Politica

La filosofia e lo Stato

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Lo Stato è il luogo in cui la filosofia si lega alla politica in senso non metafisico bensì concretamente storico, ma per le sue divisioni interne e per le forme di sapere alternative con cui è in concorrenza ha dovuto sempre lottare per affermare in esso la propria voce1. Per limitarci all’epoca moderna, nel suo Progetto filosofico per la pace perpetua Kant prevede un articolo segreto che prescrive l’obbligo per gli Stati di prendere in considerazione le massime dei filosofi circa le condizioni che rendono possibile la pace pubblica2. La clausola era diretta contro i giuristi visti da Kant come i principali rivali dei filosofi nell’influenza esercitata sullo Stato. Compito del giurista infatti è di applicare le leggi vigenti e non di ricercare il loro miglioramento, su cui invece verte la competenza dei filosofi che indagano la natura intrinseca della politica. In questo modo però il filosofo, constatava Kant sconsolatamente, si viene a trovare su un gradino inferiore. D’altra parte, lo stesso Kant prevedeva che a imporre la pace tramite un diritto cosmopolitico sarebbe stata la forza del denaro in quanto la più efficace tra tutte quelle in potere dello Stato. Essa infatti, aggiungeva Kant, ben si accorda allo spirito commerciale che prima o poi si impadronisce di ogni popolo. Enunciata come una sorta di legge di natura, questa constatazione era in effetti il riconoscimento implicito dell’avvento del capitalismo che avrebbe fatto emergere dei nuovi concorrenti dei filosofi, gli economisti. Così come i giuristi fornivano giustificazioni per lo Stato armato per la guerra, così pure gli economisti avrebbero fornito giustificazioni per lo Stato garante dello spirito economico capitalistico che aveva soggiogato l’intera società. Il nesso statuale tra politica e filosofia diventa dunque storicamente concreto nel succedersi di differenti egemonie intellettuali corrispondenti a differenti stadi di sviluppo della società. Da ultimo, agli economisti, screditati dall’incalzare di crisi economiche di cui non sono stati in grado di spiegare né l’origine né le cause, è subentrata l’estesa classe degli operatori dei mass media, dello spettacolo e dello sport che assicurano allo Stato l’armamentario discorsivo adatto alla società dominata dalla volatilità del capitale finanziario. Forse è per superare questa agguerrita concorrenza che i filosofi hanno sempre incontrato nel loro rapporto con lo Stato che Marx, nelle condizioni date dell’epoca capitalistica, affermò l’esigenza che la filosofia finalmente passasse dall’interpretazione del mondo alla sua trasformazione.

  1. Il partito-Stato

I tentativi di trasformazione della realtà intrapresi sulla spinta di questa esigenza sono andati incontro a gravi insuccessi, ma non tutto quello che è stato tentato merita di essere liquidato. In questo senso, è utile riprendere alcuni spunti della critica che Lukàcs sviluppò nell’ultima fase della sua riflessione filosofica contro i metodi staliniani di governo dello Stato. Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia3, allo scopo di mostrare come Stalin manipolasse il marxismo per giustificare la sua tirannia, Lukács contesta la sua concezione della legge del valore avanzata nell’opera I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), in un modo però che sbocca alla fine in un paradossale ribaltamento di posizioni teoriche. Nel suo scritto, Stalin sostiene che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, la cui soppressione a opera del socialismo determinerà la sparizione sia del valore che della legge del valore. È una veduta che traduce in maniera rozza e tranchant ciò che Marx in maniera più indiretta e sfumata sostiene nel Capitale. Lukács invece è del parere che Stalin incorra qui in una “papera” e, riferendosi a un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, spiega che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo4. In realtà, Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di chiarire a chi è culturalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in effetti funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori5. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina la distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno raffinata teoricamente rispetto a quella di Marx, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo, volta ad accumulare lavoro come quantità sociale astratta, sia considerata un’auto-costrizione liberante per l’individuo. Lukács, invece, con un moralismo implicito che privilegia la società rispetto all’individuo, rinvia a un nebuloso domani la fase in cui il pluslavoro prodotto dal lavoro socialmente necessario potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità, finendo per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive dominato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Lukács è pensatore troppo sagace per essere incorso lui stesso in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo si batteva affinché l’opinione pubblica e il dibattito democratico avessero più spazio nel governo dello Stato rispetto ai metodi costrittivi staliniani, egli intendesse consolidare la base economica entro cui il processo di democratizzazione avrebbe dovuto svolgersi, di modo che il passaggio dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana rimanesse sempre sotto la guida dello Stato guidato dal Partito. Se si tiene conto di ciò, si vede che la paradossale confutazione di Stalin da parte di Lukács non è un capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma illumina ancora oggi il presente. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive promossa dal partito-Stato determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo individuale?

  1. Dialettica dell’abitudine

Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai problemi dell’Occidente, Lukács, richiamando l’interesse di Lenin per l’abitudine quale categoria sociologica generale, ricorda che egli concepiva il comunismo come il momento in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Con il suo tipico modo di argomentare Lukács rende omaggio a questa dialettica dell’abitudine in cui è la società che per auto-regolazione passa da un costume all’altro, ma in realtà poi esige che sia lo Stato a promuoverla partendo dalla considerazione di come funziona l’abitudine nella società capitalistica dove, attraverso istituzioni quale il diritto, rafforza l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite negativo della propria esistenza e del proprio agire6. Per il superamento di tale stato di fatto Lukács individua due forze, la prima costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che in determinate epoche storiche le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche, la seconda data appunto dall’azione sistematica dello Stato. Lukács constata l’apatia delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del XX secolo di cui egli fu testimone e partecipe, e si affida quindi al ruolo dello Stato il cui nerbo però, come sappiamo, è costituito dal Partito quale garante della nuova base economica. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi più che l’apatia delle masse, in realtà prostrate dal dissolversi del Partito che organizzava il loro entusiasmo rivoluzionario, si è approfondito il connubio dello Stato con il mercato che all’apparenza sembra operare in virtù del libero spirito commerciale, ma in realtà si serve dello Stato per rinforzare con i suoi apparati vecchi e nuovi, magistratura e polizia ma anche televisione e social media7, quell’egoismo economico che sempre più pesa sulle masse come una dittatura senza volto. Lo sfondo della democrazia liberale, allora, sempre meno è il senso civico con cui i teorici del liberalismo spiegano il suo radicamento storico, e sempre più invece è il bruto comando statale mascherato però da una ingannevole spontaneità volta a ribadire l’egoismo economico.

