Politica

De Monticelli su Heidegger. Accordi e disaccordi.

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La vibrante confutazione che Roberta De Monticelli, in nome del valore della verità logica affermato da Frege e Husserl, opera delle patetiche posizioni assunte dagli heideggeriani, dopo la pubblicazione di alcuni degli indifendibili Quaderni neri del loro ancor più nero maestro1, appare però fuori bersaglio quando, dopo aver richiamato l’interpretazione di Jeanne Hersch del nazismo di Heidegger, nella quale si separa nettamente la “modernità” dal “destino dell’Occidente”, la ragion pratica da Auschwitz, l’Illuminismo dal nazismo, alla fine si commenta: “Con buona pace di Adorno-Horkheimer, e della loro oscura Dialettica del’Illuminismo2. Questa chiosa frettolosa, come di chi vuol regolare tutti i conti in un colpo solo, indebolisce l’accusa capitale che De Monticelli muove a Heidegger, di essere stato non tanto nazista, non tanto antisemita, quanto piuttosto e soprattutto sofista, con ciò negando la funzione critica che, da Socrate in poi, fa della filosofia quel che è. Perché sarebbe oscura la Dialettica del’Illuminismo di Adorno-Horkheimer? Forse perché anch’essa è in qualche modo sofistica? O semplicemente perché è, appunto, oscura? Insomma, non sarebbe stata inopportuna una parola di chiarimento sui gradi con cui è possibile negare il criterio del vero e del falso, e quindi distinguere ciò che è semplicemente oscuro, ma non infondato, e ciò che è irrimediabilmente sofistico. Una simile distinzione avrebbe probabilmente portato a ribadire – senza per questo doversi accodare a coloro che insegnano che la verità è violenza, che l’Illuminismo preso di mira da Adorno-Horkheimer ha rivestito troppe volte quel sommo valore con gli stivali dell’oppressore. E avrebbe fatto emergere che non è tanto la forma sofistica dell’argomentazione il motivo per il quale Heidegger appare come un traditore del compito critico della filosofia, quanto piuttosto – senza anche qui doversi adeguare a chi processa la filosofia per evitare di giudicare i cattivi filosofi, la sua adesione al pregiudizio antisemita, quale contenuto culturale che percorre senza soluzione di continuità la mente europea sin dalla prima epoca cristiana. Una mente che, rispetto a quella di altre civiltà, appare in grado di decentrarsi ma solo in rapporto al raggiungimento della potenza, che è caratterizzata da una maggiore motorietà e da un desiderio vitale più pronunciato, ma come sfrenato movimento che si traveste di libertà, e che riconosce l’altro ma quale misura del proprio sentimento di superiorità. È stato Hegel a definire questa morfologia:

«All’europeo interessa il mondo; egli vuole conoscerlo, vuole appropriarsi dell’altro, che gli sta di fronte, vuole porre in luce nella particolarità del mondo il genere, l’universale, il pensiero, l’intera universalità […] Lo spirito europeo contrappone il mondo a sé, si rende libero da esso, ma risolve di nuovo questa antitesi, riprende il suo altro, il molteplice, in sé, nella sua semplicità […] Come nel dominio teoretico, così anche in quello pratico lo spirito europeo aspira all’unità da produrre fra esso e il mondo esterno […] Esso sottopone il mondo esterno ai suoi scopi con un’energia che gli ha assicurato il dominio del mondo»3.

