Nel suo discorso del 22 febbraio 2013, a piazza San Giovanni, Grillo elencò le “parole guerriere” che riassumevano l’idea della nuova politica dei cinquestelle: comunità, onestà, partecipazione, solidarietà, sostenibilità1. Nel suo discorso del 10 dicembre scorso, all’Accademia Nazionale dei Lincei, Giorgio Napolitano, chiamato a riflettere da politico sulle “patologie” del nostro tempo, ha indicato nell’appartenenza ad una comunità, nei doveri verso i cittadini e nel bene comune, i valori su cui fondare una ripresa delle “ragioni della politica”2. Sono parole molto simili a quelle di Grillo. I due però non si capiscono, anzi, l’uno dà all’altro del Morfeo, del privilegiato e del complice, l’altro gli risponde tacciandolo di essere un eversore dell’antipolitica. Come si spiega questa totale incomprensione? Certo, Grillo è un rivoluzionario, Napolitano un gradualista. Ma cosa indicano queste etichette? Come si intrecciano e si scontrano queste due differenti storie politiche? Il contenuto della rivoluzione di Grillo è “il cittadino che si fa Stato”. Il gradualismo di Napolitano consiste nella “cultura del rispetto”, rispetto della cultura, delle istituzioni e delle persone. Il rispetto è l’esito del suo percorso ideologico, che ha le radici in una lunga storia. Se il gruppo dell’Ordine Nuovo torinese, nel ’19-’20, aveva infuso nella produzione il rigore della morale kantiana del rispetto, Napolitano rappresenta il punto massimo di evaporazione della “morale dei produttori” che da quell’innesto era derivata, e che con la “diversità comunista” e la “terza via” Berlinguer aveva tentato disperatamente di mantenere su un terreno ancora strutturale. Risalendo la corrente, Napolitano invece si sposta sull’antica sovrastruttura, ma quando credeva di aver raggiunto un approdo sicuro, inopinatamente qui incontra la “rivoluzione” di Grillo, che grida, insulta e strepita. Napolitano ne è disgustato, e denuncia allora la “comparsa in Parlamento di metodi ed atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità”. Grillo, però, non ci sta, e sottolinea ad ogni pie’ sospinto il carattere “non violento” della rivoluzione cinquestellata. Nella sua semplificazione teatrale della politica, con “non violenta” Grillo intende il fatto che con il suo movimento impedisce alla gente di scendere in strada a spaccare le vetrine. Ma il significato autentico di “non violenta” ce lo dà il suo sodale Casaleggio, il quale rassicura tutti, anche con opportune visite al Workshop Ambrosetti, che la rivoluzione cinquestellata non intende sovvertire minimamente i rapporti di produzione. Quello che lui vuole è uno spostamento di qualche grado dell’asse strutturale, dalla grande impresa e dalla finanza alla “piccola e media impresa”. A questa modesta rotazione, Grillo aggiunge l’epica del “cittadino che si fa Stato”, cioè una comunità virtuale dove l’individuo può dare libero sfogo alle proprie robinsonate, dall’elettricità prodotta con gli scarti di casa, alla pistola costruita con la futuribile stampante tridimensionale. L’antipolitica che tanto allarma Napolitano, si rivela allora solo un borborigma del capitale. Da vecchio comunista, Napolitano stesso lo capisce, ma essendo egli sempre stato un comunista “sovrastrutturale”, non va al di là di un rimbrotto, per così dire, “etico-politico”, ed è quando nel suo discorso ai Lincei addita i “giornali tradizionalmente paludati” quali complici dell’onda fangosa rivolta contro la “casta”. Ma se era qualcosa di più dell’eterno contrasto italiano tra “magnati” e “popolani”, sarebbe mai potuto accadere che quei due mattacchioni di Stella e Rizzo cavalcassero quell’onda dalle colonne del “Corriere della sera”? Ecco, allora, la solitudine di Napolitano, ormai lontano dal suo vecchio esercito, alla cui rotta contribuì volendolo sempre alienare in qualcos’altro, ottenendo solo alla fine di ritrovarsi in un empireo che, visto da vicino, è solo il luogo dove maschere, di volta in volta infide, ridanciane o vocianti, recitano lo “spettacolo degli interessi”.
Politica
Europa: federazione o confederazione?
