La figlia maggiore di Berlusconi lamenta che il padre anche da morto venga infangato e diffamato con notizie e indagini che da tempo si sono dimostrate essere più teoremi che fatti provati. Sulle indagini dei magistrati inquirenti c’è stato, c’è e ci sarà il vaglio dei collegi giudicanti nel cui merito non entriamo. Quanto al resto, si spera che non diventi obbligatorio il servo encomio e che sia possibile esprimere un libero giudizio su un uomo che con tanta pertinacia per tanto tempo ha voluto essere presente nella vita quotidiana di un intero paese e oltre. E, dunque, anzitutto Berlusconi è stato un capitalista monopolista nel significato esatto del termine, cioè un capitalista che tramite la leva della pubblicità si è inserito come una discreta potenza nel livello più “astratto” del capitalismo, quello finanziario. Quale sia stata la sua personale “accumulazione originaria” che gli ha consentito di raggiungere questo obiettivo è oggetto di controversie, ma bisogna considerare che in qualsiasi “accumulazione originaria” capitalistica vi sono sempre due elementi, il privilegio e il banditismo. Il privilegio di cui ha goduto Berlusconi sono stati i decreti di Craxi a salvaguardia delle sue televisioni, volano indispensabile dello sfruttamento pubblicitario. Sul resto, non ci pronunciamo. Berlusconi è stato poi un imprenditore dell’egemonia. Con le sue televisioni, infatti, ha creato un pubblico che con la “discesa in campo” ha trasformato in elettorato. Egli ha così applicato diligentemente la parte più facile della lezione gramsciana, quella secondo la quale, se si vuole conquistare il potere politico, bisogna prima essere dirigenti e poi dominanti. Il resto della lezione gramsciana, quella più impegnativa, l’ha lasciata volentieri a una sinistra in disarmo che aveva finito con il confondere l’egemonia con l’egemonia degli intellettuali. Berlusconi è stato poi un uomo politico che per far largo a un capitalismo monopolistico di cui era il maggior esponente ha messo a soqquadro un attardato Stato di diritto. Egli ha portato avanti questa azione eversiva inveendo contro il pericolo comunista, ma il vero obiettivo erano le fazioni borghesi avverse che, in nome di una ideologia liberale così astratta da poter essere rivendicata dallo stesso Berlusconi, reclamavano le guarentigie costituzionali per arginarne la prorompente carica competitiva. Si trattava dunque di uno scontro intercapitalistico in cui le classi popolari che ambivano sempre più flebilmente a riscattarsi politicamente erano uno schermo illusorio su cui proiettare una paranoia di comodo. La vera battaglia anticomunista Berlusconi l’ha combattuta nella sua ulteriore veste di uomo di raccordo dello Stato occulto in cui si ritrovavano, ora in concordia ora in discordia, ora alla luce del sole ora negli oscuri palazzi, legittimità atlantiste, neofascismo più o meno rispettabile, settori reazionari del potere ecclesiastico, massoneria, mafia anche nelle sue velleità separatiste specchio di quelle del Nord, tutti distaccamenti di un unico esercito votato a mantenere l’Italia saldamente ancorata alla potenza americana. Le indagini su cui insistono le procure hanno questo mondo come sfondo che, essendo ancora al potere, ha tutti gli strumenti per rendere “incredibili” e “indicibili” determinate verità la cui evidenza però in alcuni casi è accecante. Quale punto di riferimento di questo mondo, che è poi l’infrastruttura nel quadrante italiano dell’Occidente imperialista, Berlusconi ha potuto proporsi come uomo di pace in grado di mettere d’accordo a Pratica di Mare l’America di Bush Jr., trionfante benché assetata di vendetta per le Torri gemelle, con la Russia col cappello in mano del primo Putin, ma porta anche la responsabilità politica della repressione poliziesca del G8 di Genova del luglio 2001, abilmente scaricata su Gianfranco Fini che per altro non l’ha mai rifiutata, e della liquidazione sommaria di Gheddafi, per la verità non scelta ma subita come imposizione, tramite il presidente Giorgio Napolitano, del suo caro nemico Barack Obama di cui dileggiava l’abbronzatura. Berlusconi insomma è stato un fedele pretoriano dell’imperialismo occidentale di cui però ultimamente non capiva le dinamiche, tanto è vero che non si rassegnava a ripudiare la (Hillary Clinton sospettava lucrosa) amicizia con Putin, un altro giunto al potere sull’onda di una fra le più rapinose “accumulazioni originarie” della storia, quella ad opera di un pugno di avventurieri impadronitisi delle immense ricchezze del popolo sovietico, lasciato indifeso dalla insulsaggine dei suoi ultimi dirigenti. Berlusconi, infine, è stato l’artefice della diffusione in Italia del capitalismo come “forma di vita”, adattandolo alla temperie spirituale di un paese avido e sessualmente represso. Con una organicità ignota alla sonnacchiosa ed elefantiaca televisione di Stato, dagli anni Ottanta in poi il d*naro e la f*ca sono stati i simboli cui alludeva lo sguardo pecoreccio di tutte le trasmissioni delle sue televisioni ma anche della sua stessa vita. Egli infatti è stato l’autore del copione e l’interprete di questa forma di vita sino ai titoli di coda, celebrati enfaticamente da un mondo che negli ultimi tempi aveva cominciato a mal sopportarlo. Per tutti questi importanti aspetti, Berlusconi è stato dunque l’uomo di un’intera epoca che, quando i libri di storia potranno essere scritti senza la costrizione del vecchio pensiero ancora in auge, sarà probabilmente ricordata come fra le più spregevoli di questo capitalismo morente.
