare a quel dovere degli “uomini di cultura” cui lo stesso Bobbio richiamava coloro che hanno a cuore le sorti della ragione, strano parto dell’umana cognizione che ne illumina il cammino al prezzo di qualche tragico errore, la discussione non può che ripartire da quegli snodi la cui mancata o insufficiente elaborazione ha provocato quella fatale rottura i cui deleteri effetti oggi constatiamo. Riflettendo sul rapporto Krusciov, Bobbio considerava la mancata previsione della tirannia di Stalin nel periodo di transizione della dittatura del proletariato come l’indizio di una deficienza della dottrina marxista (Bobbio, Politica e cultura, p. 248). Infatti, posto che si consideri la dittatura personale come il regime che esprime le difficoltà in cui si viene a trovare una classe dirigente in declino, la denuncia del regime di Stalin come una dittatura personale significava ammettere le difficoltà della trasformazione economica nel passaggio dal regime della proprietà privata a quello collettivistico (Bobbio, Politica e cultura, p. 259). Due punti non tornano in questo ragionamento. Anzitutto, le difficoltà non equivalgono al declino. Come si evince dagli indici di sviluppo economico, sociale e demografico, sotto Stalin la società sovietica pur tra grandi difficoltà non declinò, bensì avanzò. Fu piuttosto il rapporto Krusciov a segnalare l’inizio del declino che, dopo la stagnazione brezneviana, culminò nella mortale stagione della perestrojka. In secondo luogo, se la dittatura personale esprime il declino di una classe dirigente, che dire della dottrina liberale che non previde il sorgere della dittatura mussoliniana? Se il buco teorico c’è, ciò vale per la dottrina marxista come per quella liberale. Evidentemente, è la nozione di dittatura di classe che va qui chiarita. Essa non concerne la sfera politica bensì l’ontologia economica. La dittatura di una classe nella struttura può ben convivere nella sfera politica con una democrazia, diretta o parlamentare che sia, oppure con una dittatura personale. Ciò non vuol dire che non vi sia un rapporto tra i due livelli, ma il fatto che vi è una distinzione, storicamente attestata dall’oscillazione tra democrazia e dittatura politica nel regime di dittatura capitalistica nella struttura, significa che la dittatura del proletariato nella struttura, qualora la contingenza storica lo consenta, non necessariamente deve comportare la dittatura personale o comunque politica nella sfera politica. Quindi, benché ai puristi possa dispiacere, un comunismo democratico è possibile (il Venezuela attuale con il suo “costituzionalismo egemonico” è qualcosa che si approssima a questo modello). Il problema è nel trapasso dall’una all’altra ontologia economica. È evidente che il passaggio è violento, ma è stata violenta l’instaurazione dell’ontologia economica capitalistica ed è violenta la sua difesa, affidata com’è alla forza “legale” e al suo simulacro, il consenso. Imputare la violenza solo al progetto “rivoluzionario” di mutare il fondamento dell’ontologia in essere equivale ad affermare che l’unico ordine possibile è quello esistente. Il che è già un atto intellettualmente violento. Il cozzo delle ontologie si può evitare accordandosi a monte circa la legittimità della loro pluralità, almeno per un lungo periodo di transizione. Il liberalismo, dunque, se vuole risorgere staccandosi dall’abbraccio mortale con il liberismo cui ha incautamente affidato le proprie sorti, deve richiamare presso di sé il comunismo e chiedergli di farsi carico della sua gravosa eredità. Su questo sfondo di pluralismo ontologico, la formula della dittatura del proletariato può essere allora ripresa come architrave di una nuova alleanza internazionale che si proponga di riportare all’antico splendore l’edificio non tanto della civiltà liberale, ma della ragione, di cui la civiltà liberale è stato solo il primo, imperfettissimo passo. I detriti della storia non possono più essere un alibi per procrastinare questo accordo. Ogni giorno che passa, i nemici della ragione acquistano terreno, religioni vecchie e nuove, irrazionalismi del passato e del presente rialzano la testa e si propongono come il solo rifugio dell’uomo angosciato, la politica diventa puro confronto di potere e nella struttura ristagna il tanfo di un’antropologia sempre più corrotta. Per l’Occidente, è l’ultima chiamata.