Come si vede, con una narcisistica autocomprensione, la mente europea qui prende coscienza di sé, ma è una coscienza in cui l’altro diviene il simulacro in cui iniettare l’energia esplosiva del proprio sé. Ora, in questa mente che riconosce l’altro divorandolo, sin da sempre l’ebreo incarna il persecutore interno. Se c’è un motivo culturale che accomuna le generazioni europee, e che unisce tanti esponenti del “pensiero più elevato”, come si esprime comicamente l’ostinata heideggeriana4, con lo sterminato “senso comune” popolare, questo è il pregiudizio antiebraico. Se c’è una colpa, allora, che si può, che si deve imputare al nero filosofo della Foresta Nera, è di aver rinunciato non tanto alla critica filosofica in astratto, ma alla critica filosofica del senso comune europeo, trasformando la filosofia in una nenia con cui cullare il sonno di una ragione mai effettivamente divenuta regolatrice dell’azione, neanche nella pura formulazione di Kant. E c’è bisogna qui di richiamare la critica marxiana della scissione di uomo e cittadino? Oppure, a proposito di indifferenza e di indistinzione, si deve accettare l’idea che le formule paranoiche dello pseudosciamano di Todtnauberg possano stare sullo stesso piano del paradosso critico con cui Marx, nella Questione ebraica, mette il senso comune europeo di fronte alla miseria della sua condizione cristiano-borghese?5 Ma questo discorso della mente europea che, ossessionata dal suo interiore persecutore errante, vaga inquieta per il mondo facendolo esplodere della sua libidine di potenza, può sembrare un discorso antiquato, ora che l’Europa non ha più eserciti, ma solo una Banca centrale che amministra con “rigore” il tasso di inflazione dell’eurozona. E se questo “rigore” fosse parente stretto del “rigore” che l’heideggeriana inconsolabile ammira rapita nel delirio antifilosofico con cui Heidegger liscia il pelo alla belva dell’antisemitismo europeo?6 E se la Banca, insomma, fosse la sublimazione di quella potenza che ora non è più politicamente corretto perseguire con gli eserciti?7 Qui è possibile delinerare una risposta differente alla pur coraggiosa domanda che Roberta De Monticelli pone alla fine della sua confutazione, e cioè come fu possibile? Come fu possibile che, dopo il ’45, Heidegger, sdoganato prima in Francia e poi in Italia, dominò con il suo pensiero sul continente per mezzo secolo ancora. Per De Monticelli, Heidegger vinse perché la sofistica del suo pensiero, negatrice di ogni differenza fra nazismo e no, fra vittime e carnefici, fra Illuminismo e Auschwitz, fra ragione e delirio, si impose anche nella mente di chi per sentimenti, storia personale, adesioni profonde si situava su un altro fronte politico8. Questa risposta, non se ne abbia a male l’intrepida autrice, ci sembra una non risposta. Come ci mostra la psicogenesi, la verità è una morale dell’azione se l’azione ha già sperimentato la moralità della cooperazione. È forte invece l’impressione che, in tutta la sua storia, ma ancora nel mezzo secolo e oltre dominato dall’“elevato pensiero” del vate dell’Essere, la mente europea, presa nella socievole insocievolezza della sua “società civile”, non è mai pervenuta a quella moralità cooperatoria da cui può scaturire un genuino attaccamento alla verità logica. È questa la ragione per cui Heidegger con il suo culto del Führer quale interprete del principio di comunità, radice e destino, ha trionfato e trionfa. È questa la malattia dello spirito europeo, che non può essere certo curata, qui non si può che essere d’accordo con De Monticelli9, con quella ultra-indeterminata astrazione del “Potere” su cui, da Foucault a Agamben a Žižek all’Italian theory, rimugina con le migliori intenzioni una certa versione pop della funzione critica della filosofia. Per questo appare fuori luogo l’ironia che De Monticelli riserva, fra le tante entità assimilabili alla Macchinazione heideggeriana, anche al Capitalismo, alla Finanza e al Neoliberismo10. Nessuno può negare la flebile presa che questi termini esercitano sulla desolata realtà del nostro tempo. Ma se il linguaggio difetta, l’assolutismo dell’odierna realtà sociale capitalistica è così compatto che frantuma anche la felice oasi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, magari sotto specie di una sin troppo impudente offerta di cattedra alla figlia del magnate fresca di laurea da scambiare con qualche lauto finanziamento. Offerta contro cui, con una presa di posizione che le fa onore, Roberta De Monticelli ha pubblicamente protestato. E questa non indifferenza si fa ammirare più di un’ironia che conduce troppo in là la pur essenziale funzione critica della filosofia.

  1. Roberta De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, consultabile on line nel sito di “Micromega”. I riferimenti sono al pdf scaricabile da quel sito. []
  2. Ivi, p. 5. []
  3. G. W. F. Hegel, Enzyclopädie der philosophischen Wissenschaften, a cura di H. Glockner, Stuttgart, Fromman, 1927-39, X, pp. 71-80, tr. it. in Pietro Rossi, Storia universale e geografia in Hegel, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 102-103, cit. in B. De Giovanni, La filosofia e l’Europa moderna, Bologna, Il Mulino, 2004, p. 230. []
  4. “Il pensiero più elevato si è prestato all’orrore più abissale” (D. Di Cesare, Heidegger e gli ebrei. I «Quaderni neri», Bollati Boringhieri 2014, p. 3, cit. in De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit., p. 1. []
  5. Su questo punto mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, parte I, cap. VII. []
  6. “Rigoroso e coerente, Heidegger non fa che trarre la conclusione di ciò che ha detto in precedenza. Gli ebrei sono agenti della modernità: hanno diffuso i mali…complici della Metafisica, hanno portato ovunque l’accelerazione della tecnica. L’accusa non potrebbe essere più grave” (D. De Cesare, Heidegger: “Gli ebrei si sono autoannientati”. Nei nuovi “Quaderni neri” del filosofo l’interpretazione choc della Shoah, “Corriere della sera”, 8 febbraio 2015, articolo consultabile on line, e citato da R. De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit. p. 6). []
  7. Su questo punto mi permetto ancora di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, cit., parte II, cap. IV. []
  8. De Monticelli, L’Essere in guerra con l’ente. Heidegger, la questione dei “Quaderni neri” e la cosiddetta “Italian Theory”, cit., p. 10. []
  9. Ivi, p. 8. []
  10. Ivi, p. 4. []