Politica
I tre strati della guerra ucraina
Partiamo da una domanda stupida, come quelle che si fanno chiacchierando davanti a una tazzina di caffè: la Russia ormai da trent’anni è un paese capitalistico; perché allora questa acerrima ostilità con gli Stati Uniti? Qualcuno inviterà già a precisare: in Russia c’è un capitalismo con caratteristiche russe. Certo, è una differenza. Ma a cosa ricondurla? E se tale differenza c’è, basta a spiegare l’acerrima ostilità? Forse che le potenze capitalistiche non si sono mai fatte la guerra? Sorbiamo un sorso di caffè e ripartiamo da capo. Nella guerra in Ucraina vi sono tre strati, lo strato del carnaio, lo strato ideologico e lo strato politico. Lo strato del carnaio è quello in cui un uomo quando è colpito da un proiettile o salta su una mina diventa un pezzo di carne sanguinolenta. La guerra in Ucraina sarà pure ibrida e altamente tecnologica, ma su una salda base di carne maciullata. I video in rete che lo provano non mancano. Lo strato del carnaio, presente in ogni guerra, è quello cui si richiamano coloro che denunciano l’“inutile strage”. Più cresce, più aumenta l’eccitazione di coloro che si esaltano alla vista del sangue ma anche lo sdegno di coloro cui ripugna, sino a quando dietro la spinta dell’istinto di sopravvivenza il parossismo del carnaio non straborda negli altri strati alla ricerca della “pace”. La controffensiva degli ucraini in corso in questi giorni sta facendo crescere il carnaio ma ancora non nella giusta misura da imporre tale ricerca. Che in ogni caso richiede che si passi alla considerazione degli altri due strati. Lo strato ideologico della guerra ucraina è dato dalla guerra civile culturale in corso all’interno del mondo russo che è l’espressione maggiore del mondo slavo a sua volta depositario autentico dell’Ortodossia. La Jugoslavia è stata l’anteprima di tale guerra civile culturale che ora dilaga apertamente nel più ampio contesto russo. Il nocciolo di tale guerra è il processo di secolarizzazione in corso nell’Ortodossia che avanza lentamente ma inesorabilmente. Liberandosi dell’ateismo di Stato della rigida forma di comunismo impiantato dai bolscevichi, l’Ortodossia pensava di aver guadagnato l’eternità ma non aveva visto il vero pericolo che incombeva sulla sua esistenza millenaria, ovvero il ritorno in forze del capitalismo in cui non è più lo Stato che preme per liberarsi di Dio ma la “società civile” per abolire le pastoie morali cui i pope fanno da guardia. Se l’Ucraina è la punta di lancia della secolarizzazione ortodossa, ciò non vuol dire che Putin è il chierichetto di Kirill. Papa Francesco ha ragione a rovesciare argutamente quest’immagine perché così, lo voglia o no, ci introduce al terzo strato della guerra ucraina, quello politico dei rapporti imperialistici. La secolarizzazione ortodossa in corso, con le profonde divisioni che provoca nel mondo slavo, è lo strumento mediante il quale l’imperialismo statunitense cerca di sopraffare l’imperialismo russo per potere perpetuare la propria supremazia mondiale. Lo scontro imperialistico, che da più di un secolo è la modalità di esistenza del capitalismo, si gioca oggi su tre formule egemoniche, l’unipolarismo con la variante multilaterale, il multipolarismo e l’umanità come comunità di destino comune. La prima formula è quella entro cui oscillano gli Stati Uniti e i loro vassalli europei, la seconda è quella per cui si batte la Russia convinta così di poter trasformare il mondo in un consesso oligarchico in cui spartirsi potere e ricchezze, la terza formula è quella della Cina nel suo ancora esitante imperialismo verso cui la sospinge quel capitalismo di cui si serve per sviluppare il suo “socialismo dalle caratteristiche cinesi”. L’acerrima ostilità tra Stati Uniti e Russia non è dunque un’eredità della “guerra fredda” ma un’ostilità imperialistica. La “guerra fredda” fu lo strumento per bloccare il tentativo di modificare la base d’essere del mondo dal capitalismo al socialismo. È una fase conclusa della storia del mondo perché oggi in primo piano è di nuovo lo scontro imperialistico in cui Stati capitalistici più potenti divorano Stati capitalistici meno potenti. Potrà la Cina con il suo pallido marxismo da Seconda Internazionale riprendere il discorso del cambio di base d’essere del mondo? Sarà la “disumanità” del processo di secolarizzazione a imporre tale cambio d’essere? O tale cambio d’essere sarà rimesso all’ordine del giorno dal pericolo estremo della rovina della specie verso cui conduce lo scontro imperialistico nella forma di una guerra atomica? Quale che sia la direzione che prenderanno gli eventi è richiesto però un risveglio della coscienza anticapitalistica di cui la ripulsa del carnaio è solo una premessa.
