Politica

Politica secolare

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Nel sesto cerchio dell’Inferno di Dante, la legge del contrappasso condanna gli eresiarchi epicurei che vi sono rinchiusi a non conoscere nulla del presente, mentre vedono oltre un certo limite nel passato e nel futuro. Nell’epoca di transizione in cui viviamo, potremmo paragonare la nostra condizione a quella di questi dannati. Archivi, documenti, ricostruzioni e interpretazioni storiche ci fanno conoscere con una certa approssimazione un passato più o meno remoto, e del futuro più o meno lontano intravediamo anche se vagamente qualche contorno, ma il presente, il passato e il futuro immediati sono immersi in una fitta nebbia che la nostra vista non riesce a penetrare. Parlare quindi di politica secolare, la politica del XXI secolo che giorno dopo giorno prende corpo nella “mala luce” del nostro sguardo offuscato, può avere un senso se almeno fissiamo alcuni criteri che ne elevino l’analisi a qualcosa di più che una vuota convenzione cronologica. Il primo di questi criteri è che obiettivo dell’analisi siano questioni rappresentative delle tendenze mondiali; il secondo, che l’analisi teorica sia ancorata a questioni storiche anch’esse di livello mondiale; il terzo, che le questioni analizzate abbiano un ruolo essenziale nelle modificazioni possibili della realtà avvenire. Con una scelta certamente soggettiva, dovuta a quell’oscura visuale di cui dicevamo prima, le questioni che ci sembrano soddisfare tali criteri sono la guerra mondiale endemica che ancora una volta ha il suo epicentro in Europa, i nuovi centri di potere mondiali che a causa e per effetto della guerra emergono nell’arena internazionale, i nuovi rapporti di classe, infine, che intrecciati con i nuovi rapporti internazionali delineano il corso politico complessivo del secolo. Dunque, l’Europa in guerra, l’egemonismo come fase ulteriore dell’imperialismo, il socialismo come terreno su cui ricercare le soluzioni delle nuove contraddizioni secolari – questi i tre nomi delle questioni che sembrano soddisfare i criteri sopra enunciati. Può sembrare strano che in un periodo in cui si proclama a gran voce la dissoluzione delle classi, si scelga il criterio di classe per l’analisi della politica secolare. In realtà il problema non consiste nelle classi il cui divenire sociologico scorre incessantemente, bensì nella coscienza di classe che fluisce più lenta e richiede la cura continua dei suoi argini. Negli ultimi decenni, l’incuria di chi avrebbe dovuto manutenerli e l’opera interessata di chi voleva arrestarne il corso, l’ha rinsecchita facendola ristagnare in piccole pozze non comunicanti tra di loro. Si prenda il caso delle ondate di emigrati italiani che negli ultimi decenni, circonfusi dalla destinazione glamour, si sono riversati su Londra e altre località inglesi alla ricerca di occupazione. Molti di essi, specie i meno istruiti, dapprima sono approdati nei casermoni di periferia zeppi di “negri” in cui già alle cinque della sera ci si barrica negli appartamenti; in seguito, indirizzati da efficienti uffici dell’offerta verso mansioni spesso rifiutate in patria – camerieri di bar e ristoranti, personale di servizio, baby sitter e dog sitter per la buona borghesia inglese, personale delle pulizie e della reception negli alberghi, ecc., hanno poi avuto accesso alle più sicure case a schiera della vecchia working class indigena e con il prestito iniziale assicurato loro dall’astuto governo inglese hanno messo su l’impresa di pulizie o la pensione per i cani quando i loro padroni vanno a svernare nell’assolata Italia, paese in cui questi lavoratori, quando vi ritornano in visita ai parenti, constatano l’inefficienza dell’avvio al lavoro, la mancanza di una politica della casa, la precarietà e l’arbitrio dell’impiego e della paga, finendo così per sentirsi a casa propria più nella nuova patria, che in quella vecchia di cui diventa inutile persino ricordare le lotte per il lavoro che pure le precedenti generazioni vi hanno combattuto. Ma, nella nuova patria, quando anche i “negri” dei casermoni di periferia hanno cominciato ad affiorare nei quartieri delle case a schiera adattando magari a moschea un umido garage, allora il proletariato indigeno, che già aveva mal tollerato l’intraprendenza degli immigrati bianchi di provenienza UE, ha protestato e ha votato per la Brexit, nel frattempo che in Italia ondate di “negri”, fortunati di non essere annegati nell’attraversamento del Mediterraneo, si accalcavano malvisti nelle periferie delle città, senza neanche