  1. Coronavirus

Dunque, il demiurgo etico-politico che nella prospettiva di Lukács doveva essere lo Stato supportato dal Partito, nella superstite realtà sociale capitalistica è lo Stato fattosi mercato. Ma inaspettatamente una forza che non è lo Stato-Partito né lo Stato-mercato è piombata sulla realtà quotidiana provocando un cambiamento di abitudini che nessuno prima avrebbe mai potuto immaginare. È il coronavirus, all’apparenza un’irruzione della natura nell’organismo sociale, in realtà una porzione di natura incorporata nello Stato-mercato che con forza incontrollata si rivolta contro di esso sconvolgendo le abitudini acquisite. Prima della pandemia era considerato normale intraprendere lunghi spostamenti in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economico. In generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale per cui tanti si battevano invano. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come in un incantesimo ha continuato a somministrare i suoi stimoli consumistici, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus è pura negazione che in assenza di una adeguata dialettica dell’abitudine ha prodotto solo rabbia e frustrazione. Ispirato questa volta non dai giuristi e nemmeno dagli economisti bensì dagli scienziati, lo Stato si è limitato alla stretta sanitaria e i filosofi si sono divisi tra chi denunciava i pericoli della “biopolitica” e chi dava manforte alle proteste dell’uomo economico contro ogni pretesa di “pedagogia sociale”. Così le vecchie abitudini hanno potuto riconquistare facilmente il terreno perduto e come in un immenso esperimento sociale è stata solo ribadita la lezione sociologica generale che le abitudini inveterate possono essere cambiate da uno Stato capace di incutere lo stesso terrore assoluto destato dal coronavirus.

  1. Governi

Il cambiamento di cui si avverte sempre più l’esigenza non può però basarsi sul ritorno del Leviatano ma ha bisogno di quelle conoscenze critiche che in passato hanno cercato di sottrarre lo Stato all’automatismo dei suoi meccanismi di potere. “Spezzare lo Stato” è stata la metafora per indicare la presa di coscienza delle sue basi economiche e delle sue strutture ideologiche su cui fondare il passaggio a una “società civile” di tipo nuovo. La grave battuta d’arresto subita da questa impresa difficile ma necessaria ha di fatto consegnato la politica a un surrogato dello Stato, i “governi”, il cui scopo è la compensazione degli interessi fra i differenti comparti di quell’immenso agglomerato produttivo che è il capitalismo. Lo si vede bene nel pseudo-cambiamento della transizione verde per la quale ci si aspetta che i governi svolgano al meglio la loro opera di comitati d’affari: pareggiare per tutti i settori produttivi tramite la stabilizzazione del prezzo del carbonio il plusvalore da sottrarre a profitti e salari da girare alla rendita, favorire la nuova rendita verde a discapito di quella marrone dei carburanti fossili, foraggiare l’industria digitale legata alla nuova rendita verde. Il tutto naturalmente al fine magnificato dalla scienza ambientale del raggiungimento del punto di equilibrio tra le emissioni di gas serra e la capacità della Terra di assorbirle. Ma per conseguire questa mitologica neutralità climatica, quanti parchi eolici, fotovoltaici, marini e geotermici potrà assorbire la Grande Madre Terra senza entrare in conflitto con le attività e le forme di vita esistenti negli spazi richiesti da tali nuove installazioni? E quante nuove rendite si costituiranno? La risposta sembra essere che per i prossimi cinquant’anni di terra ce n’è abbastanza e per il resto l’importante è rompere gli oligopoli esistenti perché le nuove rendite saranno solo innocue integrazioni di reddito. Così, per restare all’UE, governo di tutti i governi, si programma il “Fit for 55” per il 2030 e ci si propone la “carbon neutrality” per il 2050 cui potranno concorrere virtuosi coltivatori di grano che riscuoteranno la rendita delle apparecchiature energetiche installate nelle loro piccole proprietà dove il palo eolico sostituirà il vecchio mulino. E che c’è di male se usando meno energia si può ottenere la stessa quantità di beni e servizi? Un idillio bucolico che solo i “governi” dediti a una gestione economica rivolta al “benessere” del consumatore possono alimentare in cambio del suo consenso.

  1. Dialettica del finito

L’instaurazione di una democrazia non più scissa tra la sfera astratta dei diritti politici e quella materiale degli interessi economici richiederebbe uno Stato non più asservito al desiderio che rincorre all’infinito se stesso, e ciò non per rinverdire il vecchio sogno sconfitto di dominare la produzione, che basterebbe liberare dalla servitù di miliardi di ore di lavoro inutili, ma piuttosto per capovolgere la prassi consumatrice erede dello stadio arcaico in cui l’individuo si realizza nel possesso di ricchezza. Ma per l’uomo economico che rifugge da ogni “pedagogia sociale” un tale Stato è una inammissibile dittatura che contrasta con la “presa diretta” libidica sulla realtà esterna con cui egli riduce al minimo l’Io collettivo portatore di una decrepita morale. È dall’epoca della Rivoluzione francese che De Sade incita i borghesi ad abolire la morale corrente e a emanare poche, miti leggi che si confacciano alle pulsioni fondamentali dell’essere umano. Ma non c’è società più inconseguente di quella capitalistica. Essa apre le porte dell’Inferno ma si arresta sulla soglia lasciando che chi vi si precipita dentro venga istantaneamente giudicato secondo i dettami della vecchia morale. Né è in grado di proporre una morale nuova che non sia quella ipocrita di chi per censo o per status può sottrarsi a tale condanna. Trionfa così la fluidità infinita del comando assoluto sul lavoro cui ambisce il capitale. Così come infatti si aspira all’infinitezza del desiderio andando oltre incessantemente la finitezza delle cose possedute, così pure si polverizza la merce lavoro in un flusso immateriale e infinito in cui il capitale nel riprodursi non possa bagnarsi più di una volta.

