Politica

Basta non disturbare

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Parlando alla Coldiretti, la sezione agraria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha affermato che «lo Stato non deve disturbare chi vuole produrre ricchezza»1. Il fine concetto era in sé già chiaro, ma a rincalzo è intervenuto sul Corriere il giurista Francesco Saverio Marini spiegando che il presidenzialismo è la ricetta giusta per porre fine all’instabilità dei governi che «sfavorisce il Paese dal punto di vista economico»2. Marini è in linea, ma deve ripulire il suo lessico. Non si dice Paese ma Nazione. Come ha chiarito Giorgia, infatti, «la ricchezza in questa Nazione la fanno le aziende con i loro lavoratori»3. Meloni ha fatto bene a evocare i lavoratori. Essi, infatti, una volta appoggiavano l’Esperimento marxista, come lo chiama con notevole estro epistemologico monsignor Suetta, vescovo di Sanremo; ora invece lavorano per la Nazione, ovvero per l’umanesimo cristiano: «interpreto il successo del partito Fratelli d’Italia non come un voto di protesta ma come un risveglio capace di riscoprire i valori autentici su cui fondare la vita dell’uomo e la società»4. Valori autentici si attaglia bene con il concetto di ricchezza ma, Monsignore, bastava solo il singolare, valore, e tutti avremmo capito che Lei si riferiva a quella sostanza immateriale che i lavoratori secernono quando vanno in azienda in cambio di un salario. Lei, esimio Presule, giustamente rileva come ultimamente la sinistra ha trascurato questi operosi alveari e per questo «l’interrogativo si fa stringente: con quali contenuti possiamo colmare il vuoto spirituale, creatosi con il fallimento dell’Esperimento marxista?»5. Francamente, non lo sappiamo, ma è confortante constatare che Lei pensi che il fallimento dell’Esperimento marxista abbia a che fare con lo spirito. Converrà che il Cristianesimo da duemila anni si propone di riempire questo vuoto, ma ci riesce solo con la ricchezza della Nazione che sta tanto a cuore ai Fratelli d’Italia al punto da indurli a intimare l’alt, chi va là, al loro totem, lo Stato. Come vede, Monsignore, ci sono degli slittamenti concettuali non da poco, ma sicuramente Giorgia saprà porvi rimedio. Basta non disturbare.

 

 

  1. https://www.agi.it/politica/news/2022-10-01/non-disturbare-chi-vuole-lavorare-produrre-ricchezza-prima-uscita-pubblica-meloni-18284652/ []
  2. «Alla Carta serve una revisione. La sovranità dello Stato deve essere un principio supremo» Il giurista Marini: bene il presidenzialismo se con correttivi, «Corriere della sera», 3 ottobre 2022, p. 9 []
  3. https://www.agi.it/politica/news/2022-10-01/non-disturbare-chi-vuole-lavorare-produrre-ricchezza-prima-uscita-pubblica-meloni-18284652/ []
  4. Con Giorgia ha vinto l’umanesimo cristiano, «Libero», 3 ottobre 2022, p. 4 []
  5. Ibidem []