Putin e la vittoria rubata
Parlando alla “nazione” (diritti d’autore Fd’I) mentre era in corso la ribellione della compagnia militare privata Wagner (brevetto Blackwater, USA), Putin, con indosso l’abito buono della prima comunione, ha aspramente stigmatizzato il “tradimento della Patria” messo in atto dal mercenario da lui allevato Evgenij Prigožin, paragonandolo con quanto accaduto in Russia nel 1917 all’epoca della Prima Guerra Mondiale. Queste le sue testuali parole:
Questo è esattamente come il colpo inferto alla Russia nel 1917, quando il Paese ha combattuto la Prima guerra mondiale. Ma la vittoria le fu rubata. Intrighi, battibecchi, politiche alle spalle dell’esercito e del popolo hanno provocato lo shock più grande, la distruzione dell’esercito e la disintegrazione dello Stato, la perdita di vasti territori. Il risultato fu la tragedia della guerra civile. I russi uccisero i russi, i fratelli uccisero i loro fratelli e gli interessi lucrosi furono raccolti da avventurieri politici di ogni tipo e da forze straniere che divisero il Paese e lo fecero a pezzi. Non permetteremo che questo accada di nuovo. Proteggeremo il nostro popolo e il nostro Stato da ogni minaccia. Compreso il tradimento interno.
Secondo Putin, garante della società di predatori che, dopo aver arraffato le immense ricchezze dell’Unione Sovietica, da trent’anni usa lo Stato russo per raccogliere “interessi lucrosi”, alla Russia zarista nel 1917 fu “rubata la vittoria” e di ciò si avvantaggiarono degli “avventurieri politici”. Veniamo a sapere così che circa 250.000 persone all’anno rendono omaggio alla salma dell’avventuriero Lenin esposta imbalsamata al Cremlino, senza che Putin e i suoi amici abbiano il coraggio di rimuoverla. E apprendiamo anche che allo zarismo fu “rubata la vittoria”, panzana che nella variante della “vittoria mutilata” circolò in Italia nell’immediato primo dopoguerra, riferita alla delusione dei circoli imperialistici italiani per i magri esiti della guerra, funzionando come benzina preziosa per la reazione fascista. Che a cento anni di distanza Putin, grande piazzista di idrocarburi, faccia ricorso a quel carburante è l’indice più sicuro per capire in quale palude della storia sia finito. Quanto alla “vittoria rubata”, nessuno meglio dell’avventuriero Lenin può dimostrarne la falsità. A tal fine, alleghiamo qui un suo articolo del 6 novembre 1916 (Lenin, Sulla pace separata) che descrive magistralmente il repugnante intreccio di interessi imperialistici che la Rivoluzione d’Ottobre mandò inopinatamente a gambe all’aria. Per concludere, bisogna aggiungere che fa semplicemente pena vedere gli odierni comunisti russi, che pure sono una forza elettorale ragguardevole, intruppati nel “patriottismo” dei predatori putiniani e incapaci di un minimo di autonomia politica, come invece era capace Lenin nella complicatissima situazione storica della Prima Guerra Mondiale.