  1. Programma costituzionale

L’arresto di questo vizioso divenire richiederebbe uno Stato basato su una morale finalmente capace di colmare gli abissi scavati dall’economia capitalistica nelle fondamenta della società. Ma così come la morale è costretta all’ipocrisia, così pure lo Stato è sdoppiato nella sua eticità. Nei manuali lo Stato liberal-democratico si auto-celebra come una democrazia costituzionale ma nella realtà al suo interno alberga uno Stato occulto anti-popolare. Il capitolo più recente di tale doppiezza è la teoria socio-economica della modernizzazione che tale Stato anti-popolare ha perseguito lungo tutta la seconda metà del Novecento e che aveva come corollario politico la “strategia della tensione” come strumento di stabilizzazione repressiva rispetto a domande di emancipazione dal basso. Tale strategia non ha riguardato solo i punti caldi del confronto Est-Ovest durante la guerra fredda, ma ogni parte del pianeta in cui l’autonomia popolare potesse implicare la messa in discussione degli interessi occidentali8. Un momento di svolta di tale assetto è stato la caduta del Muro di Berlino, quando la teoria della modernizzazione è stata sostituita dalle privatizzazioni. Mentre nella modernizzazione, che pure implicava il mantenimento dei divari sociali, era consentito un certo trasferimento di risorse dall’alto al basso sociale, con le privatizzazioni le classi disagiate sono destinate a essere abbandonate a se stesse e le classi privilegiate si integrano sempre più in una ristretta area mondiale cosmopolitica. Un esempio paradigmatico di ciò si ha nell’area europea, dove si passa dai vari capitalismi di Stato più o meno declinati in chiave clientelare al liberismo dei parametri di Maastricht verso cui i governi convergono dando vita all’Unione Europea. Naturalmente tale passaggio non avviene meccanicamente ma comporta anzi un violento scontro fra le diverse fazioni riunite nello Stato anti-popolare occulto. Restando all’area europea e in particolare all’Italia, si scontrano da un lato l’élite che fonda il suo nuovo potere anticipando i diktat che provengono dal nuovo potere sovra-statuale eurocratico, dall’altro una frazione più numerosa, chiassosa e “provinciale” che intende continuare a praticare il capitalismo clientelare ma non sino al punto da essere emarginata dal nuovo gioco euro-atlantico globale. La “trattativa” che in Italia i giudici indagano da anni con i loro scarni strumenti giudiziari non è il rapporto illecito tra lo Stato e l’Anti-Stato ma la lotta tra le diverse fazioni dello Stato anti-popolare occulto da cui emerge il precario ma, a livello planetario, emblematico regime di una videocrazia che, ammantata di “bipolarismo”, aspira a sottrarsi a controlli giudiziari e politici che possano ostacolarne il peculiare “vitalismo”. Di fronte a tale deriva, i virtuosi della Costituzione vigente da un lato rivendicano formalmente il “programma costituzionale” di uno Stato che si fa carico dei divari sociali, dall’altro o per scelta o per debolezza soggiacciono al “vincolo esterno” del comando eurocratico inserendo in Costituzione obblighi come il pareggio di bilancio che eternizza non più il capitalismo bensì la contingenza storica della gestione liberistica del capitalismo.

  1. Conoscenza a posteriori

Populismo e sovranismo sono i tizzoni ardenti dell’esplosione avvenuta nello scontro tra l’élite cosmopolita al comando nelle varie diramazioni nazionali di tale Stato anti-popolare e i sogni popolari accesi dai programmi full time dell’egemonia videocratica rinforzata dai tablet e dagli smart phone. Questi movimenti abborracciati, incapaci di imporre l’esigenza confusamente avvertita di un “benessere” non più affidato alle false promesse dell’ascesa economica, in poco tempo sono stati riassorbiti nelle categorie del vecchio ordine e quando, dopo la pandemia, con i piani di spesa e resilienza, le transizioni energetiche e qualche accenno di “spesa pubblica” stava per ripartire il meccanismo di compensazione dei “governi”, improvvisamente è riemersa la frattura profonda che, coinvolgendo il mondo intero, passa in Europa tra lo Stato amorfo del vizioso divenire e lo Stato assoluto della statualità sacralizzata. L’epicentro della scossa è avvenuto in Ucraina dove negli anni scorsi l’inserimento in Costituzione del progetto di aderire alla Nato ha esplicitato la natura di apparato internazionale di Stato di tale organizzazione volta ad assicurare lo “sfondo”, in termini di “sicurezza” e di “valori” militarmente presidiati, dell’attuale gestione liberistica del capitalismo9. Nel discorso del 22 febbraio 2022, base ideologica dell’intervento della Russia in Ucraina, tra le molte cose che Putin imputa a Lenin vi è quella di avere inoculato nella macchina statale sovietica il germe della sua catastrofica dissoluzione riconoscendo il diritto di secessione delle repubbliche che all’inizio degli anni Venti si riunirono nell’URSS10. In realtà, questa rabbiosa accusa è il miglior riconoscimento della giustezza della posizione della dirigenza dell’epoca che con l’autodeterminazione dei popoli, la pace senza condizioni e l’instaurazione di una base economica sganciata dal plusvalore stava delineando il “nuovo mondo” sottratto all’alternativa tra lo Stato del cattivo divenire e quello della statualità assoluta, entrambi saldamente anche se diversamente ancorati nell’alienazione di merce. Alla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto a livello di “entusiasmo delle masse” tale prospettiva era ancora aperta, ma le atomiche sganciate dagli Stati Uniti su Hiroshima e Nagasaki quando ormai la guerra con il Giappone era vinta furono l’avvertimento che il terreno di sfida non era più quello della risoluzione sociale delle contraddizioni sociali, bensì quello della loro gestione tecnica e di potere su un fondamento inscalfibile di economia capitalistica comunque gestita. Il vero errore storico fu dunque l’accettazione di questo terreno di scontro da parte di una dirigenza che, anche dopo la scomparsa di Stalin, non disdegnò i suoi metodi dispotici di gestione dello Stato. Budapest 1956, Praga 1968, Belgrado 1999, Kiev 2022 si chiariscono allora come gli attacchi e i contrattacchi in cui, venendo meno progressivamente sino a dissolversi la contrapposizione tra comunismo e capitalismo, emerge chiaramente lo scontro tra le due rocce barbariche dell’euro-atlantismo e dell’eurasismo che costituiscono i focolai di un’alienazione totale che solo una “organizzazione estranea”, non più Stato, non più partito, non più governo, può farne risaltare  la contingenza altrimenti non più percepibile. Come questo “salvatore” senza più la vaghezza del mito religioso si concretizzerà storicamente, dipende dalla creatività della specie che la filosofia conoscerà se la scommessa sarà vinta. Allora, essa potrà dileguare.