L’obbligo dell’inattualità

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In questo sito non vige l’obbligo dell’attualità, anzi, ma un commento immediato ancorché brevissimo si impone sulla vittoria di Fratelli d’Italia, scontata ma non certo riducibile all’ordinario tran-tran elettorale della scassata democrazia parlamentare italica. Cosa sono quelli di Fratelli d’Italia, fascisti, neofascisti, postfascisti? E quanti, e per quali motivi, si sono uniti a loro senza essere fascisti, neofascisti o postfascisti? Comunque sia, li vedremo presto all’opera e troveremo un termine adatto per le loro gesta. Ma qui e ora vogliamo occuparci della sinistra. Come se nulla fosse, si continua a parlare di cambio di segreteria del PD, di prossimo congresso, di candidati che si propongono, ma per fare che? È tutta la sinistra ridotta negli ultimi decenni alla vacua opposizione tra sinistra riformista e sinistra radicale che va sbaraccata. Il PD è un tappo che va subito rimosso e, alla luce del miserrimo risultato di Unione popolare e dell’inutile diritto di tribuna acquisito dai rimasugli dell’opportunismo vendoliano, la sinistra tutta va ricreata su una chiara pregiudiziale anticapitalistica. E del resto questo è l’unico modo per smascherare la falsa sinistra delle mance e mancette messa su dagli insulsi politicanti del M5S. Non è più tempo di congressi di bonzi che gestiscono potere per conto del “gruppetto” capitalistico che succhia plusvalore. Il riformismo ha fallito, passi la mano alla sinistra rivoluzionaria. Per mancanza di materia prima – dove sono infatti i quadri politici e intellettuali immediatamente operativi di questa sinistra rivoluzionaria? – non sarà affatto facile concretizzare questa alternanza, ma è l’unica che rispetta la storia della sinistra e che le può assicurare una prospettiva futura. Una prospettiva di cui – a questo ci si è ridotti, a farselo spiegare dal Papa gesuita venuto dalla fine del mondo – ha bisogno l’intera società.

Appunti pre-elettorali

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La campagna elettorale in corso si intreccia con temi che richiedono di allungare il cannocchiale della teoria, vedi il price cap del gas proposto già mesi fa dall’astuto Draghi su cui ora l’UE si sta dilaniando e le cui implicazioni evidenziano ancora una volta gli equivoci di certo ecologismo progressista. Ma è segnata anche da squillanti sondaggi che continuamente segnalano l’arrivo della piena elettorale di Giorgia Meloni. Nel polverone si intravede anche la sagoma ben nota del paese italico con i suoi opportunismi e la sua essenza capitalistica forgiata nei decenni passati e che ora fornisce la base per nuove mistificazioni. Cimentiamoci dunque in questa messa a fuoco con le poche note schematiche che seguono:

1) come insegnano i classici, il capitalismo si compone di rendita, profitti e salari. Con rendita essi intendono la rendita agraria, ma anche aria, acqua, miniere. Quindi, quello che oggi è comunemente chiamato “settore energetico”, carbone, petrolio, gas, è in realtà la rendita nella sua forma odierna di cui con la “tecnologia verde” fanno parte anche il vento, il sole e il mare;

2) la rendita non è solo estensiva (quantità o estensione di elemento sfruttato) e intensiva (tempo di lavoro e capitale investiti in un determinato elemento) ma soprattutto differenziale. Essa infatti sotto l’impulso della maggiore produzione (plusvalore) e riproduzione (incremento demografico) generate dallo sfruttamento degli elementi migra continuamente dall’elemento iniziale “migliore” all’elemento via via “peggiore”, in cui cioè la resa produttiva richiede sempre maggiore investimento di lavoro e capitale. L’esempio classico è quello del terreno vergine fertile e ben disposto, “recintato” da chi ha avuto forza e opportunità di farlo, contrapposto a quello pietroso e scosceso di chi ha dovuto acconciarsi. Se ad esempio si coltiva il grano, il suo valore si forma con riferimento a quello coltivato nel terreno peggiore poiché maggiore è la quantità di lavoro impiegata per produrlo. Come nota Ricardo, il grano non è caro perché si paga una rendita ma si paga una rendita perché il grano è caro1. Nel moderno “settore energetico” il prezzo di riferimento è quello del gas. Indipendentemente da come è prodotto – ed è prodotto materialmente estraendolo dalle viscere della terra, economicamente attraverso strumenti di speculazione finanziaria: rendita + rendita! – si può dire che il gas svolge la funzione di “terreno peggiore”;

3) il progressismo ecologico sembra non capire che la produzione energetica verde non è altro che una nuova forma di rendita che come tutte le rendite gradualmente genera una rendita differenziale. Se oggi per non deturpare il panorama si mettono le pale eoliche a venti kilometri dalla costa, la maggiore domanda di energia derivante dallo “sviluppo” indotto dallo sfruttamento del vento o di consimili elementi imporrà di metterne di nuove a venticinque e poi a trenta kilometri, in un crescendo di rendite differenziali eoliche, solari, geotermiche e quant’altro. Di per sé la “tecnologia verde” non assicura affatto il passaggio diretto “all’uguaglianza alla democrazia e alla pace”, come i progressisti ecologici, con una sintomatica convergenza con i capitalisti “verdi”, invece credono, pensando di poter fare a meno della fatica delle lotte sociali con cui si modificano i rapporti di produzione;