Ieri, domenica 7 dicembre, Eugenrio Scalfari, in un’intera pagina di “Repubblica”, ha detto una cosa molto semplice che si può riassumere così: Draghi è per la federazione europea, Renzi per la confederazione. Poi Scalfari si è ulteriormente dilungato sui motivi di queste differenti scelte, che si possono riassumere anch’essi in poche parole: Draghi è per la federazione europea perché permette all’Europa di giocare un ruolo nello scenario mondiale, Renzi è per la confederazione perché vuole salvaguardare il suo potere di uomo di stato, che nel caso della federazione scadrebbe a quello di un qualsiasi governatore di uno stato americano. Scalfari cena spesso con Draghi al lume della ragione, come tiene a far sapere, e altrettanto tiene a far sapere che di tanto in tanto incontra Renzi, che gli sta simpatico, anche se non lo può vedere. Egli è dunque, come dire, informato sui fatti e le persone, e quindi possiamo credergli quando ci spiega le differenti strategie di questi due grand’uomini. Si vorrebbe solo osservare che l’Europa federale vagheggiata da Scalfari non è l’angelo della pace che l’umanità attende da duemila anni. Se l’Europa si federa, significa che avrà un esercito, e finalmente una politica estera con cui la Mogherini non si potrà più baloccare. L’Europa così avrà certamente un ruolo nel contesto mondiale, il che tradotto significa che si confronterà e molto probabilmente si scontrerà con gli Stati Uniti e con la Cina. Pensare che le cose possano andare diversamente, significa vivere sulla luna. Pensare che gli Stati Uniti, la Cina e l’Europa federata possano dare vita ad un governo mondiale è un sogno puerile, e fa specie che uomini molto navigati possano nutrirlo. Invece è molto più probabile che tra queste tre entità si scateni una competizione, anche guerresca, se è il caso. Non c’è bisogno di essere Lenin per capirlo. La storia inoltre insegna che il federalismo arma i popoli, anziché disarmarli. Lasciamo stare la Svizzera, dove pure ogni cittadino tiene a casa il suo fucile di bravo soldato in sonno, ma il passaggio degli Stati Uniti da stato confederale a stato federale, avvenuto con la Guerra Civile, ha dato luogo allo stato imperialista più potente e guerresco della storia. Insomma, il bel raccontino che ci ha fatto Scalfari sulle lungimiranti intenzioni di Draghi, anziché rassicurarci, ci ha allarmati. Questo non significa che preferiamo l’Europa degli staterelli, dove tutti i Renzi possono fare coccodé. Ma se l’Europa vuole proprio fare qualcosa, perché non comincia a risolvere i suoi problemi con la Russia? Si tratta di una civiltà e di una potenza territorialmente contigua, e culturalmente con tante cose in comune. Certo, noi stiamo delegando la disciplina matrimoniale ai gay, mentre loro sono per i valori tradizionali della civiltà cristiana, ma la Russia ha l’atomica e, come si sa, tante materie prime. Un blocco tra Europa occidentale ed Europa eurasiatica avrebbe ben più che un ruolo nel contesto mondiale, con il vantaggio che ognuno potrebbe restare padrone a casa sua. C’è da augurarsi che l’imperialismo europeo non si ridesti, e con la moneta porti a termine la rivincita sul 1945. Meraviglia molto che uomini che hanno vissuto in quegli anni, spieghino ai giovani come ritornarci per vie traverse. Con questo, non stiamo dicendo che Draghi è un Mefistofele che sta preparando l’inferno. È solo un banchiere che primeggia nel nanismo della politica. Renzi purtroppo non è un gigante. Ecco, questo è l’unico punto su cui Scalfari ha ragione.
P.S. In un’intervista rievocativa dei suoi novant’anni, apparsa sullo stesso numero di “Repubblica”, Alfredo Reichlin ha affermato che la sinistra «ha fallito. La sua crisi rientra nel più generale declino della civiltà europea. È finita l’occidentalizzazione del mondo». Quindi, la sinistra era un’articolazione dell’imperialismo europeo. Insomma, Lenin, ancora lui, non aveva capito niente.