 

 

  1. Questo testo è la Premessa di un libro di prossima pubblicazione intitolato Tra filosofia e politica. Saggi, recensioni, interventi. []
  2. I. Kant, Per la pace perpetua. Progetto filosofico (1795), trad. it. a cura di N. Merker in Id., Lo Stato di diritto, Roma, Editori Riuniti 1973, p. 102. []
  3. G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987. []
  4. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92. []
  5. Il Capitale, (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157. []
  6. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68. []
  7. F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021, cap. IV. []
  8. Per una ricostruzione degli effetti di tale missione modernizzatrice su paesi “periferici” dell’Asia, dell’Africa e dell’America latina, cfr. V. Bevins, Il metodo Giacarta (2020), Torino, Einaudi 2021. []
  9. A che punto è il cammino dell’Ucraina verso la NATO? – discussione pubblica, 8 marzo 2021, https://uacrisis.org/it/punto-del-cammino-ucraina-verso-nato. []
  10. V. Putin, Donbass sovrano, il discorso di Putin alla nazione: cosa vuole davvero lo Zar, 22 Febbraio 2022, https://it.insideover.com/politica/donbass-sovrano-la-traduzione-integrale.html. []

Una storia piccola

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Due fatti fra i tanti accaduti nel mondo hanno assunto un significato emblematico mentre andava in scena l’elezione del Presidente della Repubblica, il primo, la morte di uno studente schiacciato da una putrella l’ultimo giorno del suo periodo di obbligo scolastico al lavoro introdotto da una delle più recenti “riforme” della scuola, il secondo, il crollo di un lungo ponte su un orrido burrone in Pennsylvania poco prima dell’arrivo del Presidente Biden venuto ad annunciarne il rifacimento nell’ambito del suo piano infrastrutture da mille miliardi di dollari. Evidentemente, è destino di Biden di arrivare sempre in ritardo sull’urgenza dei problemi, ma il punto essenziale sono le illusioni che il piano infrastrutture ha suscitato circa la reincarnazione del grande Roosevelt nelle sembianze di Sleepy Joe. Alla vista di così tanti dollari di spesa pubblica, i keynesiani hanno provato un tuffo al cuore e la sinistra riformista tutta ha cantato in coro un peana per il tanto atteso ritorno dello Stato in economia. Illusioni, appunto, perché Mario Draghi, candidato ieri oggi e domani alla Presidenza della Repubblica, ha spiegato per tempo che, nell’ambito della dottrina liberista, teoria egemone del tardo capitalismo morente, esiste a seconda del ciclo il debito buono e quello cattivo. Oggi, nel ciclo economico che detta dottrina concepisce sotto le forme quasi-eterne dei cicli naturali è il momento del debito buono, e così non solo l’Amico di Orfeo potrà restaurare i ponti che si adagiano mollemente sul fondo di un burrone qualche ora prima del suo arrivo ma, nel nostro piccolo, anche Julien Mario Sorel con il modesto ma non disprezzabile gruzzolo del Pnrr potrà procedere, anzi, potrà “mettere a terra” i tanti piani di spesa che le varie amministrazioni del principato stanno alacremente predisponendo. È questa la ragione in chiaro per cui, alla fine del rodeo, Lega, Cinque Stelle e fazioni varie del PD lo hanno rinchiuso per ora nello scomodo palazzo di Largo Chigi, un operatore dei conti che faccia da scudo internazionale per l’implementazione dei loro contrastanti appetiti. La ragione occulta è che, tra ambizioni crepuscolari berlusconiane e velleità sovraniste e populiste di nuovo conio, c’è stata un’opposizione di una qualche efficacia che per ora ha scongiurato il potere totalitario della fazione “introiezionista”, quella che trae la propria legittimità anticipando il comando euro-atlantista prima che l’elefantiaca eurocrazia e lo sclerotico atlantismo lo impongano. Una mezza vittoria dei “provinciali” antichi e più recenti, al costo però di gravi perdite che nel tempo peseranno e che nell’immediato vede la vecchia carcassa dello Stato ancora più malconcia di una settimana fa. Ma veniamo all’altro fatto, l’“incidente sul lavoro” che ha avuto stavolta come protagonista non il solito operaio ma uno studente obbligato al lavoro di fabbrica per potere accedere all’esame finale del suo corso di studi. È la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” prevista dalla riforma denominata della “buona scuola” introdotta dal governo presieduto da uno dei più frenetici manovratori tra vecchio e nuovo all’opera nelle appena concluse elezioni