4) il price cap del petrolio e del gas che Mario Draghi da mesi sta cercando di imporre all’Unione Europea è capitalisticamente la mossa giusta. Il problema però è che Draghi, almeno nella sua proposta originaria, intende realizzare il price cap non coalizzando in generale i compratori contro i venditori bensì gli europei contro Putin. Esce dunque fuori dal terreno delle leggi economiche capitalistiche e muove guerra alla Russia con i cannoni dell’economia. Questa natura anfibia dell’idea dell’ex governatore della BCE non meraviglia. Infatti, durante il suo mandato di governatore, ma ancor più quale Presidente del consiglio, egli si è rivelato come l’alfiere più convinto della concezione secondo la quale la BCE, quale metafora bancaria dell’antica potenza militare europea che per ben note ragioni storiche non può essere più perseguita con gli eserciti, deve fare dell’Europa l’armata bancaria dell’Occidente, coordinata con l’armata reale ma anche economica e finanziaria degli Stati Uniti. Un gigantesco esercito  la cui ideologia è l’atlantismo e di cui lui si ritiene ed è considerato dai circoli di potere euro-americani fra i più eminenti strateghi

5) di questo esercito che non ammette indisciplina, l’Italia fa parte quale paese capitalistico che vive comprimendo il mercato interno (salari) per realizzare nel mercato estero il plusvalore (profitti) in catene produttive splendidamente subalterne, dalla meccanica di precisione alla moda al mobilio di design ai cavallini rampanti agli yacht per i magnati dell’Est e dell’Ovest. Recentemente, uno di questi campioni dell’Italia esportadora ha dichiarato che le elezioni del 25 settembre sono «irrilevanti nel contesto mondiale». Infatti, le imprese sono «lontanissime dalle tematiche elettorali italiane e vicinissime a quelle della vita reale dei dipendenti: l’inflazione, il costo delle materie prime». E ha concluso: «siamo controllati da Bruxelles. È come avere il due di spade quando la briscola è denari. Mi interessano di più le elezioni di midterm americane, mi interessa vedere cosa fanno i tedeschi»2. Ecco, capitalisticamente parlando l’Italia è un paese senza patria e senza nazione che i Fratelli d’Italia si propongono di rendere alla patria e alla nazione. Lodevole intento. Non è la prima volta che i fascisti tentano di raddrizzare il legno storto italico. Patria e nazione furono le parole con cui chiusero il Parlamento, imprigionarono gli avversari, vararono il corporativismo e lastricarono il cammino verso il baratro della Seconda guerra mondiale. Ma rinfacciar loro questo passato remoto non serve a niente, perché attuale è invece il loro passato prossimo su cui stanno costruendo il loro futuro. Essi sono infatti gli eredi orgogliosi dei neofascisti del Movimento Sociale Italiano, verniciatura legalitaria di un pulviscolo di soggetti e movimenti in feroce ancorché cameratesca competizione fra loro che nei decenni della “guerra fredda” assicurarono i bassi servizi della “strategia della tensione” di cui sotto le ali dell’atlantismo si nutrì la “lotta per la libertà”;

6) paradossalmente, la sovranità nazionale dell’Italia è oggi molto più limitata che ai tempi della “guerra fredda”. L’antifascismo storico non ha più mordente e quello nuovo non può essere professato perché richiederebbe il disvelamento dei misfatti dell’atlantismo che invece controlla tutti i meccanismi del “dicibile” e del “credibile”, dagli archivi al discorso dominante dei media. Fra gli applausi degli apparati i reggicoda di un tempo vengono così elevati al livello di coloro che di essi si servirono per edificare il potere di cui oggi ancora godono. Da Portella della Ginestra a Piazza Fontana all’Italicus alla Stazione di Bologna, è la grande pacificazione a spese della verità storica e della giustizia per chi ci ha lasciato la pelle. Al di là delle combinazioni parlamentari e dei ruoli di governo, questo è il fondamento indicibile della vera maggioranza politica che già in questi mesi ha fatto le sue prove e che si prospetta per il dopo voto, ovvero l’accoppiata Partito Democratico-Fratelli d’Italia, il primo garante del passato e del presente, i secondi del futuro.