la prospettiva delle terraced houses e del gruzzolo iniziale offerti dal più efficiente governo inglese. E tutto questo sommovimento è avvenuto senza che la “sinistra”, né quella inglese né quella italiana, si ponesse più il problema di tenere viva in questo proletariato, inglese italiano o “negro” che fosse, la consapevolezza dei rapporti di produzione in cui era immerso, impegnata com’era ad acquisire rispettabilità presso l’establishment. Questo esempio che, variando nazionalità e destinazioni, si potrebbe riscontrare in altre realtà europee e occidentali, si pensi all’ormai proverbiale idraulico polacco, mostra chiaramente come la coscienza di classe da totalità organica si sia rinsecchita in tanti bracci separati e in conflitto tra di loro, la questione di classe, quella nazionale, quella migratoria, quella razziale, quella religiosa, lasciando sulle mappe politiche il vuoto di un luogo incognito, la cui realtà di sfruttamento addirittura aggravatasi è divenuta invisibile agli stessi sfruttati che la assumono nella sua irreversibile fatticità. E, tuttavia, se all’operaio inglese che ha votato per la Brexit o all’italiano che ha messo su l’impresa di pulizie è cresciuto un figlio gay e al “negro” affiorato nei vecchi quartieri operai o sprofondato nelle periferie urbane o nei casolari dell’agricoltura intensiva è capitata in sorte una figlia ribelle conquistata dai liberi costumi occidentali, allora il silenzio che grava su quel deserto della coscienza di classe sembra sgretolarsi e il clamore con cui vengono rivendicati i diritti civili trascina con sé anche i negletti diritti sociali. Anche perché ricerche sui non-binary workers, cioè i lavoratori che rifiutano di essere classificati in base allo schema binario maschio/femmina, attestano che essi sono più numerosi nelle fasce basse delle retribuzioni – servizi di vendita, agricoltura, che in quelle alte – cultura, spettacolo, giornalismo. Anche questo, però, è solo un dato sociologico che l’irruenza dalla questione sessuale non basta a trasformare in fatto di coscienza. Se è un diritto civile l’unione tra individui dello stesso sesso, se è un diritto civile l’adozione da parte di una coppia omosessuale, sarà anche un diritto incontestabile accedere alla GPA, cioè alla maternità surrogata o, più crudamente, all’utero in affitto? Una pratica, tra l’altro, che viene strumentalmente collegata alla questione omosessuale ma che, come dicono le statistiche, riguarda principalmente le coppie eterosessuali che possono scegliere fra costi diversi. Problemi simili, allora, di ordine morale ma anche economico e sociale, evidenziano un altro e più profondo significato della politica secolare. La forma di vita di merce, infatti, si estende su nuovi territori come quelli della nascita, ma anche quelli della morte, se è vero che in alcuni paesi la “buona morte” è una merce al pari della maternità surrogata. La politica secolare è dunque anche un passaggio di testimone con il secolo scorso sul terreno della mercificazione e dei connessi fenomeni di reificazione e alienazione, in cui emergono nuove contraddizioni per di più in presenza di scelte solo apparentemente alternative. Infatti, nella lotta contro la vecchia morale repressiva, da un lato, sembra imporsi un’etica “libertina” che coronerebbe la società capitalistico-borghese nel suo stadio globale; dall’altro, avanza un’etica “sociale” per la quale le distinzioni di genere sono effetto delle pratiche oppressive di potere messe in atto da quella stessa società. Entrambe però sfociano nella esaltazione della “volontà assoluta” di un individuo che, in assenza di legami con una cerchia più vasta distrutti dalla forma di vita di merce, è alla ricerca spasmodica di una qualche salvezza, la quale però quando è in qualche modo raggiunta ribadisce la base esistenzialmente negativa del volontarismo assoluto. È l’alienazione come effetto e causa dei disequilibri con cui la società in atto alimenta la propria esistenza. La lotta per una rinnovata coscienza di classe, di cui la politica secolare vuole chiarire alcune condizioni di realizzazione, concerne quindi il significato del divenire, se deve permanere come antinomia incomponibile o mirare a una ricomposizione della totalità. Nel primo caso continueranno a succedersi generazioni di homo sapiens la cui brutalità sarà uguale alla presunzione di essere moralmente superiori agli altri esseri viventi; nel secondo caso germinerà un essere sociale nuovo, cavalli sapienti o cervi fatati, dal cui legame razionale però potrà sorgere una società finalmente umana.