Una nuova stagione della ragione democratica

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Non è senza significato il fatto, per così dire, frivolo dei fischi a Geolier per la sua vittoria nella serata delle cover a Sanremo. Parte del pubblico dell’Ariston è sfollato e sui social ci si è scatenati contro il napoletano che, supportato dai camorristi e dai morti di fame del reddito di cittadinanza, non canta nemmeno in italiano. Già, l’italiano. E la nazione italiana. Secondo un certo pensiero che qui adottiamo per amor di tesi, per fare una nazione ci vuole il sangue, la lingua e un territorio. Il territorio non è mai mancato, tanto che l’Italia a lungo è stata solo un’espressione geografica. Tralasciamo gli sgangherati tentativi leghisti di riportarla a tale stato con l’“autonomia differenziata”, ma il sangue e la lingua dove sono? Dai Sicani a oggi, la Sicilia ha avuto una dozzina di “invasioni”. Questo per quanto riguarda gli uomini liberi, perché in epoca romana gli schiavi provenienti da mezzo mondo allora conosciuto erano milioni e mischiarono il loro sangue con quello dei padroni. Dov’è il sangue “italiano” in Sicilia? La domanda si può porre per ogni altra regione della penisola, e se in Sicilia ci si dorme sopra, in Veneto issano lo stendardo del Leone di San Marco. Ma veniamo alla lingua. L’italiano ha impiegato così tanto a divenire lingua nazionale che nel 1948, quando la patria rinacque, i padri costituenti, che pure lo padroneggiavano alla grande, neppure lo menzionarono in Costituzione. E ciascuno di noi, ancora dopo decenni di martellamento televisivo nell’italiano espressivo della pubblicità, dello spettacolo e dell’intrattenimento politico, cresce e parla nei rigogliosi “dialetti”. Questo per dire che se si vuole proprio parlare di nazione, allora bisogna parlare della nazione veneta, della nazione sarda, della nazione siciliana, della nazione napoletana e via dicendo. E questo, al netto di tifo organizzato e altre diavolerie dell’epoca social, spiega perché Geolier vince al televoto. Perché fra tutte le nazioni della cacofonia italiana quella napoletana è, in special modo nella musica, la più “universale”, ovvero la più capace di elaborare la propria “particolarità” in un linguaggio che si impone anche a chi napoletano non è. Ma allora che cos’è l’Italia? È un territorio le cui molte nazioni che lo popolano hanno trovato la forza alla metà del XIX secolo di stipulare fra di loro un patto politico. Non è stato un idillio. Era un patto leonino fra nord e sud, fra città e campagna, fra classi alte e classi basse, ma comunque era un patto politico che ha avuto bisogno di aggiustamenti e rifondazioni, prima fra tutte la Costituzione del ’48, e avrà sempre bisogno di modifiche e revisioni. Se si deve proprio parlare di nazione italiana, il suo fondamento è politico e l’attentato più grande a tale fondamento è stato il fascismo. Il fascismo storico e il neofascismo che nei primi decenni della Repubblica è stato tra le forze che hanno attaccato la democrazia intesa come sbocco storico del patto risorgimentale rinnovato dalla Resistenza. Questo attacco non è mai finito. Oggi si ripresenta nelle vesti di un conservatorismo raccogliticcio che si fa forte di ciò che è ancora indicibile circa i tanti crimini di quei decenni e cerca una legittimazione in un’Europa debole e smarrita. Tanti errori e divisioni del passato possono essere superati in questa nuova stagione in cui l’antifascismo assume il significato dell’apertura di una nuova fase democratica che sviluppi ulteriormente le potenzialità del patto politico originario. L’europeismo oggi non può che essere antifascista. Ma il fascismo non va contrastato solo nell’Europa delle adunate tenebrose, delle memorie funeree, delle giornate dell’onore. Lo sterminio a Gaza è condotto da uno Stato occupato da una cricca fascista. Putin è un fascista e tutto il mondo russo, quindi compresa l’Ucraina che simula la democrazia, è percorso da un vento fascista. Trump è un fascista come può esserlo un plutocrate americano. Marcare la discriminante antifascista può chiarire ovunque la posizione scomoda, difficile ma necessaria delle nuove forze democratiche. Non siamo più nel 2011 quando la JP Morgan denunciò le costituzioni antifasciste di Spagna Italia e Grecia come ostacoli alla crescita economica. Le politiche di austerità continuano, certo, ma sono movimenti meccanici di un corpo in decomposizione. Siamo in una fase nuova in cui le contraddizioni capitalistiche possono essere superate in un’intensificazione democratica dove liberalismo, socialismo, comunismo, anarchismo, tornano liberamente a competere per riaprire il cammino di quella ragione universale che all’esordio della modernità generosamente li mise al mondo. Ma per cogliere queste opportunità deve essere chiaro che i fascisti devono sloggiare dai palazzi di governo che la democrazia regala loro quando si riduce ad arido formalismo elettorale. Deve essere chiaro che agli antifascisti non si mettono ceppi e manette: c’è la legge per giudicarli di eventuali reati. Deve essere chiaro che la democrazia non si soffoca con l’idolatria del capo. Deve essere chiaro che se il fascismo si nutre di radici, la democrazia svetta continuamente in fronde nuove.