7) Ma le incognite non mancano. Quanto reggerà il produttivismo italico, che Salvini stenta sempre più a rappresentare, nella parte di gregge da tosare per mantenere i sogni di gloria di un’élite politica “democratica” oggi, “conservatrice” domani, padrona in patria per mandato estero? Quanto reggerà l’atlantismo i cui tempi del consenso facile sembrano finiti e che oggi si impone più come dominio che come egemonia? Sulla spinta di quel mondo economico scontento e della debolezza dei vecchi circoli euro-americani non saranno gli stessi Fratelli d’Italia tentati di “sovranizzare la nazione” chiudendo il cerchio dell’onore perduto con la sconfitta in guerra del fascismo storico? Sarà l’inizio di un nuovo, lungo dominio in un mondo tempestoso in cui ciascuno si rinchiude nel suo “mondo a parte”, oppure si tratterà del passo falso che facendo crollare il vecchio mondo, oggi disposto pur di sopravvivere ad ammettere i servi nelle stanze buone, ne mostrerà la falsità e renderà dicibile e credibile ciò che oggi appare solo fantasiosa congettura “complottarda”? Ah, se in tutto questo la sinistra, i cui frantumi si propongono in queste elezioni la titanica meta del diritto di tribuna, si risvegliasse…

 

  1. D. Ricardo, Principi di economia politica e dell’imposta (1817), trad. it. UTET, Torino 1986, p. 229. []
  2. Boom di ordini estivi: la crisi non ferma i super yacht di Ferretti, «Il Giornale», 7 settembre 2022, p. 17. []