Ricominciare daccapo

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Con l’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico, il secolo in Italia finalmente ha preso il largo. Non che all’orizzonte ci siano chissà quali novità di idee e di metodi. Siamo ancora alle attenuazioni e alle sfumature e, quanto al metodo, al leaderismo più spinto, come non può che essere con le primarie. Ma il fatto è che la Schlein con tutte le storie della sinistra dal 1921 a oggi non c’entra più nulla. Da questo punto di vista, la Meloni è ancora Novecento puro, legata com’è da mille fili al mondo catacombale del Movimento Sociale Italiano e dintorni di cui ha la missione di riscattare l’onore – così si esprimono. E, infatti, da quando è apparsa la Schlein, la Meloni è come invecchiata di colpo e nel ruolo che ha voluto a tutti i costi appare sempre più inadeguata. La Schlein non deve, non può e non vuole riscattare nulla perché da Occhetto a Letta tutto è stato dissipato e la sinistra non esiste più. Questo non vuol dire che la Schlein è post. La Schlein è di sinistra ma in un contenitore vuoto. Sì, certo, transgenderismo, ecologia, pace e salario minimo sono i contenuti che ha mitragliato con l’occhio sbarrato quando è stata interrogata, ma al momento sono pensierini. Se la Schlein vuole durare e non fare la fine di un Veltroni, se vuole davvero prendere il largo e condurre la nave verso una rotta sicura, bisogna che affronti le due questioni che, da quando è nata, fanno della sinistra la sinistra, ovvero la scelta tra sinistra riformista e sinistra rivoluzionaria e la questione del partito. Dicevamo che lei con tutte le storie della sinistra dal 1921 a oggi non c’entra più nulla. E per forza. La sinistra rivoluzionaria negli anni Settanta è finita nella trappola del terrorismo. E, nei decenni successivi, la sinistra riformista si è esaurita nell’ignominia del potere per il potere. Basterà dunque che quale che sia la via che imboccherà non si abbia nessuno dei due esiti. Riforme e rivoluzione dovranno essere parole vecchie con un significato nuovo. L’orizzonte è fosco e molto poco dipenderà da lei. Ma stanno finendo un’epoca e un impero, e le opportunità potranno esserci. Quanto al partito, non esiste una sinistra senza il partito e la prova inconfutabile si ha in questi ultimi anni in cui, avendo teorizzato un partito allegramente penetrato dalla società civile, la sinistra ha smesso di esistere. Certo, il riformismo era così spinto che il partito non serviva. Ma di riformismo spinto si muore, altrettanto quanto di settarismo rivoluzionario. D’altra parte, senza il partito aperto e leggero dei dottor Stranamore la tabula rasa della Schlein non sarebbe arrivata. Ma questo non vuol dire che bisogna continuare su questa strada, anche perché dallo stesso popolo che va a votare alle primarie sale la richiesta di una Assemblea costituente che riunisca tutta la sinistra in un nuovo organismo. Strada asperrima ma indicativa di un’esigenza. Dunque, la missione è chiara, ricominciare tutto daccapo. E perciò può essere che la Schlein, con il suo profilo sghembo e il suo fare dinoccolato, si ritrovi un domani sopra un palco con un berretto in mano ad arringare le masse rivoluzionarie guidate da un grande partito. Così come può essere che senza volerlo si ritrovi a Palazzo Chigi a complimentarsi al telefono con Trump per la sua rielezione. I tempi sono fluidi e l’avventura è bella.