Bensoussan le spara grosse

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Nel giorno della morte di Henry Kissinger, costruttore di un mondo di pace attraverso guerre, intrighi e assassini infiniti (pace alla grande anima di Salvador Allende), è giusto prendere in considerazione le dichiarazioni che lo storico franco-marocchino di origine ebrea Georges Bensoussan ha rilasciato il 28 novembre scorso a Giulio Meotti, giornalista presso una delle più petulanti gazzette del coro mediatico filo-israeliano, ovvero “Il Foglio” fondato da Giuliano Ferrara, la spia che venne da Washington. Dopo un inizio in cui viene servito un frullato di grandguignol e di chiagni e fotti, Bensoussan arriva al dunque e rivela quanto segue:

“Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”

Ora, nell’Impero ottomano la dhimma, che comportava una subordinazione al potere musulmano ma assicurava anche dei diritti, era una condizione giuridica che riguardava non solo gli ebrei ma molte altre minoranze etniche e religiose tra cui, appunto, i cristiani. Di qui l’ammiccamento di Bensoussan. Non risulta comunque che nessuna di tali minoranze abbia avviato un movimento teso a fondare uno stato-nazione nel territorio in cui vivevano da (presunti) oppressi. Non risulta nemmeno che sia mai esistito un movimento di emancipazione della minoranza ebraica autoctona in Palestina che abbia poi chiamato in soccorso, per così dire, il movimento sionista europeo, il cui fulcro era costituito da ebrei ashkenaziti, a differenza di quelli che vivevano in Palestina, che erano sefarditi ottomani e arabi ebrei. Nella multietnica e plurireligiosa realtà palestinese dell’epoca, gli ebrei ashkenaziti europei che cominciarono ad affluire alla fine del XIX secolo furono ben accetti, anzi furono ammirati per la tenacia e i progressi da loro prontamente conseguiti. La tensione invece si innescò quando cominciò a manifestarsi il progetto sionista di cui gli ebrei ashkenaziti erano portatori, ovvero la trasformazione della Palestina nella sede di uno Stato che potesse accogliere la rinata nazione ebraica. Insomma, il sionismo non portò alcun aiuto agli ebrei autoctoni ma, per la sua carica aggressiva, probabilmente peggiorò la loro condizione come quella, d’altronde, di tutte le altre minoranze, nonché della maggioranza araba musulmana ridotta allo stato di intrusa a casa propria. È veramente penoso che sull’onda di contingenti contrapposizioni politiche uno storico come Bensoussan si debba ridurre a sparare balle come un Marco Travaglio qualsiasi passato dai mattinali di procura alla storia del conflitto arabo-israeliano.

Purtroppo, nell’intervista in questione le balle sparate sono state numerose. Dopo avere invocato un’analisi culturale, antropologica e psicanalitica per venire a capo dell’intricata questione israelo-palestinese, e dopo avere reso omaggio alla modernità e all’Illuminismo, Bensoussan afferma:

“Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia”.

Dunque, il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme, cioè il preteso diritto di Israele di farne la propria capitale, è una verità scientifica al pari del giramento della terra attorno al sole. Per la verità, qui girano altre cose poiché è veramente contro ogni spirito della modernità, pur reiteratamente invocato, pretendere di fondare sulla Bibbia un diritto politico contemporaneo. Con quale faccia poi si può rimproverare ai musulmani di porre la sharia a base della loro attuale condotta morale e giuridica? Ma Bensoussan continua:

“Il principio della sovranità ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”.