P.S. Nell’articolo si può apprezzare la preoccupazione di Lenin per le sorti della Galizia, quale culla storica del popolo ucraino. Anche come uomo di governo, pur nel vorticoso cambiamento di fronti tra il 1918 e il 1922, Lenin mantenne la stessa linea favorevole all’indipendenza ucraina tanto è vero che l’Ucraina entrò nell’URSS come nazionalità autonoma con diritto a recedere, come tutte le altre nazionalità. Nel suo discorso del 22 febbraio 2022, con cui ha dato inizio all’“operazione militare speciale”, Putin ha rimproverato tutto questo a Lenin, con la stessa insolenza con cui può farlo una mosca (con riferimento all’insetto) intrufolata nella criniera di un purosangue.
Grazie, Silvio
Sgombrando via tutta la spazzatura accumulatasi nei giorni successivi alla morte di Berlusconi, restano vivi due quadri superstiti che possono essere collegati l’uno all’altro. Il primo è un editoriale di Paolo Mieli sul Corriere del 14 giugno 2023 che, dopo aver spiegato che il lascito duraturo di Berlusconi è l’invenzione di un centro-destra che presentandosi alle urne conquista la maggioranza parlamentare, invita la sinistra a adeguarsi a tale schema da cui non si potrà prescindere, soprattutto ora che il suo inventore non c’è più, sino a quando sarà in vigore, forse per sempre, aggiunge Mieli, una legge elettorale maggioritaria. Il ragionamento fila, solo che nella sua ricostruzione storica Mieli dimentica di aggiungere che la sinistra in passato non ha mancato di adeguarsi a tale schema, tanto è vero che con Prodi due volte è riuscita ad agguantare la maggioranza parlamentare, ma in entrambi i casi alla prova di governo è andata in frantumi. Lo schema maggioritario astrattamente, dunque, è da preferirsi al pastrocchio proporzionale, ma esso presuppone un chiarimento culturale preliminare che non è alle viste anzitutto nel corpo elettorale. E qui veniamo al secondo quadro superstite svoltosi a Milano, in piazza Duomo, dove mentre si svolgevano i funerali di Berlusconi si è presentata una signora con una maglietta con su scritto “Io non sono in lutto”. La signora stava spiegando a una televisione che la riprendeva i motivi del suo gesto quando si è avvicinato un fedele del morto che ha cominciato a rimproverarla, attirando così l’attenzione di altri sino a quando si è formato un gruppo numeroso di correligionari che ha preso a insultarla. Fra tutti la telecamera insisteva su un tizio che il buon Manzoni nel suo Seicento metaforico avrebbe senz’altro raffigurato nel popolo lavoratore e che oggi classificheremmo nel nuovo proletariato diffuso. Ebbene, costui, a gran voce invitava la signora a riflettere su quanto bene aveva fatto Berlusconi, quanti posti di lavoro aveva creato, quante persone aveva “mantenuto”. Ecco, questa è la parola chiave. Per questo popolano del Seicento manzoniano proiettato nel proletariato diffuso di inizio millennio il capitalista che paga un salario non “sfrutta” ma “mantiene” una persona. Ora, ci può essere la più bella legge elettorale maggioritaria del mondo, ma sino a quando persisteranno nell’elettorato potenziale della sinistra errori di pensiero di quel genere, sapientemente coltivati dalla cultura televisiva propalata da Berlusconi ben prima della sua “discesa in campo”, l’eventuale maggioranza conquistata nelle urne servirà solo a mandare al governo una sinistra opportunista che farà una politica di destra solo un po’ meno maleducata. Questo per dire che i ragionamenti di Mieli e di quelli che la pensano come lui sono formalistici, nel migliore dei casi, perché si fondano su etichette ingannevoli. Che cosa accadrebbe se alle elezioni svoltesi con un maggioritario conquistasse la maggioranza una sinistra che pensa che un capitalista quando paga un salario non “mantiene” ma “sfrutta” il lavoratore? Il minimo è che ripartirebbe la stagione delle bombe, come del resto accadde fra il ‘92 e il ’94 quando, nonostante l’alacre opera distruttiva di Occhetto e compagni, sussisteva ancora una sinistra (e non era certo quella che si riconosceva in Bertinotti von Cachemire) che pensava che pagare un salario era non un’opera di bene della compagnia delle brave dame di San Vincenzo ma uno “sfruttamento” nel senso tecnico fissato in Das Kapital. Non a caso il cardinal Ruini, in morte del de cuius, ha detto che il suo maggior merito è di aver fermato i comunisti nel 1994. Certamente, monsignore, lei ha ragione e ognuno ci ha messo del suo, lei l’acqua benedetta, altri la polvere da sparo. Quindi, quello che deve fare la sinistra è innanzitutto chiarirsi le idee, perché come insegna Berlusconi per andare al governo bisogna essere prima dirigenti e poi dominanti. Beh, veramente l’aveva detto Gramsci, ma Berlusconi con le sue televisioni l’ha messo in pratica. Grazie, Silvio.