Il puntiglio della verità

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Nella serata di lunedì 2 gennaio, su Rai Tre, è andata in onda ad opera della trasmissione “Report” una lunghissima ricostruzione delle stragi del biennio 1992-1993, quelle in cui, assieme ad altre decine di persone, persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino e furono attaccate chiese e monumenti in varie parti d’Italia. Il motivo di tale ricostruzione è che stanno emergendo nuovi elementi giudiziari a favore dell’ipotesi che individui che presero parte a tali attentati si ritrovano nella precedente stagione stragista e golpista degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In particolare, una delle figure di collegamento più importanti sarebbe Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista sciolta e più volte risorta dalle sue ceneri come l’araba fenice, operativa pare addirittura sino a tutto il 2018. Stefano Delle Chiaie, passato a miglior vita nel 2019, proviene da quel mondo missino che secondo gli odierni esponenti del movimento smargiasso insediatosi al governo della Nazione avrebbe contribuito all’inserimento degli sconfitti del fascismo nel gioco della rinata democrazia. Si tratta di una affermazione che nel suo cinismo politico, tipico di questo abile manipolo di manipolatori, ha un suo fondamento storico. La Fiamma, infatti, quale dialettica copertura legale di un vasto ambiente illegale – e stiamo parlando di legalità “borghese”, ma evidentemente in determinate situazioni storiche a Monsieur le Capital non basta neppure quella per averla vinta! –, ha contribuito fortemente a far sì che la democrazia italiana si allontanasse quanto più è possibile dall’improvvido disegno costituzionale per assumere quella fisionomia anfibia di doppio Stato non solo consono all’intima essenza nazionale, ma soprattutto funzionale agli equilibri internazionali in cui l’Italia, grazie al ben operare dei nazionalisti in orbace figli della Lupa, dal 1945 si trova felicemente inserita, scilicet asservita. La domanda però non è storica ma urgentemente attuale, e cioè come mai, nel momento in cui lo strato più recondito e ambiguo dell’anticomunismo atlantista comincia a muovere i suoi primi passi di governo, una trasmissione come “Report” possa ripercorrere le stagioni dello stragismo politico in cui tale strato, a voler stare alle sole evidenze giudiziarie, appare profondamente invischiato. Evidentemente, ci sono mondi che si guatano a distanza e, come nel gioco di chi sa che io so che tu sai che io so, si mandano segnali, si lanciano avvertimenti, si misurano la forza. La partita insomma non è chiusa. E, del resto, lo si era capito quando, durante il caos della presidenza Trump, settori importanti del carico della nave erano stati spostati in direzioni inusitate – la Cina, la Russia. Bisogna dirlo, in modo abborracciato, con immaturità, senza alcuna chiara elaborazione politica. Sicché, quando sia pur a fatica il blocco imperiale ha ripreso il controllo, come accade sempre nelle epoche di basso impero è stato facile per i pretoriani della Nazione proporsi quale nuovo ceto di governo. È altrettanto facile prevedere che quanto più aumenteranno le spinte per un sovvertimento presidenzialistico della Costituzione vigente, tanto più si moltiplicheranno questi segnali. E quanto più gli equilibri internazionali si mostreranno deboli e friabili, tanto più il confronto tra questi mondi contrapposti diventerà una lotta accanita per la sopravvivenza. Poiché appare chiaro che il significato effettivo di una possibile riforma presidenzialistica, almeno per quanto riguarda il passato, è la definitiva messa a tacere di una storia inconfessabile, quella per la quale l’ipotesi di una timida, socialdemocratica “repubblica fondata sul lavoro” è stata impedita dalla brutale realtà di una “repubblica basata sulle bombe”. Del resto, già da tempo la Bombocrazia mette in scena nelle più alte cariche le sue tragedie shakespeariane. A favorire l’elezione dell’attuale Presidente della Repubblica fu un certo senatore fiorentino, promotore dell’ultimo sfortunato assalto costituzionale, sulla cui eccellenza nelle arti politiche della corrotta Danimarca, messe al servizio del più devoto atlantismo, non c’è bisogno di spendere altre parole. E oggi, l’attuale Presidente, che in una famosa foto appare mentre prende fra le braccia il fratello ferito a morte nell’attentato opera, a quanto sembra, dell’usuale connection tra mafia, apparati di stato e neofascismo, oggi dicevamo a quel mondo predica come Francesco al lupo di Gubbio la mitezza della Costituzione vigente, suggerendo così oggettivamente l’idea che un’alta carica è forse la migliore pietra tombale sulle esigenze di giustizia. Ma nel paese della commedia dell’arte alle tragedie shakespeariane fanno da contrappunto le baruffe chiozzotte, alla sfocata, drammatica foto del fratello che trae fuori dall’auto il congiunto ucciso dall’ignoto assassino dagli occhi di ghiaccio fa da controcanto la più recente foto “social” delle vestali del rampante movimento smargiasso che, agghindate per il cenone di fine anno, con molle posa fanno gli auguri «anche ai rosiconi che non si ricrederanno mai per puntiglio». Eh, già, perché la verità è un puntiglio…