presidenziali. Grazie a uno dei rari momenti di televisione-verità, prontamente sfruttato dall’astuto senatore, abbiamo potuto assistere in diretta al fittissimo fuoco di sbarramento da costui rabbiosamente indirizzato contro il tentativo di portare alla Presidenza un nome che potesse dare una qualche soddisfazione al magmatico mondo venuto fuori dall’inopinato spurgo elettorale del 2018. Una missione a costui evidentemente affidata, come si era capito all’epoca del varo rispettivamente del Conte I e II e del Draghi I, da centrali facilmente intuibili e di cui presto dovremmo poter scorgere la ricompensa politica. In quest’ultima occasione in cui questo capitano di ventura si è scagliato con ogni forza contro la dirigente dell’intelligence nostrana sul punto di ascendere al soglio massimo, gli italiani hanno potuto consolidare la loro impressione, sicuramente sbagliata, che i servizi segreti non agiscono in base a leggi e regolamenti per quanto flessibili ma devono essere un pericoloso covo di bande al servizio di questo o di quello. Ma è il sacrificio del giovane studente che qui importa, poiché più di qualsiasi confutazione teorica dà il senso di ciò che la scuola deve essere per la dottrina liberista di cui sopra, un avviamento al lavoro nelle forme tipicamente penitenziali che il lavoro ha assunto in questa fase putrida del capitalismo morente che i boy scout del profitto e i Julien Mario Sorel dei trilioni di dollari del debito buono si immaginano trionfante nel tempo eterno delle galassie. Com’è ormai consuetudine, la polizia ha accolto con democratiche manganellate le proteste degli studenti rimasti ancora in vita, e nessuno della Lega o dei Cinque Stelle, così tanto impegnati a promuovere il futuro sub specie di una rispettabilissima Capa dei Servizi a Presidentessa del Principato, ha trovato da ridire. Della Lega che, unico punto su cui è d’accordo con quel “partito provvisorio” che è Fratelli d’Italia, sparerebbe ai barconi di migranti, non c’è da meravigliarsi; i Cinque Stelle invece confermano la loro funzione di pezzi di ricambio di un meccanismo arrugginito che spera di sopravvivere con la “transizione ecologica”, mettendo cioè dei pannelli solari sui tetti di case in cui la forma di vita capitalistica potrà continuare a scorrere in modi sempre più profondamente alienati. I problemi però non mancano. La Lega ha il motore nella contea lombarda ma aspira a prendersi tutto il principato e, nelle confabulazioni tra Salvini e Giorgetti, il carrello dell’egemonia non scorre fluidamente dall’interesse corporativo a quello nazionale, provocando le paurose oscillazioni che si sono viste nella vicenda dell’elezione del Presidente della Repubblica. E quanto ai Cinque Stelle, il cui Grillo parlante non conta più neanche quando canta di notte una serenata alla validissima Elisabetta Belloni, se la devono vedere con i soliti fantasmi meridionali, da un lato la risorgenza dell’eterno notabilato politico, cui vuole dare nuovo lustro il giovane Di Maio avviato ormai alla carriera di un nuovo Andreotti senza (per ora) i cardinali, dall’altro le fumose aspirazioni trasformatrici-di-non-so-che affidate all’eloquio moroteo di Giuseppe Conte, nominato d’ufficio dal PD avvocato del popolo per fornire un alibi alle residue truppe di sinistra che, acquattate in quel partito, presidiano il deserto chiamato “campo largo” di cui Bettini è il fervido coltivatore indiretto. E a proposito del PD, dietro i larghi occhiali del pencolante corazziere Enrico Letta, esso si caratterizza ormai orgogliosamente come l’antemurale di tutto ciò che presto sarà travolto dalla corrente impetuosa di un futuro che, chi con gioia, chi con timore, sente urgere con forza crescente. Atlantismo, europeismo, liberismo, tutti vecchi schemi che, come un treno quando sbaglia lo scambio, sprizzano scintille terrificanti a contatto con la realtà, come dimostra il pericolo di guerra che incombe sulla vicenda ucraina. Sono le famose “contraddizioni” di cui per fortuna la storia è ricca, e non sarà certo un vecchio e rispettabile signore che per settimane ha recitato convintamente la parte del servitore dello Stato di ritorno dopo l’onorato servizio al suo modesto alloggio privato, a lenirle nell’anno elettorale in cui il principato, salvo ulteriori fantasiosi impedimenti, sta per precipitare. Una storia piccola che i suoi piccoli protagonisti si rifiutano di pantografare sulla storia grande che altrove senza aspettare i loro comodi sta prendendo forma.