La sinistra e i deboli
Il diritto di proprietà è più arcaico, legato com’è all’ozio del padrone, mentre il diritto del lavoro è più moderno, poiché si afferma nello scontro tra lo schiavo e il padrone, che è uno scontro, come mostra Hegel, che illumina pure la coscienza del padrone. Che ciò non sia mera speculazione filosofica, lo si vede bene nella pratica dei giuristi romani i quali, di fronte alla questione di chi fosse l’oggetto, se di chi lo aveva posseduto da sempre, o di chi lo aveva modificato con il proprio lavoro, in epoca più recente facevano prevalere la seconda soluzione, a differenza di quanto accadeva in un’età più risalente quando, essendo ancora il lavoro disprezzato come pratica vile, si faceva prevalere il diritto proprietario. È vero che non bisogna scomodare le grandi cose del passato per i miseri casi del presente, ma non si può fare a meno di pensare ad esse sentendo Matteo Renzi declamare che la sinistra sta «dalla parte dei più deboli»1. Ma quali deboli?! Nel tanto esecrato Novecento, gli operai e i contadini sono stati protagonisti non perché deboli, ma perché si battevano per far prevalere, sull’arcaico diritto di proprietà, il ben più moderno diritto del lavoro. Erano quindi gli agenti di una trasformazione sociale che apriva per tutti, padroni ed operai, orizzonti più larghi ed universali. È questo il nocciolo del discorso di Gramsci sulla funzione dirigente dei subalterni, in rottura con un certo socialismo sentimentale, nel quale invece con rivendicazioni “debolistiche” come quelle del Gianburrasca fiorentino si ricade con tutti e due i piedi. Ma cosa gliene importa a Renzi di tutte queste storie, lui è mica un “margheritino” che si impunta sull’adesione del PD al “socialismo europeo”, lui è spregiudicato, per lui il “socialismo” è solo un taxi che gli serve a fare un certo tratto di strada della sua bella carriera di uomo di potere, e poi scenderà, e farà il gesto dell’ombrello, tra gli applausi del pubblico in delirio.
- M. Renzi, Ecco la mia sinistra: sta con i più deboli e non ha bisogno di esami del sangue, “la Repubblica”, 22 novembre 2014 [↩]
L’ineludibile principio. Sul Gramsci di Angelo Rossi
Habent sua fata libelli, e così il libro di Angelo Rossi su Gramsci1, tutto interno all’interpretazione gramsciana, di cui innova metodi e risultati2, per il momento in cui è uscito sembra divenuto la spiegazione filosofica dell’attualità politica italiana. Può sembrare un’esagerazione, ma all’indomani del 25 maggio, giorno della trionfale vittoria di Renzi alle Europee, Alfredo Reichlin, scrivendo su uno degli ultimi numeri de “l’Unità”, prima della sua chiusura, ha visto nel PD incarnarsi il “partito della nazione” che da tempo la sinistra aspettava3. E, più recentemente, Pierluigi Bersani, riprendendo il discorso, stimolato anche dalle lettere di Togliatti nel frattempo edite con un titolo che suggestivamente evoca, dal ’44 al ’64, l’esistenza di una “guerra di posizione in Italia”4, ha parlato di una sinistra italiana non esattamente sovrapponibile a quella delle socialdemocrazie europee, cui è rimasto in vena il concetto di responsabilità nazionale5. Dopo decenni di rivendicazione del “socialismo europeo”, fa un certo effetto sentir rimarcare il distacco dalle “socialdemocrazie europee”. Forse che non si faceva così nelle vecchie sezioni del PCI? Tanto più che il “partito della nazione”, per essere tale, deve smettere secondo Reichlin di massacrare i diritti dei lavoratori, e deve rompere con l’austerità spacciata per “riforme”. Basterebbe aggiungere che le “riforme”, per esser tali, debbono essere “riforme di struttura”, e Togliatti sarebbe di nuovo tra di noi. Insomma, sono tutte queste risonanze, che come dei motivetti ben conosciuti si fanno facilmente completare, che inducono a dire che il libro di Angelo Rossi sembra apparso apposta per fornire ad esse il loro naturale retroterra filosofico. Il Gramsci che esso ci consegna è, infatti, il Gramsci teorico del moderno, fautore della democrazia, politico riformatore, che ispira una tradizione politica, quella togliattiana, in cui il partito non può tradire la nazione, ma se ne fa carico, perché il progresso della “nazione” coincide con quello delle “classi lavoratrici”.