Mambo italiano

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Uno dei personaggi più caratteristici interpretati da Sofia Loren è l’avvenente pescivendola di Pane Amore e…, film di Dino Risi del 1955, soprannominata dal popolo “la Smargiassa” per le molte arie e la prepotenza con cui porta avanti la sua modesta vita in cui si propone di poter continuare ad abitare con un belloccio senza arte né parte, di cui intanto si è innamorata, nella casa che occupa da tempo ma che il proprietario, un vecchio ma piacente maresciallo dei carabinieri in pensione, interpretato da Vittorio De Sica, venuto a dirigere il locale Comando dei Vigili Urbani e assai sensibile al suo fascino femminile, adesso reclama. La Smargiassa non esita a lusingarlo per strappargli la firma di un regolare contratto d’affitto, ballando addirittura sotto gli occhi di tutti un Mambo italiano che ha reso famoso il film in tutto il mondo, ma quando l’innamorato buono a nulla scoprendo che i compaesani se lo additano come cornuto decide di partire emigrato, il suo castello di carte si affloscia nel pianto e ci vuole tutta l’interessata indulgenza del vecchio carabiniere, intanto consolatosi con una zitella in cui arde un più rispondente fuoco nascosto, per rimettere a posto le cose consentendole così di coronare il suo piccolo sogno d’amore. 

A seguito delle elezioni politiche del 25 settembre, annunciata dai prodigiosi sondaggi dei mesi precedenti, nel fatuo firmamento della politica italiana è apparsa una Smargiassa della cui luce marescialli e maresciallesse in servizio e in pensione nei tanti Comandi della ristretta ancorché effervescente vita pubblica italiana si stanno beando. Le arie non le mancano e neanche l’irruenza. Con la mano chiama e ferma gli applausi, scandisce pause teatrali con cui atterra gli avversari, meglio se avversarie, pareggia i fogli degli appunti picchiettandoli minacciosi sul tavolo, protende il busto in avanti e sguardo basso carica le parole scagliandole su chi ascolta, insomma tutte le astuzie sceniche delle fumose assemblee di sezione di un partito catacombale come il fu Movimento Sociale Italiano, quando ci si riuniva per fissare la linea, imporre i chiarimenti, vincere gli scontri da cui sortire dialetticamente più forti che pria. Professionismo politico, rivendicato e seriosamente esibito a salvaguardia di contenuti che la maggioranza degli elettori superstiti ha evidentemente apprezzato – non disturbare chi fa, la pacchia è finita, non tradiremo e non indietreggeremo, ovvero vincere e vinceremo, e poco altro. Se nel film di Risi il vecchio ma piacente maresciallo dei carabinieri in pensione aveva dovuto imbastire un piccolo corteggiamento della Smargiassa pescivendola, qui non ce ne è stato bisogno. Nel suo contenuto capitalistico, la promessa di non disturbare chi fa, chi intraprende insomma e spilla plusvalore come che sia, era già chiara, e l’alleato americano è stato subito rassicurato sulla fedeltà ai patti sottoscritti. E, del resto, perché meravigliarsi di ciò? La fiamma che arde in fondo al logo del partito di maggioranza relativa si riferisce più alla fedeltà atlantica forgiata in decenni di multiformi e non sempre limpidi servizi resi all’anticomunismo militante cuore pulsante dell’atlantismo, che alla fede nel fascismo storico, ormai retaggio folkloristico buono per i musei privati di qualche esponente di quel mondo assurto recentemente ad una delle massime cariche dello Stato. È però al momento della presa di possesso dell’appartamento che qualcosa si è incagliata in questa perfetta messa in scena in cui la servitù viene ammessa alla tavola dei signori. È bastato infatti che l’ex-magistrato Scarpinato, ora senatore, richiamasse in Parlamento quei trascorsi opachi, per giunta evidenziando il loro contenuto capitalistico, il nesso cioè tra l’atlantismo anche nei suoi aspetti criminali e l’eversione politica del dettato economico della Costituzione che il governo appena insediatosi si propone di perpetuare, perché le molte arie, l’irruenza, la sicumera del professionismo politico smargiasso si sgonfiassero di colpo, tanto da dover incorrere con modi spicci (“questo è tutto ciò che ho da dire”) nell’inesattezza e addirittura nel falso. All’ex-magistrato Scarpinato infatti, pareggiando fogli e scagliando parole a sguardo basso, è stato velatamente rimproverato un “teorema giudiziario” circa la strage in cui perse la vita Paolo Borsellino, che egli invece quale Procuratore generale contribuì a smascherare. Come sappiamo, la pescivendola smargiassa finisce in lacrime vittima dei suoi stessi intrighi, e ci vuole l’indulgenza del vecchio carabiniere per rimettere assieme i cocci del suo rapporto con il moroso sul punto di lasciarla. L’alleato americano è vecchio ma francamente è difficile immaginarlo indulgente e ancor meno appagato da un semplice per quanto ammaliante Mambo italiano. Quel che gli si promette lo vuole senza sconti. Più facile, perciò, è che si arrivi a una resa dei conti alla Sergio Leone con gli smargiassi che da decenni gli si strusciano per scroccare uno straccio di contratto d’affitto che, dopo i disastri del Ventennio e il purgatorio dei bassi servizi, li riporti al comando assoluto benché “democratico” della… Nazione. E che Dio protegga il paese Italia.