La trattativa

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L’imminente elezione del Presidente della Repubblica, per le speciali circostanze in cui si sta per celebrare, richiede un ripasso della natura dello Stato in Italia. Lo Stato italiano è una democrazia parlamentare retta da una Costituzione antifascista all’interno del quale sin da subito si è installato uno Stato occulto anticomunista. L’anticomunismo ha avuto la sua base nella teoria socio-economica della modernizzazione portata avanti lungo tutta la cosiddetta Prima Repubblica e, sin dalla strage in Sicilia di Portella della Ginestra, nel 1947, aveva come corollario politico la strategia della tensione come strumento di stabilizzazione repressiva rispetto a domande di emancipazione dal basso. Un momento di svolta di tale assetto fu il 1992, in cui sotto i colpi di Tangentopoli la teoria della modernizzazione fu sostituita dalle privatizzazioni. Mentre nella modernizzazione, che pure implicava il mantenimento del divario tra Nord e Sud, era consentito un certo trasferimento di risorse verso il Sud, con le privatizzazioni il Sud è destinato a essere completamente abbandonato a se stesso e il Nord si integra sempre più in un’area esportadora sub-germanica. Si passa dal capitalismo clientelare o di Stato al liberismo dei parametri di Maastricht incardinato nella incipiente Unione Europea. Naturalmente ciò non avviene meccanicamente ma comporta anzi un violento scontro fra le diverse fazioni riunite nello Stato anticomunista occulto. Qui se ne possono schematicamente indicare due, l’élite che fonda il suo nuovo potere anticipando i diktat che provengono dal nuovo potere sovra-statuale eurocratico, e una frazione più numerosa, chiassosa e “provinciale” che intende continuare a praticare il capitalismo clientelare, non sino al punto però da essere emarginati dal nuovo gioco euro-atlantico globale. La “trattativa” che i giudici indagano da anni con i loro scarni strumenti giudiziari, e forse anche con una certa dose di paranoia politica, non è il rapporto illecito tra lo Stato e l’Anti-Stato, ma la lotta tra le diverse fazioni dello Stato anticomunista occulto, in particolare quelle che sommariamente abbiamo sopra descritto. Il precario equilibrio sorto da tale scontro e puntellato presumibilmente in modo indipendente dalla sovrastruttura pubblicitario-televisiva, tra dismissioni dell’immenso apparato economico creato durante il periodo della modernizzazione e mance più o meno generose a un Sud sempre più depresso e derelitto, è sopravvissuto alla crisi economico-finanziaria del 2008 sbalzando di sella la frazione “provinciale” o simil-sovrana scelta da un corpo elettorale ristretto in un bipolarismo artificioso, e portando al governo, grazie ai buoni servigi di una sinistra completamente subalterna alle logiche sin qui descritte, l’élite degli “introiezionisti”, di coloro cioè che derivano la loro legittimità nazionale dall’introiezione del comando prima che esso venga imposto da forze esterne. Non siamo mica la Grecia! Sulla nave che aveva preso ad andare è impattata nel 2020 la pandemia – sia detto per inciso, non semplice incidente di percorso ma limite “esterno” dello sfruttamento della natura insito nell’attuale modo di produzione; tale impatto ha rimesso in discussione l’equilibrio faticosamente raggiunto tra le diverse fazioni dello Stato anticomunista occulto, il quale ora prova a uscire dalle sue crescenti difficoltà con ulteriori forzature della Costituzione formale antifascista. In particolare, ma non da ora, i punti di tensione sono il sistema giudiziario e la forma di governo parlamentare, ritenuti lacci troppo stretti per la ricostituzione del margine di un saggio di profitto in caduta libera. Il sistema giudiziario è già stato oggetto di particolari attenzioni da parte del governo in carica ma, per quanto esso cerchi di guadagnare meriti con occhiute repressioni dei movimenti anti-modernizzatori, dovrà essere ulteriormente “fluidificato” nella sua pretesa di essere il guardiano di uno Stato di diritto tanto astratto, quanto compromesso da poco commendevoli pratiche carrieristiche. Una condizione essenziale perché ciò avvenga è che l’elezione del Presidente della Repubblica segni sia nelle modalità politico-istituzionali che nella figura stessa dei suoi protagonisti un cambio di forma di governo, con il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella presidenziale. Tale passaggio potrà essere più o meno radicale, e questo dipenderà se a vincere sarà l’uno o l’altro dei candidati che sin qui si stanno contendendo la scena, se a vincere cioè sarà o l’élite eurocratica o quella simil-sovrana. L’elezione del prossimo Presidente della Repubblica è insomma una “trattativa” in chiaro, senza (si spera) scoppi di mortaretti, anche se qualcuno, non si sa bene se incauto o ben informato, ha già evocato i generali. È evidente che rispetto a tutto ciò, riformismo, populismo e sovranismo sono strumenti del tutto inadeguati alla sfida in corso da ormai un trentennio in Italia, e che una soluzione alternativa di ricomposizione dello Stato dovrebbe essere quella che, nel quadro di una attenta analisi delle nuove opportunità offerte dalle trasformazioni del quadro politico internazionale, mirasse a riconquistare, su una nuova base economica a tale scopo finalizzata, quell’indipendenza nazionale tragicamente perduta nell’avventura della Seconda guerra mondiale.

No vax, sì vax, statu quo

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Di fronte all’alternativa se vivere o morire, l’ostinazione del no vax di non proteggersi dall’infezione del coronavirus appare irrimediabilmente irrazionale. Ma come si è prodotta l’immediatezza dell’alternativa tra vivere o morire su cui punta l’implacabile appello alla “razionalità” del sì vax? Nell’antichità la peste era attribuita alla punizione degli dei scontenti dell’irreligiosità dei popoli. Solo in pochi si sottraevano alla spiegazione mitologica, come Tucidide che riguardo alla peste di Atene del 429 a.C. riferiva del movimento del tutto terreno che l’infezione aveva percorso dall’Etiopia all’Egitto al Peloponneso, o Ippocrate che la inquadrava nella sua teoria degli umori. La spiegazione naturale è il primo passo verso la spiegazione scientifica, ma la scienza, e con essa la medicina che è una scienza molto particolare, dall’antichità ai nostri giorni non si è sviluppata nella serra sigillata di un’accademia di ricercatori di verità disinteressate ma in quel flusso di contatti di uomini, oggetti e territori cui allude Tucidide. Alla medicina empirica di Ippocrate e poi a quella sperimentale di Claude Bernard questa società degli scambi non chiedeva conoscenze pure ma rimedi alle falle che questi movimenti sempre più frenetici aprivano nel corpo sociale. I rapporti tecnici della scienza – teorie, esperimenti, strumenti scientifici – erano dunque il “contesto interno” collegato al “contesto esterno” di rapporti sociali determinati dallo scambio di merci. Una società perciò dominata dalla categoria “astratta” del valore e quindi divisa in classi, tra chi possiede i mezzi di produzione e chi la semplice forza lavoro, in cui la scienza ha il compito di risolvere le incessanti contraddizioni dello sviluppo delle forze produttive, ridotte però a evidenze empiriche immediate. Così, l’infezione da coronavirus non è l’effetto “interno” dello sfrenato movimento “esterno” di uomini al seguito di frenetici flussi di merci, ma l’immediatezza assoluta della proteina Spike che aderendo al recettore ACE2 consente secondo il capriccio del caso e delle circostanze l’ingresso del virus nella cellula del corpo di tale o tal altro individuo preso nel vortice dello “sfrenato movimento” che, rigettato però sullo sfondo, diviene causalmente non percepibile. Di conseguenza, non ci sono più dei che puniscono ma un movimento occulto che, nella parvenza di indiscutibile realtà naturale, la scienza aggiusta nelle sue fratture, divenendo essa stessa produttrice di valore. E siccome la scienza con tali operazioni di aggiustamento, vedi i vaccini, si lega all’evidenza immediata del vivere o del morire, essa diventa la potenza assoluta che è “irrazionale” contraddire. Alla credenza nella punizione divina subentra allora il razionalismo di massa come credenza obbligatoria nella potenza della scienza che fa da supporto inattaccabile dello statu quo sociale. Lo scandalo del no vax allora sta nella miscredenza rispetto a tale potenza e nel suo potenziale eversivo rispetto allo statu quo. Tuttavia, almeno sino a quando tale miscredenza non riuscirà a tradursi in una più ampia “razionalità sociale”, essa resta pura negazione che con la sua evidenza di morte rafforza l’evidenza non della vita, ma della vita generata dal regime falsamente naturale dello sfrenato movimento.