Apro qui una parentesi, circa la tesi di Rossi sul Gramsci “democratico”. Su questo punto, Rossi si spinge a sostenere che la democrazia di Gramsci non è solo democrazia sostanziale, ma anche rappresentativa. La tesi mi sembra artificiosa, tanto quanto quella di un Gramsci liberale, e sconta una debolezza teorica che storici della democrazia, che un tempo si sarebbero detti “borghesi”, come ad esempio John Dunn, non patiscono. Quest’ultimo infatti riconosce che con la democrazia rappresentativa «non si poteva garantire concretamente la perenne vittoria ai fautori dell’opulenza e della distinzione, ma si poteva stabilire, e in effetti lo si fece, un’arena in cui quella vittoria poteva essere ripetutamente ricercata e raggiunta attraverso i giudizi e le scelte dei cittadini»6. Ciò significa che il problema della democrazia dipende dal fine, che ci si propone o meno, di fuoriuscire dalla “arena dell’opulenza e della distinzione”, determinata da precostruiti culturali ad esse favorevoli, “naturalmente” maggioritari fra chi deve decidere. La democrazia, quindi, riposa su una ontologia sociale che limita a priori i contenuti che si possono “processare” nelle sue forme, e quando questa ontologia viene violata, non necessariamente con la forza, scatta la reazione, questa sì violenta, di coloro che hanno originariamente, in senso sia logico che storico, delimitato i confini dell’“arena” (vedi il caso storico paradigmatico del Cile di Allende, nel 1973). Ora, non c’è dubbio che Gramsci, nella misura in cui si propone di unificare “culturalmente” la società, si propone anche di fuoriuscire da tale arena, anche se, come accenneremo appresso, con lo strumento ambiguo della modernizzazione. Egli si trova, dunque, in un dilemma democratico, ma non si può dire certo che sia un fautore della democrazia rappresentativa. Sostenerlo, come fa Rossi, equivale a privarlo di una sua tipica tensione teorica.
Ma torniamo al filo del discorso. Dicevamo Gramsci teorico del moderno, fautore della democrazia, politico riformatore, che ispira la tradizione politica togliattiana, con il suo principio di responsabilità nazionale. La domanda, allora, è quanto dura una tradizione politica? Quando arriva il momento in cui si deve ammettere che si è esaurita? La guerra di posizione in Italia è finita o continua, come sostiene il senatore bersaniano Alfredo D’Attorre, anche lui richiamandosi al libro togliattiano prima citato7? Siamo ancora, non solo dentro, ma addirittura all’apice di quella tradizione politica, come pure le affermazioni di Reichlin, Bersani e D’Attorre farebbero pensare, oppure siamo non all’epilogo, ma addirittura ben al di là di esso? Molti anni fa, ormai una trentina, un filosofo conservatore cattolico, Augusto Del Noce, avanzò di Gramsci una interpretazione che è l’opposto complementare di quella odierna di Rossi8. Anche per Del Noce Gramsci era un teorico della modernità, il fautore di un “nuovo conformismo” dove gli interessi dei lavoratori coincidevano con quelli della nazione, un politico non dottrinario ma portatore di un robusto programma riformatore, di cui la scuola, esattamente come sostiene Rossi9, sebbene ex contraria parte, era il fulcro per costruire la nuova egemonia10. Ma se Rossi si limita solo a stigmatizzare velatamente chi non ha avuto cura e fede nel partito11, sospendendo ogni giudizio su una tradizione politica che pure gli fornisce non poche suggestioni per ricostruire quei Quaderni da cui fa discendere quella stessa tradizione12, la conclusione di Del Noce già trent’anni fa era invece infausta. Gramsci aveva vinto, ma fallendo, nel senso che aveva portato “la rivoluzone al suicidio”. Aveva torto o ragione Del Noce? Qui dobbiamo un attimo addentrarci dentro la sua tesi, prendendo in considerazione i due punti che mi sembrano essenziali, cioè l’ideologia antifascista e il passaggio completo dello “spirito borghese” allo stadio calcolistico-strumentale. Di che si tratta?