Gramsci, un brutto scherzo

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Tutto cominciò con una contraddizione rilevata in pubblico circa il rapporto tra Gramsci e Wittgentein1. Nel commento ad un testo che attaccava aspramente il suo ultimo libro, si dichiarava ultraconvinto  che  non  sia  possibile  riscontrare  una  influenza  di  Wittgenstein  su  Gramsci2, quando invece in un articolo di qualche anno prima era parso che affermasse proprio il contrario. In quell’articolo, infatti, sosteneva che l’argomento così specialistico del Quaderno 29, il concetto di grammatica, era da far risalire probabilmente allo stimolo dei resoconti che Sraffa fece a Gramsci degli intensi colloqui che aveva con Wittgenstein, impegnato nella “svolta linguistica”3. Da quell’intervento, trascorse qualche giorno di silenzio, che già faceva intuire una comprensibile irritazione, ma quando la reazione arrivò, si concretizzò, anziché in un intervento pubblico, solo in una mail privata4. In essa lamentava che la discussione pubblica era viziata da certi toni da talk show televisivi, ai quali gli rimproverava di essersi ultimamente adeguato, prendendo anche il vezzo, tutto ideologico ed ecclesiastico, di criticare qualcuno per ammiccamenti comprensibili solo ai chierici della setta. Quella risposta privata, dunque, era un’eccezione che faceva in nome delle comuni e antiche frequentazioni dei testi gramsciani. Fatta questa premessa, veniva al dunque:

 

E’ così difficile leggere un testo con serenità? Ma quando mai ho scritto che Gramsci nella sua elaborazione teorica è stato influenzato da Wittgenstein? Per farlo dovrei rinnegare Lingua intellettuali egemonia (passi per gli altri ma tu quel libro dovresti conoscerlo; vi sei anche ringraziato) e non ho nessuna intenzione di farlo. Ho scritto che verosimilmente la scrittura del  Q 29 fu “sollecitata (has been spurred) dai racconti sraffiani dei problemi di filosofia del linguaggio su cui lavorava Wittgenstein”. Ma per te “essere sollecitato da qualcuno a scrivere qualcosa” e “essere influenzato nel modo di pensare da qualcuno” sono la stessa cosa? Debbo spiegarti la differenza? Qualcuno ti racconta delle discussioni che si conducono, poniamo, in una prestigiosa università tedesca sul rapporto tra grammatica e potere. L’argomento ti interessa e ti fa ricordare cose a te familiari. Decidi di scrivere un appunto per mettere in chiaro il tuo punto di vista. E’ chiaro che lo fai col bagaglio delle tue conoscenze e non con quello dei tuoi colleghi tedeschi che magari non sai neanche chi sono. Sei stato sollecitato dai racconti del tuo amico a scrivere il tuo appunto e però il contenuto e i riferimenti culturali che usi provengono dalla tua storia personale e nulla hanno a che fare coi riferimenti culturali di chi si trova in Germania. Ma perché mi fai spiegare queste cose? Gli equivoci di cui parli credo proprio che stiano tutti nella tua testa.

 

In effetti, in quel suo intervento, equivoci egli ne aveva rilevati più di uno. Andando oltre il fatto filologico, aveva infatti definito un equivoco l’affinità del pensiero di Gramsci con quello di Wittgenstein:

 

Sostenere, infatti, come tu fai ancora oggi nel commento che hai postato, l’esistenza di una “corrispondenza, in sede di elaborazione teorica, tra l’ultimo Wittgenstein e i Quaderni” (note a Naldi e De Vivo, p. 10), è a mio modo di vedere un equivoco. Non essendo uno specialista, e per di più nememno autorevole, del pensiero di Wittgenstein, non so se posso permettermi di dire che Wittgenstein è un custode delle “forme di vita”, e nel suo pensiero non c’è nessuna indicazione su come passare da una “forma di vita” o “gioco linguistico” all’altro. Prova ne è che l’etica, e oso dire la politica, per lui sono fatti mistici. All’opposto, Gramsci è un eversore delle “forme di vita”, e l’etico-politico per lui è lo strumento con cui il soggetto interviene razionalmente nel corso storico, per sollecitare i passaggi genetici da una “forma di vita” all’altra.

 

E un altro equivoco che gli era parso di dover rilevare era quello del Gramsci “democratico”:

 

Qui si lega l’altro equivoco, quello della democrazia, dove ora anche Angelo Rossi, con altri argomenti e prospettive, si unisce a te nel sostenere il Gramsci liberal-democratico. Quello che mi pare di capire è che la democrazia per Gramsci, ovvero la democrazia capitalistico-borghese, è una “forma di vita” che va violata nei suoi presupposti culturali, che si ritrovano formalizzati negli ideologi di tale “forma di vita” (penso, ad esempio, ma è un’aggiunta mia, all’opulenza e alla distinzione fissati da un Mandeville). Senza una simile “scissione”, ma con il tuo amato Bachelard potremmo anche dire “rupture”, “rottura” di una “sostanza” sociale, le istituzioni liberal-democratiche, proprio perché sono forme che processano contenuti, non possono che riprodurre il dominio capitalistico-borghese che Gramsci invece vuole superare.

 

Su questi punti, ecco la sua replica:

 

Il “Gramsci eversore delle forme di vita” e che programma di superare la  “democrazia capitalistico-borghese” appartiene a un altro ordine di discorso. Faresti bene a sostanziare con citazioni dai Quaderni le tue asserzioni. Detto con questa genericità non so né seguirti né confutarti. A me sembra che tu, insieme a tanti altri, ti sei costruita una immagine di Gramsci che poco ha a che fare col Gramsci in carne e ossa che pensava e scriveva tra carcere e cliniche. Può darsi che hai ragione tu. Quando mi convincerai non mi farà problema il riconoscerlo. Al momento non sono nemmeno in grado di confutarti.