P.S. Ora qualche sapientone salterà su a spiegare che la teoria dello sfruttamento è una tra le tante teorie economiche e neppure la più affidabile ecc. ecc. Questi discorsi sono i moderni canti flautati delle sirene che vivevano numerose a Scilla e quindi bisogna fare come Odisseo, legarsi all’albero della nave e cera nelle orecchie per chi sta ai remi. L’unica verità è data dalla nave che avanza. E, come spiega Omero, se non avanza non è perché la teoria è falsa ma perché i marinai non la sanno governare.
La coscienza di classe a cent’anni da Storia e coscienza di classe
Per una celebrazione non puramente celebrativa del centenario di Storia e coscienza di classe un gruppo di tesi sulla natura della società capitalistica rinvenibile in essa può essere adoperato per chiarire il significato di due rivendicazioni avanzate da odierni esponenti della classe capitalistica, quella dell’uomo d’affari Warren Buffett circa il fatto che nei decenni successivi alla caduta del Muro di Berlino la lotta di classe l’avrebbero vinta i capitalisti, e quella dell’ideologo Francis Fukuyama secondo cui in seguito a quell’evento la storia è finita nel senso che con la vittoria del liberalismo sul comunismo essa avrebbe raggiunto il suo culmine. Le tesi utili a chiarire tali rivendicazioni possono essere così sinteticamente riassunte. La prima sostiene che nella società capitalistica l’essere sociale è lo stesso sia per la borghesia che per il proletariato, nel senso che per entrambe esso è immediatamente economico. La seconda pone che tale immediatezza comporta l’artificiale separazione e isolamento degli oggetti dalla totalità delle loro determinazioni reali al fine della loro quantificazione economica quali valori di merci. La terza afferma che, sotto la spinta degli interessi di classe, mentre la classe borghese dimora nell’immediatezza occultando la tensione dialettica tra gli oggetti e la totalità delle loro determinazioni con categorie astratte come appunto la quantificazione, il proletariato deve oltrepassarla perché solo ripristinando la totalità delle determinazioni reali degli oggetti può risolvere la propria tensione dialettica in quanto esso stesso oggetto, quale forza lavoro mercificata, del processo produttivo. La quarta stabilisce che la conoscenza della totalità sociale e delle sue leggi di sviluppo storico prodotta dalla presa di coscienza di tale tensione dialettica da parte del proletariato pone le premesse rivoluzionarie per la fine dello sfruttamento capitalistico e per il passaggio a una forma superiore di organizzazione sociale1.
Alla luce di questo insieme di tesi, la rivendicazione della vittoria capitalistica nella lotta di classe e l’affermazione che la storia è finita con il trionfo del liberalismo sul comunismo che abbiamo citato sopra, significano che la classe borghese non solo ha trovato il modo di impedire al proletariato di andare oltre l’immediatezza economica neutralizzando così la sua funzione rivoluzionaria, ma ha anche imposto tale immediatezza come modo d’essere esclusivo dell’essere sociale. In altri termini, rivendicare la vittoria capitalistica nella lotta di classe significa dichiarare apertis verbis la dittatura capitalistica, trasformando così il portato spontaneo del processo storico in un contenuto esplicito della coscienza di classe borghese. E poiché ciò avviene non nell’involucro di una aperta dittatura politica, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso, ma sotto il regime trionfante della democrazia liberale, ciò equivale a esplicitare il contenuto politicamente dittatoriale di tale regime pur continuando a proclamarlo come il regime della libertà universale.
Di fronte a tale pretesa, non è ozioso allora ritornare ai fondamenti teorici della dialettica storica della coscienza di classe, non solo in riferimento alle prese di posizione sopra discusse ma anche ad ambiziosi sistemi teorici, eretti ancor prima che il trionfo del liberalismo venisse dichiarato, volti a universalizzare la posizione di classe borghese. Al fine di un loro esame, necessariamente limitato agli aspetti essenziali, partiamo da una definizione neutralmente “scientifica” di coscienza sociale, secondo la quale essa è la visione idealmente razionale che i membri di una classe sono in grado di assumere riguardo all’intera struttura sociale al fine di determinare corsi di azione che siano universalmente accettabili dall’intera società. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso una tale ricostruzione “universale” della coscienza sociale, proposta dal punto di vista liberale, è stata avanzata nei termini di un “velo d’ignoranza” inteso come posizione originaria assunta da individui desiderosi di dar vita a istituzioni giuste, spogliandosi da ogni condizionamento particolare, primo fra tutti il condizionamento di classe2. Ne è risultata una imparzialità astratta con cui statuire sulla distribuzione della ricchezza e del potere, non a caso denominati “beni primari”, in base al principio secondo il quale è legittimo che alcuni possano godere di una maggior quota di essi se il modo in cui li ottengono migliora la condizione di coloro che ne possono godere di meno3. A ben rifletterci, forse è in base a tale “diseguaglianza benefica” che oggi sembra accettabile che un manager possa guadagnare non quaranta volte, come nel 1970, bensì seicentocinquanta volte più di un operaio, a patto che il sistema complessivo consenta al governante di turno di concedere all’operaio un bonus fiscale di trenta euro in più al mese in busta paga.