Socialismo o barbarie, oggi

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La falsa alternativa tra democrazia e autoritarismo che Nancy Pelosi, la Signora Confetto della politica americana, è andata a testimoniare recentemente a Taiwan nasconde a mala pena la realtà del confronto di forza tra i tre titani, gli Usa, la Russia e la Cina, che caratterizza questo scorcio iniziale di secolo. Ognuno di essi scaglia sull’altro la propria debolezza, sperando che collassi. Russia e Cina sperano che le profonde crepe apertesi con l’assalto al Campidoglio di due anni fa portino al crollo dell’intero edificio degli Stati Uniti. Riemergerebbero così gli antichi contrafforti del Nord “industriale” e del Sud “agrario” e il venir meno della secolare dittatura del Nord sull’intera nazione nordamericana in un sol colpo polverizzerebbe la federazione, il capitalismo e il ruolo imperiale degli Stati Uniti. Il pensiero strategico americano non se ne dà per inteso, anzi è convinto di avere molto filo da tessere e così, ora con le guerre delegate ora con le visite leziose, preme su Russia e Cina sperando che a loro volta collassino frantumandosi in molte Russie e in molte Cine. La fine dunque di questi Stati imperiali, paragonabile a quella degli Imperi Centrali che in Europa crollarono un secolo fa con la Grande Guerra. Se è una prospettiva realistica o un’allucinazione che scambia il caos che ne deriverebbe con il trionfo finale della democrazia, purtroppo lo si vedrà solo a cose fatte. La storia mostra che una simile allucinazione, l’internazionalismo democratico alla Woodrow Wilson, accompagnò la fine dell’Europa. Non è da escludere che questa dei costruttori di Stati di diritto che avanzano sotto le bandiere della Nato possa segnare la fine tante volte paventata dell’Occidente. La fine dell’Europa sette-ottocentesca mise di fronte all’alternativa tra l’irrazionalismo di tutti i demoni che nella sua lunga storia il capitalismo aveva ingabbiato nella razionalità strumentale della merce e la “ragione universale” che il socialismo prometteva con l’autodeterminazione dei popoli, la pace senza condizioni e l’instaurazione di una base economica sganciata dal plusvalore. Un’alternativa simile si ripropone oggi con la differenza che il socialismo non è in ascesa ma vive una profonda crisi come si può vedere dallo stato in cui versa nei vari settori dello scacchiere internazionale. In Occidente, il socialismo è un socialismo frantumato, dissimulato, rinnegato che non riesce più a prevalere in una sinistra schiacciata dalla sua subalternità “riformistica” al sistema capitalistico giudicato come l’unico possibile. Il superamento di questa subalternità non può certo avvenire con le sortite elettoralistiche o con il potere morbido della “cultura” ma tornando anche con una certa semplicità scolastica ai fondamenti teorici rivoluzionari il cui cardine è la lotta per l’instaurazione della “dittatura proletaria”. Di questa locuzione, se è difficile oggi definire il significato dell’aggettivo, più semplice è fissare quello del sostantivo, cioè la volontà di contrastare e ribaltare il dominio arbitrario che il capitale esercita nella struttura economica e che difende nella sovrastruttura politica non più e non solo con i tradizionali meccanismi parlamentari ma soprattutto con il pretesto della “difesa della democrazia” da un perenne “pericolo di destra” in nome del quale si santifica il “centro moderato”. Il risultato paradossale di questo inganno ideologico è che lo sbandierato “pericolo di destra” si fa sempre più concreto, anzitutto perché le sue istanze fatte proprie dal cosiddetto “centro moderato” nel miope tentativo di depotenziarle hanno minato nel corso del tempo la democrazia, e poi perché la destra con la sua attitudine autoritaria ereditata dalle dittature novecentesche appare più adatta della democrazia in crisi tanto a preservare il dominio del capitalismo nella struttura economica quanto a restaurare la sua aura “irrazionale” da cui promanano i suoi spiriti animali. Di qui la “democrazia illiberale”, come vengono pudicamente chiamati i nuovi fascismi contro cui si invoca il tradizionale “fronte antifascista” in anni recenti per altro ripudiato dallo stesso capitalismo, vedi il famoso documento della Morgan Stanley del 2013 in cui le Costituzioni antifasciste adottate nel dopoguerra da paesi come la Grecia, l’Italia o il Portogallo venivano additate come un ostacolo alle “riforme” volte all’integrazione liberistica. Insomma, con tutto il rispetto per coloro che vi si impegnano, il fronte unico antifascista appare sempre più come un’arma spuntata e il socialismo, proprio per salvare la democrazia come regime in cui meglio si può costruire la “ragione universale”, deve