I Talebani e la teocrazia del mondo avvenire

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L’ideale di una teocrazia del mondo avvenire, vagheggiato in Occidente come la ricongiunzione amorosa finale dell’uomo con Dio, ha assunto un peso nuovo quando l’Islam l’ha trasformato in una prospettiva politica concreta. Il ritorno dei Talebani in Afghanistan nell’estate del 2021 è l’ultima e più recente concretizzazione di tale prospettiva, e non può essere compresa senza uno sguardo retrospettivo sulla Rivoluzione iraniana del 1979. Tale rivoluzione infatti è l’archetipo dei rivolgimenti che successivamente hanno interessato i paesi del Medio Oriente e dell’Asia centrale. E l’Afghanistan non fa eccezione, anzi, come vedremo, si può dire che esso anticipa alcune tendenze che avranno pieno sviluppo a Teheran alla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Impigliato in modelli di sviluppo alternativi, importati ora dall’URSS ora dagli USA, e strumentalizzato dalla loro implacabile contrapposizione, l’Afghanistan ha poi perso il filo della propria auto-affermazione che invece è riuscita all’Iran, divenuto così il modello della teocrazia del mondo avvenire quale possibilità politica concreta nel confronto con l’Occidente, cui ora gli stessi Talebani si ispirano. Ma in che cosa l’Afghanistan ha prefigurato tale modello prima che esso trionfasse in Iran? Per rispondere a questa domanda dovremo prima ripercorrere la genesi e lo svolgimento della Rivoluzione iraniana del 1979, in modo da poter poi evidenziare le analogie che fanno dell’Afghanistan dei Talebani un’ulteriore e più radicale incarnazione di quella prospettiva teocratica che, dalle sue prime formulazioni teoriche alle più concrete realizzazioni storiche, con alterne fortune ma con ostinata determinazione l’Islam politico persegue da ormai più di un secolo. 

Le tentazioni della modernità

Al principio del XX secolo, la Persia, l’antica regione mediorientale che dagli anni Trenta del secolo scorso ha preso il nome di Iran, era articolata su quattro Province (Azerbaijan, Fars, Kerman e Khurasan) e varie città autonome. Gli Scià della dinastia turca dei Qajar erano dei monarchi assoluti ma molto deboli per l’incapacità di raccogliere tasse, di mantenere un esercito e una stabile amministrazione centrale. L’autorità del Governo centrale (Trono del Pavone) era limitata a Teheran o poco più e lo Scià era spesso in difficoltà nel finanziare il costo della Corte. Molte delle funzioni di uno Stato moderno nel senso europeo del termine erano delegate alla nobiltà terriera (amministrazione delle Province, raccolta delle tasse, mantenimento dell’ordine pubblico) o al clero sciita (educazione, assistenza sociale e amministrazione della giustizia), ramo dell’Islam penetrato nel paese all’epoca della dominazione araba (634-651), poi divenuto religione di Stato con la dinastia dei Safavidi (sec. XVI). Nelle città, i commercianti (bazarì) costituivano un’importante classe sociale, mentre nelle Province le tribù nomadi (Bakhtiarì, Qashqai ecc.) mantenevano un potere sostanziale. In un sistema sociale poligamico, l’aristocrazia terriera era molto estesa e spesso legata da parentela diretta alla famiglia allargata dello Scià. La nobiltà Qajar occupava quindi di diritto i governatorati delle Province e le posizioni di Governo a Teheran. Il clero sciita, per parte sua, poteva contare sulla propria struttura gerarchica e sull’indipendenza economica, grazie alle elemosine rituali e ai patrimoni dei santuari, delle fondazioni e delle associazioni religiose.

Una prima scossa a questo sistema agrario di tipo feudale venne dalla Rivoluzione costituzionale del 1906. Essa, con il sostegno interno del clero sciita e con quello esterno degli Inglesi, già presenti nella regione in virtù di accordi semicoloniali per lo sfruttamento del petrolio, ebbe come sbocco la concessione, il 5 agosto del 1906, della Costituzione da parte di Muzzafareddin Scià, e il permesso dell’elezione del primo Parlamento o Majilis. In questo Parlamento, fece il suo esordio, quale rappresentante della classe aristocratica della città di Isahan, Mohammed Mossadeq, figura centrale della successiva politica iraniana.

Conviene soffermarsi su questa prima Rivoluzione, perché in essa si ritrovano in germe tutte le costanti della successiva politica iraniana. Infatti, in seno al primo Majlis e nel redigere la Costituzione, emersero sin da subito forti contrasti tra le diverse componenti del movimento costituzionalista. Per le forze laico-liberali e progressiste, localizzate soprattutto nelle città, specie a Teheran, la Costituzione avrebbe dovuto aprire la via alla modernizzazione economica e sociale del Paese, alla democratizzazione e laicizzazione dello Stato, alla tolleranza religiosa e all’emancipazione delle minoranze, sul modello di quanto era successo in Europa nel XIX secolo. Per altre componenti importanti del movimento, come la nobiltà terriera, i commercianti del Bazar e parte del clero, nel limitare il potere assoluto dello Scià, la Costituzione avrebbe dovuto in realtà difendere i valori tradizionali della società a partire dalla riaffermazione del primato della fede islamica sciita, e preservare gli assetti sociali e ideologici minacciati dall’influenza culturale straniera. Questa contraddittoria coesistenza tra una “società civile” formata dai ceti urbani laico-liberali e progressisti e una “società tradizionale” comprendente latifondisti, mercanti del bazar e clero sciita “quietista” sarà una caratteristica destinata a ripetersi nella storia politica iraniana. Una dicotomia ideologica che va integrata con altri due importanti elementi che la intersecano.