Si pregano l’esimio Bensoussan e i gazzettieri del Foglio che gli reggono il moccolo di non immischiare il movimento illuminista occidentale con i deliri di potenza dello Stato israeliano nato da un’ideologia nazionalista come il sionismo, mortifero come tutte le ideologie nazionaliste. Il giornalista Meotti però non è ancora soddisfatto e rilancia: l’attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. Bensoussan non aspetta altro:

“L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all’‘arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca del trionfo delle loro passioni arcaiche”.

Naturalmente, il memorabile detto di Raymond Aron è diretto contro gli arabi lanciati alla folle ricerca del trionfo delle loro arcaiche passioni. Quelle israeliane invece sono così moderne e illuminate che, come abbiamo visto, per dimostrare il diritto di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele ci si rifà a un recentissimo instant book qual è la Bibbia. Ma godiamoci le conclusioni di Bensoussan che il Meotti riporta compuntamente in ginocchio e con le mani giunte:

“Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per esso la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell’Illuminismo e più precisamente allo choc intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all’Editto di Nantes e per l’Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni Trenta sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico cui Hamas partecipa è il jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell’Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.

Al netto dell’erudizione, della supponenza e della disonestà con cui ci si assolve delle proprie colpe (impagabile quanto si afferma a proposito del nazionalismo!), colpisce il richiamo alle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa che avrebbero stroncato il profumato vento di liberalismo che spirava prima degli anni Trenta dal Cairo a Baghdad. Egregio Bensoussan, il sionismo socialista, benché minoritario, vogliamo classificarlo anch’esso tra le ideologie totalitarie?

Quel che viene fuori da una simile intervista è un Medio Oriente come discarica dell’Europa in cui i nativi sono delle statuine come i pastorelli del presepe e tutto lo sdegno che si ostenta non sembra diretto contro i crimini commessi il 7 ottobre da Hamas, dagli jihadisti o da gruppi sparsi di banditi, ma contro la pretesa dei pastorelli di poter dire la loro su come il presepe del Medio Oriente deve essere costruito. Ma sì, in fondo, tutta la colpa è dei Romani…