Secondo Del Noce, la funzione dell’ideologia antifascista è ben evidenziata da una critica dell’antico avversario di Gramsci, Amadeo Bordiga che, nella sua ultima intervista, ancora ribadiva che l’antifascismo aveva dato «vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezziborghesi, intellettuali e laici»13. Quanto al pieno raggiungimento dello stadio calcolistico-strumentale dello “spirito borghese”, Del Noce riprende la tesi di Max Horkheimer circa l’esistenza di due stadi in tale processo, un primo stadio di compromesso, in cui valori non borghesi come onore, responsabilità e onestà vengono conservati e resi funzionali allo sviluppo capitalistico, consentendo ai centri della loro diffusione, come la famiglia cristianamente intesa, di continuare ad operare; un secondo stadio, infine, in cui tali valori entrano definitivamente in conflitto con lo sviluppo capitalistico. Si impone allora il loro superamento, che può venire spacciato come superamento del capitalismo stesso, mentre invece si tratta del suo pieno dispiegamento, fondato sull’abolizione del mistero e della qualità, e sulla loro sostituzione con dati misurabili e quantitativi. Ora, secondo Del Noce, all’affermazione di questo stadio finale del capitalismo, la strategia gramsciana della modernizzazione fornisce un involontario supporto per realizzarsi allo stato puro, venendo così a trovarsi completamente assorbita nella transizione che, dal capitalismo al socialismo quale doveva essere, è invece solo dalla vecchia alla nuova forma totalitaria del capitalismo, quella in cui non si censurano tanto le risposte con la forza, ma si rendono impossibili le domande per via pedagogica14.
Ora, può anche essere che la tesi di Del Noce sia solo un ammasso di sofismi, ma l’unico modo di saperlo è di uscire fuori dalle interpretazioni, e guardare ai fatti. Uno di questi attiene all’ideologia antifascista, e si è prodotto nella primavera del 2013, quando la banca d’affari Morgan Stanley ha messo in circolazione un documento in cui si affermava che le costituzioni antifasciste dei paesi mediterranei (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) costituiscono un serio ostacolo all’implementazione delle politiche di “libero mercato” già adottate nell’ultimo trentennio in altri paesi, e che sole potrebbero garantire il loro ritorno alla “crescita”15. A pensarci bene, questo documento si può considerare un omaggio postumo ad Amadeo Bordiga il quale, lungi dall’essere quel fossile rivoluzionario che passò per essere in vita, si rivela in realtà un osservatore dalla vista lunga. Infatti, Morgan Stanley è il più tipico esponente di quei “grandi plutocrati” che sotto l’egida dell’antifascismo hanno convissuto per decenni non solo con “mezziborghesi, intellettuali e laici”, ma anche con i movimenti dei lavoratori di ogni paese avanzato. Sicuramente adesso qualcuno salterà sù a dire che questo rigurgito di bordighismo è semplicemente ridicolo. Ma la domanda che dobbiamo porci non è se Bordiga aveva ragione e Gramsci e Togliatti torto, o viceversa, ma perché nella primavera del 2013, dopo trent’anni e passa di martellamento calcolistico-strumentale, e sei di “crisi economica” conclamata, una grande organizzazione “plutocratica” decide di ripudiare l’ideologia antifascista. Le risposte possono essere tante, ma quella che mi sembra non poco plausibile è che, nella sua irrefrenabile espansione totalitaria, il capitalismo assoluto non ha più nulla da guadagnare a tenere in piedi la veneranda coalizione antifascista, anzi, tenerla in vita rischia di attribuire ai residui “movimenti dei lavoratori”, ai “subalterni”, ai “proletari”, un potere di contrattazione non più rispondente al loro effettivo ruolo sociale e peso politico. In altri termini, l’ideologia antifascista è un ostacolo al raggiungimento di quello stadio totalitario della modernizzazione in cui non ci sono più domande da porre, non per forza di censura ma perchè, come il Dio del catechismo, non c’è altra realtà all’infuori di quella capitalistica. Questa “religione della merce”16 può sembrare un’astratta costruzione ideologica, ma anche qui, valgano i fatti. Ecco quanto Jean-Claude Trichet e Mario Draghi scrivevano al governo italiano, il 5 agosto del 2011:
«Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali [che il governo italiano adotti ] le seguenti misure: […] È necessaria […] la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. […] C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione […] E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi. […] Vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate […] siano prese il prima possibile per decreto legge […] Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio […] Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per […] migliorare […] la capacità dell’amministrazione pubblica di assecondare le esigenze delle imprese. […] C’é l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)»17.