 

A questa mail, che si chiudeva ricordando l’antica amicizia, egli rispose con un tentativo, che sapeva sarebbe stato vano, di riportare la discussione là dove era nata:

 

Perché non continuare a discutere in pubblico? Al netto di una comprensibile irritazione, cosa c’è nei tuoi argomenti, e nei contro argomenti che io potrei avanzare, da non poter essere detto in pubblico? Noi stessi saremmo sicuramente più rigorosi e controllati nelle nostre argomentazioni. Così, cosa vuoi che ti risponda? Che a me il Gramsci für ewig del ’35, ormai tutto preso da problemi filosofico-linguistici, non mi convince, e mi convince di più un Gramsci sempre politico interessato ai movimenti dell’egemonia? Vuoi le citazioni testuali che sostanzino il Gramsci eversore delle forme di vita? Me se tu stesso ricordi nel tuo commento al testo postato (note a Naldi e De Vivo) che Gramsci criticò Sraffa nel ’24 sulle libertà borghesi? E che cosa mi dovrebbe indurre a ritenere che la sua successiva e finale proposta di Assemblea costituente costituirebbe un ripensamento di quella posizione anti-borghese? Forse gli argomenti di Angelo Rossi, che proietta piamente su Gramsci la “politica democratica” del quadro medio comunista degli anni Settanta? Riguardo alla mia immagine di Gramsci, i miei più recenti interventi gramsciani non hanno avuto confutazioni, anzi l’articolo sull’espressività è stato tradotto in una lingua esotica come il giapponese. Vuol dire che il mio Gramsci non è poi così campato in aria.5

 

La risposta non fu molto conciliante:

 

Mio caro, la chiacchiera ideologica non ha vincoli: può dire tutto e il contrario di tutto purché non si perda di vista l’obiettivo finale (non importa quale esso sia); non sbaglia mai (sbagliano sempre gli altri); la lettura attenta di quello che l’interlocutore dice o scrive è del tutto irrilevante. Il dibattito scientifico ubbidisce a rigidi canoni etici: anzitutto ci si sforza di capire ciò che si legge; non si bara sul significato delle parole; si riconoscono i propri errori. Questi standard tu in poche righe riesci a violarli almeno due volte.

(1) Hai spiegato con susseguosa sapienza da grande intellettuale gli equivoci in cui è incorso Lo Piparo. Lo Piparo prova a spiegarti che quegli equivoci esistono solo nella tua testa non sapendo o non volendo tu fare la distinzione (banale) tra “essere sollecitato da X” e “essere influenzato nel modo di pensare da X”. Tu che fai? Taci. Cambi discorso. L’etica scientifica ti dà due alternative: spieghi dove sta l’errore di Lo Piparo; riconosci l’errore e lo dichiari negli stessi luoghi in cui hai pontificato. La chiacchiera ideologica al contrario pratica il coraggio virile del silenzio.

(2) Lo Piparo ti chiede di “sostanziare con citazioni dai Quaderni le tue asserzioni” sulla soggettività che rompe. Tu che fai? Sostanzi le tue asserzioni citando L’Ordine Nuovo del 1924. Tipica prassi teologica e ideologica.

Vorresti discutere in pubblico in questo modo? Sarebbe una perdita di tempo. Mi dispiace costatare con quanta facilità hai dimenticato le tue letture di Pareto e Vailati. O forse sono stato io a non avere capito che non avevi capito.

Quando mi convincerai che sbaglio lo ammetterò. Nessun problema.6

 

L’accusa frontale di “ideologia”, un suo vecchio cavallo di battaglia, restringeva di molto la possibilità di discussione. Decise perciò di aggirarla:

 

Va bene, per amore della discussione mi adeguo al tuo stile argomentativo:

(1) se “essere sollecitato da X” è un frammento logico del mondo, credo che sia più probabile che sia saturato dall’argomento “Y ha scritto un Quaderno 29 sollecitato dai fatti grammaticali del suo ambiente italiano interpretabili nell’ambito di un suo indirizzo teorico di azione politica detta egemonia”, anziché dall’argomento “Y ha scritto un Quaderno 29 sui fatti grammaticali del suo ambiente italiano sollecitato dai racconti dell’amico Piero circa le riflessioni linguistiche del suo amico Ludwig”, e ciò per il fatto che il primo argomento ha lasciato una traccia testuale (Q. 29, § 3, p. 2346), mentre il secondo è oggetto solo di indizi e supposizioni. Vale dunque, almeno per me, la maggiore certezza logica;

(2) una polarità che percorre i Quaderni è quella tra concezione tolemaica e concezione copernicana. Il senso comune è tolemaico, le masse cattoliche sotto il controllo morale della Chiesa sono tolemaiche, le classi subalterne che condividono la fede nella concezione fatalistica della filosofia della praxis sono tolemaiche. Al contrario, il “buon senso” derivato dalla critica filosofica del senso comune è copernicano, il mondo moderno è copernicano, la nuova filosofia della praxis che Gramsci si propone di elaborare è copernicana. Le citazioni le puoi trovare facilmente tu. Per me,  si tratta dell’opposizione tra due “forme di vita”, una delle quali, quella tolemaica, per Gramsci va attivamente violata e trasformata senza residui nella nuova, quella copernicana. La finalità è la seguente: «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). Ovvero un organismo sociale dove il soggetto egemonico si autodissolve nella reciprocità.7