Palestina, un profeta tra follia e realtà

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Un articolo di Guido Rampoldi sulla questione israelo-palestinese, apparso sul quotidiano “Domani” di domenica 22 ottobre, si sottrae alla coltre di plumbea propaganda in cui da giorni è immersa tutta la fanfara mediatica consentendo di discutere qualche aspetto di una realtà che di tutto avrebbe bisogno tranne che di schieramenti manichei. L’autore riconosce anzitutto che è nell’interesse di Israele abbandonare l’illusione di sottomettere i palestinesi con la forza. Infatti, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, è chiaro che le vendicative “punizioni esemplari”, lo strapotere militare e l’esercizio sommario della violenza, producono solo un’ingannevole percezione di sicurezza. Rampoldi poi passa a considerare la posizione dei governi occidentali che, dicendosi convinti che l’unica via d’uscita sia la creazione di uno stato palestinese, si librano solo a un esercizio di futilità diplomatica poiché, non avendo fatto nulla per arginare il dilagare degli insediamenti dei coloni, la situazione ora è di una progressiva integrazione di tali insediamenti nel sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Ne consegue, conclude l’autore, che la nascita anche solo di uno “stato minimo” palestinese provocherebbe la rivolta della destra religiosa e di molti tra i 640mila “coloni”, spesso gente armatissima e legata all’esercito da rapporti strettissimi di collaborazione. Se la realtà è quella di uno stato, lo Stato di Israele, il cui insediamento economico e militare non può essere ostacolato da niente e da nessuno, che fare? L’autore è così consapevole della follia in cui è precipitato l’uditorio cui si rivolge, da qualificare folle la proposta che egli stesso avanza. Scrive infatti letteralmente: «resta una soluzione folle, e mai apparsa così folle come in queste giornate: fare di Israele uno stato binazionale, confederale o no, con un percorso circospetto ma progressivo che finisca per attribuire stessa dignità e stessi diritti agli israeliani e ai palestinesi dei Territori occupati». In realtà, questa soluzione folle è il pezzetto di senno dell’Occidente che ancora non se n’è volato sulla luna. Il fatto però è che questa soluzione ragionevole è assolutamente limitata, affidata com’è a un «percorso circospetto ma progressivo» che richiama tanto le categorie diplomatiche della lungimiranza, della moderazione, della disponibilità al compromesso cui ci si affida quando l’analisi della situazione concreta non mette a fuoco quel che pure confusamente viene intravisto come essenziale. Rampoldi ha infatti più volte ricordato che gli insediamenti sono parte del sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Detto altrimenti, dovrebbe essere ormai chiaro che il kibbutz non è il germe di una futura società democratico-socialista ma l’imprenditore collettivo di un capitalismo in armi che colonizza la “campagna” e sottomette la “città” in cui sopravvive sempre più marginalmente una “coscienza liberale” cui è concesso al massimo di svolgere compassati ragionamenti su Haaretz. In queste condizioni, allora, lo stato binazionale potrebbe nascere non dal percorso circospetto e progressivo auspicato da Rampoldi, bensì da un vigoroso e prolungato conflitto di classe che dovrebbe vedere alleati il proletariato palestinese con quello israeliano. Trattandosi di figure di difficilissima individuazione e di ancor più difficile composizione, è evidente che siamo alle ipotesi di terzo grado. Si comprende allora che Rampoldi rinunci alla scalata e devii verso sentieri più percorribili. Infatti, dopo avere giustamente richiamato che Israele è già una società binazionale, essendo araba parte della sua popolazione, egli sottolinea che, qualora decidesse di istituzionalizzare tale stato di fatto, dovrebbe accettare di non essere più “lo stato ebraico” costruito dai padri fondatori, ma di tornare all’idea di una parte del sionismo originario che sognava non “uno stato ebraico”, ma una “casa ebraica” nella terra d’Israele, rifugio e spazio in cui il giudaismo sarebbe potuto ringiovanire. In altri termini, ostruito il moderno conflitto di classe da un rapporto di forza brutalmente coloniale, lo stato binazionale potrebbe sorgere sul terreno arcaico dei miti religiosi in cui la “casa ebraica” sarebbe chiamata a convivere con la umma araba. Un processo che non un diplomatico, non un capo politico, non un partito di classe, bensì solo un riformatore religioso potrebbe portare a compimento, fondendo il Dio ebraico e l’Allah islamico in un Tutto nuovo meno tormentoso tanto dell’uno quanto dell’altro senza con ciò accedere all’illusoria bontà del Dio cristiano. Poiché qui perveniamo alle iperboli più spinte, si comprende che Rampoldi devii un’altra volta per sentieri più agevoli. Ed ecco dunque l’analogia storico-politica che, avanzata ancora sotto le vesti della follia, dovrebbe convincere le parti contendenti: «proporre adesso [la] soluzione [binazionale] può apparire delirante: ma quarant’anni fa nessuno avrebbe creduto alla possibilità di un Sudafrica binazionale, in cui bianchi e neri avessero eguali diritti». Anche qui il delirio è in effetti la proposta ragionevole, ma con tutto il rispetto per i bianchi e i neri del Sudafrica, Pretoria non è Gerusalemme dove invece tutte le maggiori divinità che ancora signoreggiano le menti umane non da ora si sono date convegno. Un Mandela quindi non basterebbe e, come abbiamo visto, neppure un Lenin. Sì, realisticamente, ci vorrebbe proprio un profeta…