Documenti simili è possibile produrne per ogni altro paese che sia passato per le cure di organismi finanziari internazionali, come il FMI, o di organismi politici cosiddetti “tecnocratici”, come la Commisisone Europea. E fatti che attestino il predominio delle “esigenze specifiche delle aziende”, cioè del feticcio della merce, è possibile produrne per ogni ambito dell’odierna vita sociale. Dire perciò che il capitalismo assoluto, con il pretesto della “crisi economico-finanziaria”, è proteso gagliardamente verso il suo nirvana totalitario, è solo un’affermazione che rispecchia un fatto oggettivo. Allora, aveva ragione Del Noce a dire che Gramsci, con la sua strategia modernizzatrice, in cui gli interessi delle “classi lavoratrici” coincidono con quelli della “nazione”, aveva vinto fallendo, ovvero favorendo l’avvento dello stadio supremo del capitalismo assoluto? Una cosa che tanto Del Noce, quanto Rossi, non sottolineano abbastanza è che, quando Gramsci, sotto il tema dell’“americanismo”, parla di modernizzazione, insiste sempre sull’unificazione “culturale” della società. Ciò vuol dire che la modernizzazione, per Gramsci, è il salto in una nuova ontologia sociale, oltre l’arena dell’opulenza e della distinzione. Il rivoluzionamento della struttura non è perciò un fatto solamente “economico”. Del Noce offusca questo tema con i suoi fumi della desacralizzazione nichilistica cui Gramsci approderebbe con il suo immanentismo18. Qui non vale più la pena di seguirlo. Ma certo da Rossi, che ricostruisce politicamente la riflessione filosofica di Gramsci, ci si sarebbe aspettati una risposta su questo punto, che invece manca del tutto. Lo abbiamo già detto, Rossi si limita a stigmatizzare il fatto che non si sia avuto cura del partito, ma per il resto, non solo non dice nulla sulla politica politicienne di “responsabilità nazionale” che si è finita per trarre dall’impianto gramsciano, ma rimprovera anche assurdamente Togliatti di non avere mai avuto, a differenza di Gramsci, la “bussola” americanista19. Ma, in un certo senso, era proprio l’assenza di tale bussola che consentiva a Togliatti, tramite il “legame di ferro”, di salvaguardare il partito. E lo si è visto nel 1989 quant’era importante questo basamento. La verità è che Rossi si infila in questo ginepraio perchè nella tradizione gramscitogliattiana, all’interno della quale egli legittimamente iscrive la sua interpretazione di Gramsci, permane un elemento di opacità, quando non di rimozione, verso il tema fondamentale dell’alienazione, che è il cuore della “religione della merce”. Senza un’adeguata traduzione politica di questo tema, che bisogna riconoscere è cosa a dir poco ardua, la fondazione filosofica della trasformazione politica della realtà, che giustamente Rossi rintraccia nell’antidogmatica riflessione di Gramsci su Marx, resta esposta a quell’involontaria assimilazione alle operazioni proprie del capitalismo assoluto, rilevata a suo tempo da Del Noce. Allora, il comprensibile cruccio di non sedere a Palazzo Chigi, ma chissà, forse anche la soffocante pervasività di questa “religione della merce”, di cui però non si possiede la chiave, è ciò che, nell’articolo prima richiamato, fa dire all’onesto Bersani che quel concetto gramscitogliattiano di responsabilità nazionale, “ineludibile per un comunista italiano, ci ha fregati”20. In questa ammissione, dove addirittura ricompare il termine “comunista”, c’è come la residua luminescenza di un’ultima domanda che si può ancora porre, prima di ammainare la bandiera di una “guerra di posizione” che gli avversari hanno avuto l’abilità, a lungo sottovalutata, di trasformare, sul proprio stesso territorio, in una dilagante “guerra di movimento”. Non restano, allora, che questi preziosi concetti, che libri come quello di Angelo Rossi restaurano amorevolmente, ma che richiedono, per tornare ad essere strumenti politici attuali, una vita nuova la cui sorgente tutti ignoriamo.