Comunque sia, al fine di mitigare diseguaglianze simili, dall’attiguo campo liberale cosmopolitico si è levata la richiesta che nella competizione per i “beni primari” la perequazione non sia affidata solo alla tardiva comparsa di misure per “bisogni speciali”, ad esempio quelli di individui affetti da evidenti minorazioni come la cecità, ma che tali misure, anche per impedimenti come il maggior rischio di ammalarsi o vari gradi e tipi di patologie fisiche o mentali socialmente determinate, siano inserite sin da subito alla base dell’architettura istituzionale “giusta”, in modo da consentire che la complessiva dotazione umana degli individui (“funzionamenti”) possa essere messa in opera (“capacitazioni”) per il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta (“vita fiorente”)4. Di questa richiesta già in sé limitata si direbbe che nella pratica neanche la parte concernente la perequazione delle minorazioni più evidenti sia stata pienamente accolta, ma ciò che qui importa osservare è che, con grande anticipo circa le pretese di imparzialità della “giustizia come equità” e le limitate richieste ad essa rivolte di un’imparzialità più “aperta”, dal campo teorico alternativo del proletariato proprio in Storia e coscienza di classe erano state avanzate lungimiranti concezioni critiche.
Si è mostrato anzitutto che i cosiddetti “beni primari” non sono oggetti in sé conclusi di cui soggetti isolati gli uni dagli altri possono appropriarsi in una gara in cui può rilucere la loro competenza morale, innata quanto quella linguistica5, ma appartengono invece, come abbiamo accennato già sopra, a un universo reificato in cui gli oggetti, in realtà merci, risultano da un isolamento artificiale dal complesso delle loro determinazioni reali, ad opera delle operazioni produttive del soggetto capitalistico che per i suoi interessi di classe non può andare oltre l’immediatezza economica e deve pertanto tramite teorie ad hoc occultarne il fondamento parziale6. Questa reificazione in cui tale soggetto è irretito si manifesta in una molteplicità di contraddizioni, dalla contraddizione storica, a quella sociologica, a quella ideologica, a quella infine epistemologica7. Ai nostri fini, quest’ultima è quella che qui ci interessa maggiormente. Essa mostra infatti che, essendo il capitalismo l’ordinamento produttivo in cui l’economia assimila l’intera società, la coscienza borghese dovrebbe razionalmente possedere la conoscenza della totalità del processo di produzione, ma a causa dei suoi interessi di classe ciò le è precluso, divenendo così impossibile la gestione teorica e pratica dei problemi incessantemente posti dallo sviluppo capitalistico8. Ora, l’ambiziosa e influente teoria morale della “giustizia come equità”, enunciata ben dopo il quadro critico cui abbiamo accennato, appare oggettivamente ricadere in tale contraddizione, poiché se da un lato con il “velo d’ignoranza” vuole ottenere la conoscenza razionale derivante dall’assimilazione economica capitalistica dell’intera società, dall’altro basa l’assetto morale “giusto” che con tale “velo d’ignoranza” vuole instaurare sull’ontologia economica parziale degli interessi capitalistici, come dimostra la giustificazione teorica delle crescenti sperequazioni derivanti dall’applicazione di principi come quello della “diseguaglianza benefica”.
Tuttavia, poiché contrariamente a quanto si possa pensare il campo teorico del proletariato è tutt’altro che monolitico ma anzi vi dominano contrapposizioni anche sin troppo vivaci, la concezione critica espressa in Storia e coscienza di classe, nonostante i cospicui risultati con essa ottenibili, è stata variamente contestata e rigettata. In particolare, la critica della società borghese da essa sostenuta servendosi della categoria della “contraddizione” è stata giudicata “ideologica”, cioè non “scientifica”, perché determinata dall’ideologia filosofica della contraddizione e dall’ideologia morale dell’uomo onnilateralmente sviluppato9. La nozione di coscienza di classe, inoltre, poiché privilegia la coscienza rispetto all’essere, è stata giudicata di natura idealistica e, con riferimento al proletariato, si è proposto di sostituirla con quella materialisticamente più tangibile di istinto di classe10, per la cui indagine si ritiene necessario indagare non solo i rapporti di produzione e quelli politici ma anche quelli ideologici, che sarebbero costituiti da sistemi di idee-rappresentazioni e sistemi pratici di attitudini-comportamenti (costumi)11.