battersi per instaurare la sua dittatura nella struttura economica come condizione essenziale per bloccare il ritorno di quell’“irrazionalismo” che costituisce lo strato profondo della “forma di vita” capitalistica. Il socialismo vive se è intransigente. Su questa linea riuscirà esso a superare l’attuale dispersione? Lasciamo con un certo pessimismo aperto questo interrogativo e dal socialismo frantumato occidentale passiamo al socialismo negato di tutte le Russie. Nel loro purismo rivoluzionario, Trotsky e Bordiga ciascuno alla sua maniera si rifiutavano di ammettere che il pugno di ferro dei piani quinquennali era l’unico modo di contenere le prorompenti forze produttive che in Russia, già prima della Rivoluzione d’Ottobre, avevano cominciato a rullare. La rivoluzione non fu contro Il Capitale ma per “disciplinare” il capitale. Il “capitalismo di Stato” che ne sortì, ampiamente previsto dagli ideologi liberali, da Pareto a Weber, era l’inevitabile equilibrio “provvisorio” della dittatura proletaria, a patto che il partito unico fosse in grado di tenere vivo il nesso di politica, organizzazione e rivoluzione. Purtroppo la “volontà rivoluzionaria” dell’élite sovietica si degradò presto in generica “volontà di potenza”, ciò che Gramsci colse nella sua famosa lettera al PCUS del 1926, e l’organizzazione di conseguenza si trasformò in “burocrazia” per cristallizzarsi infine in quel “capitalismo oligarchico” con cui Putin intende unificare la “nazione slava”, riportando in vita a tal fine tutto il ciarpame oscurantista, dall’Ortodossia all’eurasismo, che il potere sovietico aveva combattuto solo “illuministicamente”. Per non soccombere nei rapporti di forza con l’americanismo atlantista Putin ha bisogno però di connettersi con altri quadranti in cui sopravvivono spezzoni imponenti di socialismo, in primo luogo con il socialismo ibernato della Cina. La Cina ha potuto mantenere la “forma” politica della dittatura proletaria perché ha salvaguardato il partito unico, la cui esistenza è però legittimata non dalla “volontà rivoluzionaria”, anche qui evaporata con le riforme di Deng, bensì dallo sviluppo nazionale delle forze produttive. Da strumento, il partito è diventato così feticcio che presiede alla creazione e redistribuzione della ricchezza. A pensarci bene, la Cina è il campione più riuscito del policentrismo auspicato da Togliatti nel suo Memoriale di Yalta, ma per assicurare la “connessione sentimentale” tra l’idea generale e le “particolarità” storiche le vie nazionali al socialismo avrebbero avuto bisogno di un “ambiente esterno” rivoluzionario, in assenza del quale sono sfociate o nell’ibernazione dell’idea come in Cina o nella sua liquidazione come nell’URSS e nei grandi partiti comunisti dell’Europa occidentale. È vero che l’attuale dirigenza cinese, ribaltando in nome di Mao l’ultima scelta politica di Mao, ovvero l’avvicinamento cinquant’anni fa agli Stati Uniti per opporsi all’incipiente deriva “russa” dell’allora Unione Sovietica, cerca di creare un tale “ambiente esterno”. Si tratta però di una prospettiva socialista esile e ambigua, affidata com’è ai meccanismi economici e alle iniziative politico-diplomatiche volte a neutralizzare l’antagonismo degli Stati liberal-capitalistici ma per nulla interessata a suscitare o a collegarsi a movimenti anche solo lontanamente paragonabili a quelli cui Mao ricorreva nelle sue sortite anti-burocratiche. Come il socialismo negato, anche il socialismo ibernato sopravvive così come “autocrazia”, uno stigma con cui l’Occidente liquida il fantasma inquietante del “capitalismo autoritario” che abbiamo già incontrato nella veste di “democrazia illiberale”. Ma se democrazia e capitalismo non sono consustanziali e se tanto all’Est quanto all’Ovest il capitalismo si rinserra nella corazza dell’autoritarismo, l’Occidente che tanto tiene alla democrazia perché non prova a costruirne una che non sia capitalistica? Sarebbe questa la vera risposta tanto all’autocrazia quanto alla democrazia illiberale che evidentemente non può essere data perché implicherebbe la ripresa del socialismo che l’Occidente, sotto il tallone di ferro della dittatura capitalistica nella struttura, non può perseguire. Il socialismo disperso, negato, ibernato che abbiamo rinvenuto in Occidente, in Russia e in Cina è dunque il sintomo di qualcosa che urge ma a cui, a causa dell’arbitrio che il capitalismo esercita nella struttura e difende “irrazionalmente” nella sovrastruttura, è impedito di nascere. Non tutto però soggiace a questo “blocco ontologico” in cui a rischio delle sorti del mondo si dibattono i tre titani alle prese con le loro rispettive contraddizioni. A tale blocco, per esempio, si sottrae almeno in parte il socialismo intermittente