Politica

Bergoglio, dopo le carote, il bastone?

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il manifesto” di oggi dà notizia di una scomunica da parte della Congregazione per la dottrina della fede contro i gruppi di cattolici di base raccolti attorno al movimento We are Church, fondato in Austria, nel 1996, da Martha Heitzer e dal marito. L’istruttoria durava da molto tempo, ma evidentemente si è trovato il modo di concluderla ora, affinché i vaticanologi possano discettare se è un siluro contro Bergoglio o se invece l’astuto Bergoglio ha tirato, dopo tanata carota, un colpo di bastone sul popolo bue.

Populismo

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Nelle rare ma significative interviste rilasciate da Roberto Casaleggio, alla domanda se mai il M5S si alleerà con quelli della lista Tsipras, come pure auspica che accada una delle sue maggiori esponenti, la giornalista Barbara Spinelli, il capo cinquestellato risponde sempre con la formula fissa «sono troppo lontani da noi, perché ideologicamente connotati». Purtroppo, a disdoro della classe giornalistica, nessun intervistatore ha posto la domanda immediatamente successiva, ovvero «che cosa intende per “ideologicamente connotati”?». Si deve perciò dedurre da altre sue affermazioni il senso di questa fatwa, in particolare dalla particolare attenzione che riserva alla piccola e media impresa, per la quale ha un programma dettagliato di privilegi e favori da realizzare spostando una quota consistente di spesa e di carico fiscale. La scelta di rappresentare gli interessi di questo segmento della classe imprenditoriale, il privilegiamento al limite dell’infatuazione adolescenziale per le nuove tecnologie produttive ad alta intensità cognitiva, la predilezione per i temi della “legalità”, dicono molto chiaramente che Grillo e Casaleggio non intendono assolutamente mettere in discussione il comando del capitale sul lavoro, e che intendono invece usare le classi subalterne come massa di manovra per un rivolgimento politico, che scalzi l’attuale élite politica governante a favora di una nuova che ridistribuisca le opportunità di guadagno. In ciò, essi rappresentano sicuramente l’essenza del populismo, se con questo termine si intende l’uso delle classi subalterne come massa di manovra da parte di capi che mirano ad un rivolgimento politico, senza mettere in discussione la struttura economica della società. Non solo le interviste di Casaleggio, ma anche quelle dei vari Le Pen, Orbán, Farage, ecc. ecc., sono in proposito molto chiare. Del resto, non è un caso che l’élite al governo tacci polemicamente di “populismo” questi movimenti. È un’onesta ammissione del timore di vedersi scalzati dal potere, che rivestono con l’accusa di peccato contro la religione democratica, insinuando il sospetto che vogliano instaurare delle dittature. Gli intellettuali partecipano a queste battaglie, avanzando le loro definizioni di populismo, che restano tutte dentro la religione democratica, vuoi che ammettano che esiste tale pericolo dittatoriale, vuoi che invece auspichino che la democrazia rappresentativa si colori un po’ di demcrazia diretta. Tutto perciò si svolge nel cielo della politica, una élite contro l’altra, senza che ci si debbe risvegliare dal culto dogmatico che ogni giorno si celebra con la religione della merce.

I nuovi eletti

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Secondo il sondaggista Roberto Weber, intervistato dal “Fatto Quotidiano” di ieri, Grillo presiede (sic!), cioè presidia, l’area dell’insofferenza, che rappresenta un terzo degli italiani, mentre Renzi quella della conservazione e dell’investimento, che è la parte maggioritaria. Come possono stare assieme la conservazione e l’investimento, gli “aggregati persistenti” e l’“istinto delle combinazioni”, i “redditieri” e gli “speculatori”? Qui, un Pareto redivivo avrebbe di che esercitarsi, contestando magari l’impossibile congiunzione. Ma, si sa, Pareto non era un dialettico, mentre il sondaggista ci tiene a suggeririci l’idea di una composizione degli opposti. Ci sarà una sintesi? Renzi ce la sta mettendo tutta. I “conservatori” li ha presi per stanchezza, agli “innovatori” liscia il pelo con opere ed omissioni. La direzione è una terra di nessuno dove, chi ci arriverà, potrà proclamarsi eletto, e non si volterà più indietro, a guardare il disastro.