 

La mail si concludeva, oltreché con un reiterato invito a tornare a discutere in pubblico, anche ribattendo velocemente all’accusa di “ideologia”:

 

Qui mi fermo, perché ulteriori implicazioni potrebbero risultare per te ideologiche. Non vedo perché queste cose non avremmo potuto dirle in pubblico. Ti mando con un po’ di scetticismo un lavoro gramsciano in corso di pubblicazione. Perché non c’è imputazione più teologica dell’imputazione di ideologia.8

 

La risposta arrivò l’indomani mattina inoltrata. Avrebbe voluto rispondere a caldo, gli scriveva, ma aver desistito era stato un bene, perché quello che, nella fretta, aveva in mente di dirgli lo avrebbe sicuramente deluso. In ogni caso, però, ribadiva che rileggendo a freddo le sue osservazioni non aveva cambiato idea:

 

L’argomento (1) non capisco veramente in che cosa mi confuti. Vi trovo una conferma dell’idea, anche gramsciana ma già aristotelica, che è impossibile confutare con argomenti razionali una forte passione. Ci si può solo affidare al tempo che prima o dopo rasserena anche le passioni più estreme.

L’argomento (2) è proprio di un adolescente che crede negli angeli e in Padre Pio, volevo dire nello Stato etico comunista ovvero nel paradisiaco regno della libertà.

Il passo che citi è datato 1931-32. I testi gramsciani vanno letti non trascurandone la data; mi permetto di rimandarti a pp. 101 sgg. di I due carceri.  Il passo citato è la conclusione, ambigua e gramscianamente non chiara, di una tipica argomentazione gramsciana riguardante i due momenti dell’egemonia e della dittatura. La conclusione si può effettivamente leggere nel senso che esiste un gruppo sociale che istaurerà lo Stato etico dove esisterà solo e soltanto consenso. Ossia versione di sinistra di Gentile e del fascismo. Altrove, ma per fortuna si tratta di casi rarissimi, questo Stato etico (e, nell’impianto teorico, fascista e/o stalinista) lo chiamerà «società regolata». La conclusione del ragionamento di pp. 1049-50, se interpretata (è possibile) in senso gentiliano, contraddice tutto il resto dei Quaderni (quelli più recenti, soprattutto ma non soltanto) dove i due momenti (consenso spontaneo e forza coercitiva) sono detti ineliminabili e il volerne abolire la distinzione si dice che sia il proposito di «strutture governative illiberali» (sto citando).

I Quaderni sono il diario intellettuale di un pensatore che fa i conti con la propria cultura e la propria formazione, non bisogna quindi leggerli come espressione sistematica e coerente di un pensiero.

La definizione di una forma di vita copernicana non la trovo nei Quaderni che posseggo. O si tratta di una riformulazione, in terminologia wittgensteiniana, del gentiliano e fascista Stato etico?9

 

In questa discussione dai passaggi corti, per la verità alquanto fallosa, il tocco successivo avrebbe dovuto essere ora quello di ricordargli che non erano in questione le sue attardate credenze adolescenziali, bensì le possibilmente oggettive teorie di Gramsci. E avrebbe dovuto essere anche quello di ricordargli che il passo di Q. 8, § 179, p. 1050, era sì del 1931-32, ma Gramsci successivamente non lo cancellò e riscrisse, a differenza di altri paragrafi dello stesso Quaderno, ritenendolo quindi definitivo nella primitiva stesura10. E avrebbe dovuto essere infine quello di ricordargli che “fare i conti con la propria cultura e formazione” è nozione impropria in Gramsci, poiché le riscritture di brani dei Quaderni ebbero la funzione di sistematizzare e generalizzare, non certo di revisionare o peggio abiurare. E in effetti egli aveva già digitato qualcosa in tal senso, e stava per inviarlo, ma all’ultimo momento, pur sapendo che sicuramente la discussione si sarebbe così interrotta, non seppe resistere alla tentazione di un tiro “ideologico” secco all’incrocio dei pali:

 

Mio caro, dai tempi del tuo Lingua intellettuali egemonia, i tuoi sforzi di mantenere Gramsci sul terreno liberale sono ammirevoli. Solo che, per sorreggere il tentativo, hai bisogno di tante ipotesi ad hoc. In quanto scrivi, ce ne sono alcune: “ipotesi ambigua e gramscianamente non chiara”, virate verso il fascismo e il gentilismo di sinistra per fortuna rarissime, contraddizione con tutto il resto dei Quaderni, necessità di una interpretazine diacronica degli stessi Quaderni. Capisco, ma devi fartene una ragione. Gramsci ai liberali crociani italiani ha giocato un brutto scherzo, zufolando nel flauto dolce della “egemonia” li ha portati su un terreno che non è più il loro, facendogli credere però che sono sempre a casa propria. Di qui un continuo spaesamento che si cerca di placare riportando all’antico ceppo il geniale figliol prodigo. Rassegnati. Gramsci è andato via di casa, e dalle sue contaminazioni è venuto fuori altro, che non è più nella disponibilità di chi al liberalesimo crociano si richiama.11