dell’America latina. Dal Cile al Brasile, dalla Bolivia all’Uruguay, sino all’Argentina peronista, il socialismo latino-americano che arrivi o meno al governo si affida per affermarsi prevalentemente al sistema rappresentativo, esponendosi così a inevitabili rovesci in un continente in cui forze capitalistiche brutali, spalleggiate quando non al soldo degli Stati Uniti, non esitano a buttare la maschera ogni qual volta il gioco parlamentare rischia di sfuggire loro di mano. Da Pinochet a Bolsonaro, fascismi più o meno feroci fioriscono così periodicamente. A parte il caso controverso del Nicaragua, a questo andirivieni si sottraggono Cuba e Venezuela, e se a Cuba con le sue inevitabili distorsioni domina la tradizionale forma del partito unico, in Venezuela dall’intreccio di “missioni sociali” e di “costituzionalismo egemonico” è sorta una sovrastruttura politica flessibile al punto da poter assorbire le scosse eversive di un aggressivo pluripartitismo. Dunque, benché intermittente il socialismo latino-americano appare tenace e innovativo, anche se sempre esposto alle mattane del “pazzo” nordamericano, ora pronto a colpire in nome di principi che esso per primo viola, ora in cerca di scambi imposti da sue impellenti necessità, come si è visto con il Venezuela prima additato come novello regno del male, poi blandito per il suo prezioso petrolio. Di questa spudorata arroganza, sicuramente colonialista e velatamente razzista, ancora di più paga lo scotto il socialismo sanguinante dell’Africa, del Medio e dell’Estremo Oriente. Qui i movimenti, i gruppi dirigenti e i capi sono stati di volta in volta dati in pasto a élite locali compiacenti, poi travolti e annientati. Il caso dell’Indonesia di Sukarno, accuratamente ricostruito da Vincent Bevins nel suo Il metodo Giakarta, è emblematico: se il leader è sopravvissuto mummificato, i movimenti sono stati spietatamente repressi e il capitalismo in questo come in tanti altri casi analoghi ha potuto guadagnare ciò a cui maggiormente tiene, ovvero il tempo. Siamo così giunti al punto dirimente. Al capitalismo nessuno ha promesso l’immortalità, perciò un palliativo che promette di durare cento, cinquanta, anche solo trent’anni equivale all’eternità. Esso vive immerso nel divenire di cui per riprodursi accresciuto succhia ogni istante. Ma istante per istante esso emerge dal divenire sempre identico a sé stesso. Tutti i modi di produzione sono confluiti in esso ed esso li ha aboliti assorbendoli nel suo eterno presente. La storia che ne deriva è la non-storia di un divenire asservito a una falsa eternità universale. È qui che interviene lo scarto del socialismo. Opponendosi alla dittatura del capitalismo nella struttura esso ripristina il tempo storico e le tendenze a esso immanenti. Il capitalismo che con la sua cornucopia di tecnologia, democrazia politica, pluralismo sociale e disponibilità di beni si proponeva come il compimento di tutte le ere, viene smascherato come un usurpatore e un falso profeta. Senza farsi intimorire dall’accusa di messianesimo che cinici, agnostici e razionalisti della domenica son sempre pronti a muovere, la prospettiva aperta da tale smascheramento può essere colta facendo ricorso alla formulazione meta-politica della profezia trinitaria, in cui il Padre onnipotente della Bibbia rappresenta l’era del potere assoluto; il Figlio misericordioso del Vangelo rappresenta l’era dell’amore per il prossimo ma anche della sua negazione; lo Spirito Santo, la terza era che verrà, riscatta e amplia questa dimensione nella pienezza della grazia. Spogliata della sua veste teologica, l’era della pienezza della grazia può essere vista come quella della fusione dello spazio e del tempo in un’unica totalità. La relatività del reale che ne deriva intensifica il processo produttivo al punto da non doversi più alimentare del lavoro come quantità sociale astratta ma di poter servire come base per la realizzazione onnilaterale dell’essenza umana. Di questa terza era in cui il soggetto è l’insieme di tutti i possibili punti di vista il socialismo è l’operatore perché esso non la riceve passivamente dal piano divino ma la trae attivamente dalla sua lotta per l’abolizione del dominio in tutte le sue forme, della natura sull’uomo, di Dio sull’uomo, dell’uomo sull’uomo. E lo scopo che il socialismo raggiunge con tale lotta è di infondere la totalità dello spazio-tempo nella vita quotidiana della specie elevandola così a genere umano. Il socialismo disperso, negato, ibernato, intermittente, sanguinante che abbiamo rinvenuto nei differenti quadranti internazionali, unificandosi in questa missione universale è oggi ancora una volta l’alternativa alla barbarie cui il “blocco ontologico” del capitalismo condanna l’umanità.