- A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Napoli, Guida, 2014. La nota che qui si pubblica su questo libro di Angelo Rossi è libera da copyright. Chi dovesse utilizzarla, è pregato di citarla secondo le normali pratiche bibliografiche: F. Aqueci, L’ineludibile principio. A proposito del Gramsci di Angelo Rossi, http://duemilaventi.net, 15 ottobre 2014. [↩]
- Particolarmente rilevante è la tesi di Rossi sul linguaggio allusivo, nel fornire prove convincenti della sua esistenza, come ad esempio nel caso del dibattito su Croce tra Gramsci e Togliatti che, nel 1932, si svolge tramite il canale delle lettere a Tania e di questa a Sraffa (p. 283). La tesi di Rossi restituisce così alle teorizzazioni contenute nelle Lettere e nei Quaderni la loro autonomia, rispetto a tesi più meccaniche, quale quella dei linguaggi coperti e dei codici segreti, da cui Rossi apertamente dissente (p. 23), ed evita il rischio di ridurre quelle teorizzazioni a meri espedienti, ribadendo invece la loro natura di strumento di una politica, le cui condizioni di realizzazione richiedono una trasformazione filosofica della realtà, basata sul ripensamento non dogmatico di Marx. [↩]
- A. Reichlin, Con Renzi ha vinto il partito della nazione, “l’Unità”, 29.9.2014. [↩]
- P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di G. Fiocco e M. L. Righi, Torino, Einaudi, 2014. [↩]
- P. Bersani, La nostra nuova vocazione nazionale, “Idee controluce”, 22.9.2014, articolo on line. [↩]
- Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, [2005], tr. it. Milano, Università Bocconi Editore, 2006, p. 138 [↩]
- F. D’Esposito, Minoranza PD in fuga: “Facciamo la guerra, ma come Togliatti”, “Il Fatto Quotidiano”, 8.10.2014, p. 4. [↩]
- A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, [1978], Torino, Aragno, 2004, pp. 221 sgg. [↩]
- A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., pp. 157-8. [↩]
- A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 279-80. [↩]
- A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., p. 348. [↩]
- Il “partito nuovo”, il “policentrismo” del memoriale di Yalta, addirittura l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre (p. 216), sono tutti temi che Rossi retrodata in Gramsci, al punto che a volte, come nel caso della rivendicata “scelta democratica” (p. 320), la sua prosa sembra tratta da quei colti documenti politici che si producevano nel buon vecchio PCI. [↩]
- A. Bordiga, Una intervista ad Amadeo Bordiga, “Storia conteporanea”, settembre 1975, p. 582, cit. in A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 283. L’intervista di Bordiga è reperibile on line. [↩]
- A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 279. [↩]
- J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013, pdf reperibile on line. [↩]
- Su questo tema, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, La religione della merce, “Critica marxista”, 3-4, maggio agosto 2014, pp. 83-92. [↩]
- Il testo della lettera della BCE al Governo italiano, documento reperibile on line [↩]
- A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 290 [↩]
- A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., p. 256 [↩]
- P. Bersani, La nostra nuova vocazione nazionale, cit. [↩]
Il filosofo sballottato
Parlando in occasione del 200° anniversario della ricostituzione della Compagnia di Gesù, Papa Bergoglio SJ ha affermato che «la nave della Compagnia di Gesù è stata sballottata dalle onde. Anche la barca di Pietro lo può essere oggi. La notte e il potere delle tenebre sono sempre vicini. Per cui remiamo a servizio della Chiesa. Tutti remiamo, anche il Papa rema nella barca di Pietro e dobbiamo pregare tanto il Signore di salvarci»1. “Straparlando” con Antonio Gnoli su “la Repubblica” di ieri, 28 settembre 2014, Mario Tronti, all’intervistatore che gli osservava come, negli anni, fosse passato dall’operaismo a Machiavelli e Hobbes e ora alla teologia politica, ai profeti, e addirittura a Paolo di Tarso, ha risposto: «Se me lo avessero pronosticato trent’anni fa non ci avrei creduto. Però, vede, Paolo è stato il grande politico del cristianesimo. Nelle sue Lettere c’è il Che fare? di Lenin. Guardo molto alla dimensione cattolica, al suo aspetto istituzionale. C’è forza e lunga durata»2. Nella stessa intervista, ma un po’ da sempre negli ultimi decenni, da quando cioè i suoi mitologici operai lo hanno deluso, Tronti fa professione di “realismo politico”, e dopo tanto studiare Machiavelli e Hobbes, ci si aspetterebbe, appunto, uno sguardo “realistico” anche sulla Chiesa cattolica, nella quale, come si è visto, vede invece «forza e lunga durata». Una visione che Papa Francesco, forse perchè alle pagine dei “realisti” ha preferito i film neorealisti, non sembra proprio condividere, se parla della Chiesa come di una “nave sballottata”. Solo che il Papa non è offuscato dal mal di mare, mentre Tronti, che si è seduto in fondo alla Chiesa, sbirciando la messa, sembra in preda ai sintomi di chi, sballottato dalle onde, scambia le proprie allucinazioni con la luce salvifica di un faro inesistente.