Qui si può già osservare che più che al funzionamento dei rapporti sociali ideologici si è interessati a una classificazione dei loro contenuti, uno slittamento che, come vedremo, non può non avere conseguenze negative nella teoria e nella pratica. Ma andiamo avanti. In questa visione “scientifica” della coscienza di classe, si afferma che una rivoluzione deve agire non solo a livello delle idee ma anche dei costumi, siano essi politici, tecnici, burocratici, e ciò tramite forme organizzative specifiche12. Ora, posto che in rapporto ai differenti livelli di ogni formazione sociale devono esistere differenti organizzazioni della lotta di classe, al livello economico il sindacato, al livello politico il partito, al livello ideologico l’organismo di controllo ideologico, si richiama il fatto che, storicamente, mentre nella Rivoluzione sovietica Lenin propose di far corrispondere al livello ideologico un organismo emanazione del partito denominato “Ispezione operaia e contadina” che, nell’inedita situazione della dittatura del proletariato, traduzione statuale dell’egemonia del proletariato, doveva regolare i rapporti tra Stato e Partito, nella Rivoluzione Culturale cinese degli anni Sessanta del secolo scorso l’organo di controllo dei rapporti tra Partito e Stato fu individuato in un’organizzazione espressione autonoma delle masse con il compito di denunciare e criticare i dirigenti che, attenendosi ancora ai vecchi costumi, si distaccavano dalle esigenze della nuova vita rivoluzionaria. In questo modo si sarebbe realizzato un avanzamento teorico e pratico, poiché partito, Stato e organizzazione di controllo ideologico risultavano distinti13. Resta il fatto però che, permanendo la concezione dei rapporti ideologici non come ruoli da modificare ma come contenuti da sanzionare, l’azione di controllo di questo platonico Consiglio notturno14 si scaricava sull’esteriorità del comportamento e non sulla matrice soggiacente che lo produceva e riproduceva, sboccando così, com’è storicamente accaduto, nella repressione e nell’autoritarismo anche se esercitati dalle masse.
È qui che può soccorrere l’elaborazione successiva a Storia e coscienza di classe, sia dello stesso Lukács con la proposta di una democratizzazione della vita quotidiana, sia di Gramsci di una nuova egemonia come superamento del rapporto di subalternità. È evidente che il perseguimento di tali scopi comporta un processo di apprendimento che deve potersi riprodurre da sé inserendo nella sua struttura di base il principio cui corrisponde il senso etico-politico che si vuole far acquisire. Ma questo residuo “educativo” si scioglie nel fatto che non viene instillato un contenuto bensì una forma, la forma compiutamente razionale della reciprocità cooperatoria la cui più vivida descrizione, per una volta, si può rinvenire in una fonte del tutto indipendente dai dibattiti marxisti, quella dell’onesta critica conservatrice del modo di produzione capitalistico:
quando un governo ha preso possesso di tutti i mezzi di produzione e del controllo di tutte le imprese non può distribuire in salari e servizi pubblici più di quanto l’industria, così organizzata, sarà in grado di produrre; probabilmente, e forse beneficamente, produrrà piuttosto meno di quanto prima è stato prodotto da capitalisti privati e rivali, dal momento che ci sarà meno ardimento nel correre rischi e minore ansia di ottenere salari più alti. La società sarà forse più felice ma più debole e più rassegnatamente tradizionalista. La febbre del diciannovesimo secolo per l’improvvisa ricchezza e del ventesimo per le meraviglie della meccanica avranno ceduto ad una saggezza classica, ad un nuovo livello industriale della vita. Penso che un tale governo, se razionalmente guidato dalla scienza e dalla storia, potrebbe rivelarsi un custode più sicuro di tutti gl’interessi naturali e quindi moralmente più rappresentativo sia del governo tribale che di quello patriarcale nonché di quello elettivo. I governanti e gli amministratori sarebbero nominati non per mezzo di elezioni popolari, ma per cooptazione tra i membri di ciascun ramo dell’amministrazione, come una sorta di promozione quale quella in uso nell’esercito, nelle banche, nelle università o nelle gerarchie ecclesiastiche15.