Il conservatorismo di Giorgia Meloni

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Capita di leggere un libro quando ancora i problemi che vuole agitare non si sono surriscaldati e si pensa che non si surriscalderanno. È il caso per chi scrive del libro di Giorgia Meloni, Io sono Giorgia, pubblicato da Rizzoli nel 2021, in cui l’autrice racconta la sua vita ma espone anche le sue idee. Ecco con riferimento a quest’ultimo punto gli appunti e le impressioni di lettura che chi scrive all’epoca annotò a margine di pagina:

– rivendicazione del sincretismo culturale in nome della libertà “anti-ideologica” e di un sapere posseduto spontaneamente dall’individuo che deve essere solo “chiarito” dalla cultura (198)

– rivendicazione di un aristocraticismo cognitivo e morale (“tutti gli uomini di valore sono fratelli”) (196). Gramsci, che pure è reclamato dal sincretismo della Meloni e sodali, sosteneva invece che “tutti gli uomini sono filosofi”. Una bella differenza!

– caricatura e falsificazione della sinistra additata sommariamente come marxista-uniformante, liberal-globalista, utopista-egualitaria (195)

– richiamo enfatico al principio di realtà come tratto tipico della destra che però con tipico salto sofistico diventa principio della tradizione, con tanto di richiamo alle “radici che non gelano” magnificate dall’immancabile Tolkien (194, 200)

– destra non materialista ma “divina” che difende, conserva e prega, anche qui benedetta sincreticamente da Pier Paolo Pasolini descritto come un “irregolare” al quale chi possiede il sapere spontaneo “anti-ideologico” si può liberamente richiamare (200)

– anti-utopismo (202), ovvero realtà = quella esistente ma che non si nomina, cioè il capitalismo

– progressismo, mondialismo, globalismo, islamismo, comunismo, un unicum indistinto di nemici della persona (194. 202)

– Black Lives Matters = la disprezzata cancel culture (203) ovvero disconoscimento della questione razziale

– contro il genderismo, esaltazione della persona, della famiglia, della patria ovvero facendo leva sugli eccessi disconoscimento di tutte le questioni che ciascuna di queste realtà pone tramite una contro-retorica della potenza, della bellezza, del libero arbitrio e del fascino della tradizione “classica” (203)

– in generale, disconoscere tutte le questioni aperte della crisi dell’Occidente evocate con l’apparente profondità del professionismo politico tramite un sincretismo che vuole rimettere in circolazione l’irrazionalismo del pensiero europeo reazionario soprattutto nelle sue ultime e più popolari propaggini (insistenza molesta su Tolkien). Ma questo non avviene a partire da una base di conservatorismo liberale “classico”, per quanto verbalmente rivendicato, bensì da una posizione politica non solo di fascismo storico ben dissimulato ma anche di neofascismo su cui si tace se non per rimarcarne vittimisticamente una presunta marginalizzazione (la “fiamma” non è solo il simbolo di una “radice che non gela” ma anche l’insegna di un movimento politico attivo dal dopoguerra in poi con un ruolo essenziale benché subalterno nell’anticomunismo dell’epoca)

– risalire all’indietro per divincolarsi dall’esito storico fascista e nazista in cui la tradizione reazionaria borghese precipitò tra le due guerre, in modo da poter riscattare quell’esito minimizzato ma al quale nascostamente ci si richiama perché rappresenta il momento in cui tale tradizione divenne universale (“totalitaria”) e costituisce quindi nelle sue “radici non gelate” un modello ideale con cui nobilitare il “grigiore” del “servizio” reso dal neofascismo in nome dell’anticomunismo alle forze che subentrandovi sconfissero il fascismo storico, ovvero l’americanismo e l’atlantismo

– il conservatorismo rivendicato da Meloni e sodali, un’ideologia di sconfitti che anelano alla rivincita assoggettandosi ai vincitori ai quali, presentendone l’attuale debolezza, vorrebbero finalmente subentrare pensando di poter riaffermare valori che, per quanto stentoreamente declamati (“donna, madre, italiana”), sono intimamente negati dalla “civiltà” al cui comando aspirano.