Abortire

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L’abolizione del diritto costituzionale all’aborto da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti ha fra i suoi effetti immediati l’allineamento tra cristiani conservatori occidentali e cristiani ortodossi orientali di rito russo in guerra contro la “democrazia” ucraina dell’utero in affitto. Una convergenza imbarazzante che, per i conflitti religiosi del passato e soprattutto per le attuali divisioni politiche, non può trasformarsi in alleanza organica di cui pure il cristianesimo potrebbe valersi nel confronto con le tendenze morali in atto. D’altra parte, se la morale libertina dell’aborto, dell’eutanasia, della procreazione mercificata, dell’omosessualità rivendicata e della fluidità di genere viene rintuzzata nella sua pretesa di elevarsi a morale di Stato, lo sfondo morale dello Stato torna a essere non già la morale laica della “decenza borghese” bensì quella repressiva del tradizionalismo retrivo. Ne consegue che le questioni morali dei singoli individui non verranno trattate nella loro unicità e concretezza, cui pure la morale borghese tendeva con le sue leggi prudenti o ipocrite che fossero, come la 194 italiana sull’interruzione di gravidanza, ma secondo la figura astratta del Dovere in contrapposizione a quella altrettanto astratta dei Diritti negli ultimi decenni giuridicamente prevalente. Questo conflitto tra proibizionismo e permissivismo è destinato a durare sino a quando non sarà possibile basare la morale sulla “particolarità universale”, intesa come giusto mezzo relativo a situazioni e soggetti la cui unicità arricchisce di volta in volta la norma generale collettiva. Questa etica mai conclusa e sempre in itinere, non casuistica ma concretamente universale, potrà affermarsi nella quotidianità se finalmente i bisogni della riproduzione saranno in equilibrio con le esigenze produttive. Sinora lo sviluppo delle forze produttive ha sbilanciato i fattori della riproduzione, trasformando le popolazioni in aggregati in cui, raggiunta la soglia emergente dell’autovalorizzazione infinita, il nascere e il morire, il piacere e il dolore, la mascolinità e la femminilità, sotto la scorza di una falsa socialità diventano pulsioni in conflitto tra di loro. Si può invocare il diritto all’aborto come rimedio per la minaccia di stupro che nei rapporti quotidiani incombe sulle donne? O l’aborto, nonostante il perfezionamento delle tecniche contraccettive, è comunque l’effetto distorto dello stravolgimento del piacere negato da tutto l’assetto dell’esistenza sociale? Si potrebbe continuare a lungo con domande del genere cui la morale corrente risponde oscillando periodicamente tra proibizionismo e permissivismo. Certamente, proibizionismo e permissivismo, momento apollineo e momento dionisiaco, razionalismo e irrazionalismo, sono ognuna nel suo ambito opposizioni che, a paragone di quelle espresse da altre civiltà, hanno consentito nel loro storico alternarsi il più elevato grado di sviluppo delle forze produttive. Ma il costo di tale “disforia sociale” che nessuna “formazione di compromesso”, com’è stato il cristianesimo delle origini, riesce più a compensare, pone all’ordine del giorno l’affrancamento della struttura da tali opposizioni. La trasvalutazione dei valori annunciata a gran voce da equivoci profeti non può che essere la trasvalutazione collettiva del valore di scambio: all’automatismo dell’autovalorizzazione infinita (merge) deve subentrare il controllo sovrastrutturale dei suoi prodotti (Bildung). Il delitto di aborto è quello commesso contro la specie da chi impedisce di portare a termine la nascita della nuova socialità che da tale sostituzione deve derivare.