Prediche inutili

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Intervistato sulla Repubblica di oggi, da Federico Rampini, Amartya Sen afferma: «L’austerity contraddice 250 anni di sviluppo economico. I più grandi pensatori dell’economia ci hanno insegnato a ragionare in modo diverso. Per Adam Smith il mercato e il progresso economico consentivano agli individui di conquistare più libertà, e al tempo stesso agli Stati davano risorse per fare meglio il loro mestiere. Oggi l’Unione europea vede gli Stati solo come un costo. David Ricardo ci insegnò l’importanza dei prezzi relativi. Ora l’euro ha imposto la stessa parità di cambio alla Germania e alla Grecia senza preoccuparsi dei rispettivi livelli di prezzo e competitività. Io sono a favore dell’euro. Ma è stato un errore avere una moneta unica senza l’unione del sistema bancario, trascurando il ruolo delle altre istituzioni, e trascurando i prezzi relativi. Infine c’è la lezione di John Maynard Keynes: in periodo di alta disoccupazione e bassa domanda, l’ultima cosa da fare sono i tagli alla spesa pubblica. Non possono che peggiorare la disoccupazione giovanile». Smith, Ricardo, Keynes: come si spiega il ripudio del pensiero liberale da parte del capitalismo assoluto? Non è che il pensiero economico di cui parla Sen è stato un’inutile predica rivolta ad una belva la cui vera natura è stata compresa solo da quel Marx da cui i liberali rifuggono? Non è che, allora, il capitalismo è più marxiano di quanto i liberali possano mai immaginare? Certo, Marx aveva incaricato la classe operaia di liberare la società dall’alienazione capitalistica, ma con una certa dose di keynesismo, iniettato al momento opportuno, il capitalismo ha narcotizzato la classe operaia, dissolvendola poi in un pulviscolo produttivo che l’ha messo al riparo dal rischio di dover fare i conti con la propria anima nera. Così, il patto con il diavolo tiene, e i “giusti” alla Sen hanno voglia di salmodiare sulle pagine interne di un giornale, “la Repubblica”, che si butta a pesce su ogni svolazzo di feticismo della merce.

L’altro da sé

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L‘uomo qualunque, scriveva Aldo Moro nel 1945, «non è se stesso, è altri da sé, è pronto a tutto, così ad accettare qualsiasi dittatura, che nasce fatalmente dove al posto dell’ansiosa libertà dello spirito c’è il vuoto»1. La seconda parte è un ricamo moralistico su una prima parte, però, perfettamente informata al concetto di alienazione. Da dove gli veniva questa nozione, a questo colto cattolico, che si sarebbe poi infranto contro l’inscalfibile corazza calcolistico-strumentale del dominio americano? Comunque, l’uomo qualunque non è morto nel ’48. Fu solo ricacciato nelle viscere della nazione dai partiti “razionali” dell’epoca, ma in questi ultimi vent’anni è riemerso sotto tante maschere, tutte riconducibili all’italiano come uomo alienato, cioè tipo umano capitalistico universale, la cui religione, come vide Gramsci, è stata la filosofia di Benedetto Croce, con il suo “vitale” che richiama sempre lo spirito a quelle «cose sensibilmente sovrasensibili», le merci, la cui accumulazione costituisce l’infelice ma inesausta passione di questo paese.


  1. Contro l’“Uomo qualunque”, in “Studium”, n. 9, 1945, p. 266, ora in A. Moro, Al di là della politica e altri scritti. “Studium” 1942-1952, a cura di G. Campanini, Studium, Roma 1982, pp. 255-256, cit. in f. b. [Francesco Barbagallo], Ricordo di Luisa Mangoni, «Studi Storici», 4, ottobre-dicembre 2012, anno 54, pp. 755-759, p. 757) []