Palestina, una via senza uscita

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La soluzione due popoli due Stati che, memori dei lontani e alquanto mitizzati Accordi di Oslo del 1993, si continua a prospettare per risolvere il problema palestinese, tradotta nel crudo linguaggio della realtà politica effettuale significa un trasferimento di potenza dal già costituito Stato di Israele, armato di tutto punto compresa la bomba atomica ben celata in qualche rotolo della Torah, all’ancora da costituire Stato della Palestina, implume come un pulcino ma fiducioso della potenza che Allah non vorrà negargli. Le vie di questo trasferimento sono due, o quella diplomatica o quella guerresca. Quella diplomatica, basata sull’avvio mai verificatosi della peristalsi di un capitalismo regionale nelle intenzioni bipartisan, si è cercato di percorrerla in passato ma un colpo di pistola alla schiena di Yitzhak Rabin l’ha interrotta. Quella guerresca in questi giorni vive un suo ulteriore capitolo in cui Hamas ha approfittato trucemente degli ozi di Capua su cui Israele ultimamente si era adagiato, mettendolo davanti all’alternativa diabolica di accettare tale trasferimento, secondo modalità alla cui fissazione poi parteciperebbero le altre potenze regionali supervisionate dalle rispettive potenze mondiali di riferimento, oppure di perpetrare un ennesimo, storico massacro, come sembra intenzionato a fare, che ne macchierebbe per generazioni e generazioni la già discutibile reputazione (ovviamente immacolata a prescindere per i pasdaran del Grande Occidente). C’è dunque in corso in questo momento una prova di forza nella quale come mai in passato Israele può essere costretto a cedere qualcosa della sua supremazia assoluta e i palestinesi possono guadagnare una posizione più favorevole per cominciare a costituirsi in una entità statualmente meno ectoplasmatica. Ciò sta a significare però che la pace in Palestina non è per domani e nemmeno per dopodomani, non solo per le modalità e l’esito in sé di questa prova di forza ma anche e soprattutto perché una volta che si pervenisse ai due Stati essi, come si può facilmente intuire, entrerebbero ben presto in contrasto su tutte le questioni su cui la via diplomatica in tutti questi anni non è riuscita a trovare un qualche accordo. Non si vede perché, infatti, il nazionalismo euro-israeliano e quello arabo-palestinese, rinfocolati già ora dai loro atavismi religiosi, dovrebbero svanire proprio quando la potenza di Stato consentirebbe loro di regolare definitivamente i conti. Se l’attuale realtà politica effettuale in Palestina è senza via d’uscita,  ciò è dovuto al fatto allora che il conflitto, da qualsiasi parte lo si affronti, è imbozzolato in un nazionalismo che, ad un tempo, corrompe le classi ma consente alle rispettive borghesie di continuare a ingrassarsi o con il più sofisticato dei capitalismi agrario e industriale (Israele) o con la corruzione (Palestina) o con la rendita energetica (Stati arabi). La prova di ciò sta nella marginalità politica in cui langue la composita classe operaia dell’area in questione che nella componente palestinese diventa addirittura marginalità esistenziale. Basta informarsi su cosa accade nei valichi di frontiera, dove all’alba passano i lavoratori palestinesi diretti nei campi degli “avanzati” agricoltori israeliani, subendo ogni sorta di umiliazioni e di respingimenti. O basta considerare la sorte dei contadini palestinesi proletarizzati costretti a vendere la propria forza lavoro nei parchi industriali israeliani tirati su, in combutta con imprenditori palestinesi, nelle terre loro espropriate dove Tsahal, vero e proprio braccio armato del capitalismo israeliano, ha costruito quel moltiplicatore economico che è il Muro. O basta non ignorare che un lavoratore palestinese, se ha un’occupazione in Israele, deve avere un permesso di lavoro e di soggiorno che spesso si ottengono solo con l’intermediazione di broker che trattengono anche il 30% del salario, subendo per soprammercato quotidianamente le vessazioni dei check point di cui si diceva prima, iniziando la giornata alle quattro del mattino per finirla alle dieci di sera, versando i contributi in Israele senza avere diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione. E un po’ meglio invece va se il lavoro è nella Cisgiordania, dove vi è sì, più “libertà”, ma il salario è un terzo e il sistema sociale è un mero abbozzo. In questi giorni nei talk show sta furoreggiando l’affermazione di Giulio Andreotti secondo la quale se nasci in un campo di concentramento quale è Gaza non puoi non diventare un terrorista. Come tutte le arguzie di questo grande statista dal bacio facile, anche questa è una nebbiolina buona come un suffumigio per ammorbidire le grosse fauci della coscienza borghese. In Palestina, ma in generale dalle parti del Medio Oriente, non si diventa terroristi perché si nasce in un campo di concentramento, ma perché il capitale sfrutta il lavoro nella maniera più brutale, cioè secondo modalità in cui non esiste nessuna prospettiva non tanto di una trasformazione rivoluzionaria di tale condizione di sfruttamento, ma neppure di una sua mitigazione opportunistica o “riformistica” che dir si voglia, com’è nel caso del capitalismo metropolitano di cui Israele nel suo complesso è parte integrante. Perciò assieme al tedio che provoca l’irrancidimento nazionalistico della questione arabo-israeliana, monta soprattutto l’infinita pietà per i tanti esseri umani che nei modi più orribili a causa di esso perdono la vita.