  1. F. Aqueci, Intervento nella mailing list della IGS Italia del 10 marzo 2015, h 18:20, sul testo di F. Lo Piparo, Note a De Vivo e Naldi, Gramsci, Wittgenstein, Sraffa e il prof. Lo Piparo. Fatti e fantasie, postato nella mailing list della IGS Italia, 10 marzo 2015, h 12:08. []
  2. F. Lo Piparo, Note a De Vivo e Naldi, cit., p. 10. []
  3. F. Lo Piparo, Gramsci and Wittgenstein: an intriguing connection, in A. Capone (a cura di), Perspectives on language use and pragmatics, München, Lincom Europa, p. 293. []
  4. F. Lo Piparo, 12 marzo 2015, h 11:41. []
  5. F. Aqueci, 12 marzo 2015, h 20.10. []
  6. F. Lo Piparo, 13 marzo 2015, h 09:55. []
  7. F. Aqueci, 13 marzo 2015, h 17:55. []
  8. Ibidem. []
  9. F. Lo Piparo, 14 marzo 2015, h 11:10. []
  10. L’Edizione critica del 1975 lo riporta infatti in corpo maggiore, a differenza dei testi riscritti, stampati in corpo minore, com’è specificato a pag. XXXVI dell’Avvertenza editoriale. []
  11. F. Aqueci, 14 marzo 2015, h 13:15. []

Una rivoluzione contro il popolo

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Un vero Stato etico è quello che programma il suicidio dello Stato. Questo, il punto di vista di Gramsci, così chiaramente espresso: «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale»1. Eppure c’è chi da questo passo tira l’idea di un cambiamento in cui «i comunisti, grazie alla cultura e al ruolo degli intellettuali, allarghino il più possibile il consenso, fino a farsi gradualmente stato»2. Sembra un marchiano fraintendimento, ma qui più che l’errore interpretativo conta il bisogno ideologico che con esso si manifesta. Oggi c’è voglia di Stato. Lo vogliono coloro che si sentono oppressi da quello Stato non Stato che è l’Unione Europea, e lo vogliono coloro che per paura che l’Unione Europea si sfasci, vogliono un grande Stato federale. Lo vogliono gli ucraini filorussi, che non accettano il “cambio di civiltà” e proclamano le loro “repubbliche autonome”, e lo vogliono gli ucraini filoccidentali, che affermando lo Stato indipendente ucraino, possono mettersi sotto le ali della Nato e dell’Unione Europea. Lo vogliono gli islamisti che, dalla Siria e dall’Iraq, hanno proclamato il “califfato”, e lo vogliono i curdi, che con lo Stato possono difendersi dalla barbarie islamista e riscattarsi da una servitù secolare. E si potrebbe continuare. Oggi i popoli non vogliono spezzare lo Stato, ma restaurarlo. Cos’è questa voglia di Stato? Forse che è la voglia di parlamenti, di burocrazie, di apparati? Per nulla, anzi, i parlamenti e i partiti sono disprezzati, le burocrazie odiate, gli apparati detestati. Cos’è, allora, questa voglia di Stato? Oggi lo Stato, dicono alcuni, è ciò che, incarnando la “civiltà”, fa ritornare il popolo alla comunità originaria, dove un leader interpreta la sua volontà, e gli permette di partecipare al suo destino3. Ma qual è il destino del popolo? Il popolo oggi sa che deve trovarsi un territorio, che deve riprodursi, che deve mangiare e bere, che deve soddisfare le sue fantasie e i suoi desideri, oggi il popolo sa tutte queste cose, tranne qual è il suo destino. Il popolo è come un bambino perso nel buio, che aspetta chi lo prenda per mano e lo conduca in salvo. Ma coloro che si offrono a ciò, i capi, non sanno loro stessi dove andare, perché il popolo ignora il suo destino. Come si può interpretare qualcosa che si ignora? Allora, per brama di comando, i capi adulano il popolo, e gli fanno credere di poterlo salvare. Il popolo subodora l’inganno, e li odia a morte, ma è costretto ad amarli, perché sono loro gli interpreti del suo destino. In questo inferno populistico, la vera rivoluzione allora non può che essere quella del popolo contro se stesso. Il popolo oggi è il parassita di se stesso. Deve abbattere se stesso per scuotersi dall’ignoranza del proprio destino. Nessuno può dire al popolo qual è il suo destino, se non il popolo stesso abbattendo la propria ignoranza. Ma cosa si può fare perché ciò non resti solo un’aspirazione morale? Il popolo dovrebbe tornare a fare politica, riscoprire la società, ma il popolo ha altro per la testa. Deve soddisfare le sue fantasie e i suoi desideri, come gli impone l’imperativo consumistico, ma deve provvedere anche alla sua miseria e ai suoi bisogni, che sono tornati a crescere. Il popolo, nella pancia e nella testa, è sfruttato come non mai da un secolo a questa parte. Ecco, allora, che sorge il bisogno primitivo dello Stato. Lo Stato come strumento per spezzare lo sfruttamento, per sottrarsi all’ingiustizia. Sottomettersi a quella vecchia canaglia dello Stato, per avere quella giustizia che sempre lo Stato ha negato.