Solo una lettura superficiale potrebbe scorgere qui il vagheggiamento romantico della “decrescita felice”, quando invece vi è il riconoscimento politico che un piano razionale fondato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e guidato dalla scienza e dalla storia è ciò che può dare luogo al nuovo livello industriale della vita ispirato a una saggezza classica. Per gli apologeti dell’esistente, che da tempo immemorabile spendono le migliori energie per scacciare questo spettro, si tratta di offrire sempre nuovi alimenti alla febbre delle vecchie tendenze secolari. Alle ricchezze improvvise e alle meraviglie della meccanica ora si sono aggiunte le mirabilie della scienza cognitiva, dalle reti neurali alla robotica all’intelligenza artificiale, con tutti i benefici per il corpo e per l’anima che promettono di arrecare. Ma se scatta l’allarme per qualche loro possibile conseguenza indesiderata, allora arruolando Gödel e Aristotele si rassicura che l’intelligenza umana non potrà mai essere assorbita da quella artificiale né logicamente, stando ai teoremi di incompletezza algoritmica, né antropologicamente, data la determinazione affettiva dei ragionamenti umani che l’intelligenza artificiale potrà solo simulare ma mai effettivamente provare16. Ma la mente desiderante, la sola che provando dolore e piacere produrrebbe religioni e ideologie, non la si mette in salvo magnificando le caratteristiche che la natura le avrebbe conferito dall’eternità. Non è la mente umana in astratto che produce religioni e ideologie, ma sono i modi di produzione, con cui i bisogni umani vengono soddisfatti, che estendendosi lungo le ere producono la storia. E i modi di produzione non sono semplici classificazioni ad uso degli storici ma modalità d’esistenza dei rapporti sociali. Bisogna capire allora cosa accade nei rapporti sociali capitalistici se l’esigenza di profitto intrinseca al capitale si afferma sostituendo progressivamente il lavoro vivo manuale e intellettuale con il lavoro artificiale robotico e algoritmico. E la conseguenza principale non può che essere, da un lato, la rarefazione dei rapporti produttivi e, dall’altro, il rigonfiamento di quelli ideologici in cui masse sempre più vaste di piccoli signori, divenuti tali dopo l’espulsione dai rapporti di produzione, soddisfano bisogni sempre più artificiosi comandando legioni di schiavi logico-meccanici per definizione incapaci di quella “presa di coscienza” di cui invece sono state storicamente capaci le masse salariate. Di fronte all’evenienza di un simile parassitismo, anziché adeguarsi alla presunta forza irresistibile dell’“innovazione”, appare invece sempre più necessario perseguire quel nuovo livello industriale della vita il cui governo non più tribale, non più patriarcale, non più elettivo, ma semplicemente “amministrativo” l’onesto critico conservatore del capitalismo addita come il sistema che meglio può garantire tutti gli interessi naturali. Con le sue vittorie e le sue disfatte, con le sue acquisizioni e i suoi errori, sinora l’interprete più coerente di questa prospettiva è stata la coscienza di classe proletaria così profondamente indagata in Storia e coscienza di classe, che nella politica secolare può però allargarsi a coscienza di specie per tradurre finalmente quella prospettiva in una forma di vita universale.
- G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Sugar Editore, Milano 1967, p. 214 ss. [↩]
- J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. Feltrinelli, Milano 20083, p. 142 [↩]
- Ivi, p. 104 [↩]
- A. Sen, L’idea di giustizia (2009), trad. it. Mondadori, Milano 2011, p. 240 ss., p. 270 [↩]
- J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 64 [↩]
- G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 85, p. 216 [↩]
- Ivi, pp. 80-83 [↩]
- Ivi, p. 83 [↩]
- L. Althusser, Socialisme idéologique et socialisme scientifique (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, Puf, Paris 2022, pp. 67-68 e p. 97 [↩]
- Ivi, p. 99 e nota 2 [↩]
- L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., pp. 302-03; Id., Sur l’idéologie. Fragment inédit de «Sur la révolution Culturelle» (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., p. 320 [↩]
- L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), cit., pp. 303-04 [↩]
- Ivi, p. 307 [↩]
- Platone, Leggi, XII, 960-966 (Tutte le Opere, Sansoni, Firenze 1974, p. 1389 ss.). [↩]
- G. Santayana, Dominazioni e Poteri (1951), trad. it. a cura di G. Buttà, in corso di pubblicazione, pp. 555-556 [↩]
- F. Lo Piparo, Rassicurazioni utili per i catastrofisti e gli apocalittici. Tranquilli, l’intelligenza artificiale non soppianterà mai quella umana, «Il Foglio», 19 maggio 2023, p. 2 [↩]