  1. Q. 8, § 179, p. 1050). []
  2. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 126. []
  3. A. Dugin in dialogo con Alain de Benoist, Eurasia. Vladimir Putin e la grande politica, Napoli, Controcorrente, 2014 []

Reductio Gramsci

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Radicamento nazionale contro l’internazionalismo mercatistico, socializzazione dei mezzi di produzione tramite la mediazione di una rinnovata potenza statale, previo abbandono della falsa opposizione tra destra e sinistra, antiquatamente basata su un antifascismo ridotto ormai ad alibi per sottrarsi all’impegno della lotta anticapitalistica, che invece deve essere alimentata da una rinascita dello spirito di scissione e deve avere come scopo l’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa. Questo il programma politico che Diego Fusaro tira dall’eredità di Gramsci, al cui pensiero dedica un suo recente libretto1. Ma qual è il Gramsci che serve per questo programma politico? Anzitutto, un Gramsci gentiliano. Grossi sbadigli per un tormentone che non finisce mai, quindi solo una breve messa a punto. Per Fusaro, i Quaderni, per quel loro sistematico dedurre l’essente dal porre soggettivo, rivelano un “gentilianesimo inconscio” che Gramsci tradirebbe con questa excusatio non petita: «Filosofia dell’atto (praxis), ma non dell’“atto puro”, ma proprio dell’“atto impuro”, cioè reale nel senso profano della parola»2. Ma dove starebbe l’excusatio? A quell’“impuro” Gramsci affida tutta la distanza che vuole mettere tra se stesso e il gentilianesimo, che al suo tempo si respirava come l’aria. E Gramsci dice pure in che consiste l’“impurità”, cioè nella “realtà nel senso profano della parola”, un realismo provocatoriamente ingenuo, che contraddice in toto il soggettivismo cui Fusaro vuole ridurre Gramsci. Nel Quaderno 29, quello sulla linguistica, Gramsci scrive che, circa l’apprendimento della lingua colta da parte della massa popolare, «nella posizione del Gentile c’è molta più politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, […] c’è tutto il reazionarismo della vecchia concezione liberale, c’è un “lasciar fare, lasciar passare” che non è giustificato, come era nel Rousseau […] dall’opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è diventato un’ideologia astratta, “astorica”»3. Come si vede, Gramsci, i suoi conti con Gentile, sia teorici che politici, li ha fatti, sostituendo una volta per tutte il vuoto divenire con la genesi storica, quale legalità del soggetto e dell’oggetto che, dopo Marx, solo un altro autore ha rivendicato con pari energia, cioè Lukács, un autore che Fusaro sicuramente conosce bene, ma di cui purtroppo – salvo un fugace cenno sull’alienazione, che avrebbe meritato ben altro approfondimento4 – non tiene conto, perché l’operazione ideologica che deve compiere, la fusione di destra e sinistra, gli sta più a cuore di una ricostruzione fedele del pensiero di Gramsci. E siamo all’altro Gramsci che serve per questa operazione ideologica, Gramsci ridotto ad elitista. Pareto sosteneva che la storia è un cimitero di élites, un rivolgimento ciclico che abbatte i vecchi governanti e innalza i nuovi5. Ed ecco come Fusaro caratterizza l’egemonia in Gramsci: «la crisi di un’egemonia si verifica allorché, pur mantenendo il proprio dominio, la classe politicamente dominante non riesce più a essere dirigente rispetto a tutte le altre classi e a imporre universalmente la propria visione del mondo. Accade, allora, che la classe dominata (a patto che non sia culturalmente subalterna), se riesce a indicare effettive soluzioni ai problemi lasciati irrisolti dalla classe dominante, può diventare dirigente e, estendendo la propria concezione del mondo anche ad altri strati sociali, può porre in essere un nuovo “blocco sociale”, vale a dire una nuova alleanza di forze sociali. In questo modo, essa può diventare egemone, andando ad occupare il posto della vecchia classe dominante e non più egemonica»6. Al netto di un certo verbiage, è esattamente il movimento ciclico descritto da Pareto7. È vero che, come Fusaro si affretta subito a precisare, la nuova classe dominante deve essere il proletariato, in seguito ad una riforma intellettuale e morale. Il movimento ciclico dovrebbe dunque approdare al compimento dell’ideale universalistico di un’umanità fine a se stessa, al quale Fusaro tanto tiene. Ma ecco come lo stesso Fusaro definisce ancora l’egemonia: «l’egemonia rappresenta il dominio culturale di un gruppo (o di una classe) che sia in grado di imporre ad altri gruppi, tramite pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista, fino a giungere alla creazione di un articolato sistema di controllo organizzato»8. È tutto ingentilito dalla cultura, ma la sostanza resta il dominio e il controllo che, appunto, un’élite esercita al posto di un’altra. Fusaro qui non mostra la minima predisposizione a comprendere che la “nuova egemonia” in Gramsci comporta la messa in discussione della coazione a ripetere del dominio, quale socialità bloccata elevata a condizione naturale9, e il motivo risulta evidente se si tiene conto che uno dei punti del suo programma politico è una rinnovata potenza statale, al nobile scopo, beninteso, di procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione. Così, il passo in cui Gramsci prospetta un organismo sociale in cui viene superata la divisione tra dominanti e dominati10, suggerisce a Fusaro l’idea di un cambiamento in cui «i comunisti, grazie alla cultura e al ruolo degli intellettuali, allarghino il più possibile il consenso, fino a farsi gradualmente stato»11. Prepariamoci, dunque, ad un comunismo culturale di stato, in cui recitando versetti della Divina commedia e salmodiando cantilene della civiltà dei sassi, si potrà procedere alla socializzazione dei rapporti di produzione. Perché è questo, alla fine, il Gramsci che serve, cioè il Gramsci al quale non si devono porre domande, ma da cui si possono trarre formule ragionevolmente, diremmo pure, culturalmente incendiarie. Va bene, la collana è quella che è, “Eredi”, dove non si capisce se in questione è l’eredità o l’erede che la intasca. Resta che il limite di questa presentazione di Gramsci è l’assenza di categorie teoriche con cui fare interagire nel presente il suo pensiero, che non siano le tradizionali categorie storiografiche (idealismo, materialismo, fatalismo, volontarismo, crocianesimo, gentilianesimo), che l’autore ravviva con la sua vis ideologica, forgiata anch’essa con materiali filosofici provenienti da una assimilazione in corsa del canone marxista. Un universo chiuso, in cui la filosofia è interpretata con la filosofia, meglio, con la storia della filosofia, ridotta ad una sceneggiatura di filosofici furori per attori più o meno bravi di qualche avventura politica di cui il genio italico è sempre prodigo.

  1. D. Fusaro, Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 2015. Il programma politico è enunciato nel capitolo conclusivo, p. 129 sgg []
  2. A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975 = Q, 4, § 37, p. 455, cit. in D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 83. []
  3. Q. 29, § 6, pp. 2349-50. []
  4. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 67. []
  5. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, edizione critica a cura di G. Busino, Torino, UTET, 1988, voll. 4, vol. III, § 2053. []
  6. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 104. []
  7. Una ricostruzione dell’argomento in F. Aqueci, Lo spettacolo della corruzione. Élites e partiti in Pareto, «Politeia», anno XXIX, n. 109, 2013, pp. 55-64. []
  8. D. Fusaro, Antonio Gramsci, cit., p. 102. []
  9. F. Aqueci, L’ironia della genesi. Modelli alternativi del conflitto comunicativo, “Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio”, vol. 6, n. 3, 2012, pp. 16-24. []
  10. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). []
  11. D. Fusaro, Antonio Gramsci,, cit., p. 126. []

Benvenuto, Presidente Mattarella!

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Il cesarismo plurale che ha caratterizzato per circa due anni la vita politica italiana, si sta avviando alla normalizzazione? Certo, Berlusconi sembra proprio infilzato, ma con Grillo la partita è già chiusa? Piangeva il cuore a vedere quei centotrenta voti buttati ai piedi di un nesci nominato dalla rete bizzosa, che però ha fatto comodo alla misteriosa dirigenza grillina, che ha potuto così trarsi fuori da una partita di cui non teneva il pallino in mano, perché anche se sin dall’inizio avessero votato Prodi, difficilmente i democratici si sarebbero divisi. La razionalità di questa strategia sta tutta in quell’incredibile venti per cento che i sondaggi continuano ad attribuire alla falange grillina, che spesso però dà l’impressione di tramutarsi in un’armata brancaleone. Ma cosa farne ora di questa massa di voti, prima che evaporino? Grillo si è incontrato con don Ciotti per discutere di reddito di cittadinanza. Se ne deve dedurre che l’iniziale ancoraggio alla piccola e media impresa, che faceva dei cinquestelle il partito del piccolo capitale, si sta allargando, forse con l’intento di egemonizzare quella “coalizione sociale” cui molti lavorano, anche sull’onda del successo di Tsipras, e che si dovrebbe contrapporre al “partito della nazione” che con l’elezione di Mattarella ha celebrato il suo successo. Ma i “cattolici democratici”, che ora possono farsi scudo addirittura di un papa come il gesuita argentino venuto dalla “fine del mondo”, si faranno rinchiudere così tanto facilmente in questo partito, che oggi appare come il comitato d’affari del capitalismo dei magnati? Inquieti e superbi come sono, c’è da dubitarne, e quindi anche nel “blocco nazionale” oggi trionfante le acque ribollono sotto una calma apparente, della quale l’ex sindaco di Firenze (non di più…) è pienamente consapevole. Quelli che invece appaiono del tutto senza prospettiva sono gli eredi del glorioso PCI, avendo aderito scriteriatamente nei decenni scorsi alla versione moderata, ma perciò tanto più stupida, dell’economicismo neoliberistico, ora in panne. Il loro cavallo era Giuliano Amato, e questo la dice lunga sull’arido politicismo cui si sono ridotti. Adesso sono alla mercé dei vecchi democristiani, che hanno soccorso agli inizi degli anni Novanta, svendendo il proprio patrimonio dottrinale, cui peraltro nessuno più credeva. Macerie. Ma anche fine degli equivoci.