Il primo elemento è la presenza, dagli anni Venti sino a tutti gli anni Settanta del XX secolo, di un forte partito comunista, il partito Tudeh, espressione delle classi lavoratrici della città e del proletariato agricolo della campagna di cui sosteneva la storica richiesta di redistribuzione delle terre. Un partito, però, attraversato da forti contrasti e da continue scissioni, specchio della debolezza delle sue forze sociali di riferimento.

Un secondo elemento è il ruolo non solo ideologico, ma anche economico, del clero sciita. Con la rivoluzione costituzionale del 1906, entro il clero sciita, al tradizionale approccio “quietista”, critico ma distaccato dalla politica, anche se molto presente nella gestione di un’economia dell’assistenza, si affianca una componete militante, disposta cioè a entrare attivamente in politica per governare la modernizzazione indirizzandola verso una stretta conformità della società in evoluzione al dettato islamico. All’interno del primo Majlis, dopo un’iniziale prevalenza delle tendenze laico-liberali e progressiste, è l’alleanza tradizionalista tra la nobiltà terriera e il clero militante che finisce per prevalere. Su pressione del clero, allora, la riaffermazione del primato dell’Islam sciita sulla legislazione ordinaria viene sancita nel 1910 con la creazione di un Consiglio religioso incaricato di vagliare la conformità delle leggi emanate al dettato islamico, una sorta di precursore del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione del 1979.

Non solo petrolio

Incardinato su questo binario del contrasto tra una debole “società civile” e una preponderante “società tradizionale”, con le “forze del lavoro” in una posizione sempre subordinata, l’Iran si avvia alla seconda scossa del suo assetto agrario-feudale, che culmina nel triennio 1950-1953, in cui primeggia la figura di Mohammed Mossadeq. Mossadeq incarna la moderna anima nazionale dell’Iran che, all’interno, si batte per ridurre il potere assoluto dello Scià, e all’esterno trova il suo emblematico successo nel confronto con gli anglo-americani per il controllo e lo sfruttamento del petrolio. Ma la politica di Mossadeq non si limitò alla nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana. Furono introdotte riforme sociali e politiche che sarebbero poi state più ampiamente riprese dai successivi svolgimenti della politica iraniana. In particolare, alle donne fu riconosciuto il diritto di voto nei consigli comunali e per i contadini fu prevista l’abolizione del lavoro servile contemporaneamente all’approvazione di una legge, nel 1952, che obbligava i proprietari terrieri a versare il 20% delle loro entrate in un fondo di sviluppo con cui finanziare alloggi e altri benefici per la popolazione rurale. Inoltre, nel gennaio 1953, nel pieno dello scontro con lo Scià, e utilizzando i pieni poteri ottenuti dal Parlamento, Mossadeq avviò una riforma agraria che istituiva consigli di villaggio e aumentava la quota di produzione spettante ai contadini. Queste politiche, portate avanti anche per limitare l’influenza del Tudeh, valsero però a Mossadeq l’ostilità del clero tradizionalista contrario al riconoscimento dei diritti politici delle donne e l’accusa da parte dell’aristocrazia terriera di essere un “traditore di classe”.

La terra ai contadini

Dopo la fine dell’era Mossadeq, la questione agraria e l’emancipazione politica delle donne, anche su sollecitazione dei circoli riformatori americani che mettevano in guardia dal pericolo di una rivoluzione dal basso, furono riprese dall’azione modernizzatrice dello Scià come punti qualificanti della cosiddetta Rivoluzione bianca. Così, nel 1963, assieme ad una serie di misure concernenti il diritto familiare e matrimoniale e il ruolo pubblico delle donne, a queste ultime fu riconosciuto il pieno diritto di voto in tutte le elezioni. Mentre, per quanto riguarda i contadini, fu avviata una riforma agraria volta a modificare la struttura proprietaria dei terreni agricoli. Prima della riforma agraria, il 70% della terra coltivabile era di proprietà di una piccola élite di grandi proprietari terrieri o fondazioni religiose. Non esisteva ancora un registro fondiario ufficiale, ma la proprietà della terra era documentata mediante atti di proprietà in base ai quali il documento non rappresentava una specifica area di terra misurata ma un villaggio e la terra appartenente al villaggio. Inoltre, il 50% dei terreni agricoli iraniani era nelle mani di grandi proprietari terrieri, il 20% apparteneva a fondazioni di beneficenza o religiose, il 10% era di proprietà dello Stato o della corona e solo il 20% apparteneva a contadini liberi. Con la riforma agraria, la terra dei 18.000 villaggi sin allora registrati sarebbe stata divisa tra i contadini che vivevano nel villaggio e ai grandi proprietari terrieri veniva concesso di possedere un solo villaggio. Dovevano vendere il resto della loro terra allo Stato che a sua volta doveva venderla ai contadini senza terra a un prezzo notevolmente inferiore. Lo Stato avrebbe anche concesso prestiti a basso costo agli agricoltori che si sarebbero riuniti in cooperative agricole.

Il partito di Dio

La principale obiezione che il Tudeh in esilio rivolse alla riforma agraria voluta dallo Scià è che le espropriazioni non avvenivano gratuitamente ma gravavano sui contadini assegnatari che si trovavano oberati nel tempo dal debito di pesanti rimborsi. I religiosi invece si appuntarono sulla questione dell’emancipazione politica delle donne. In particolare Khomeini, che all’inizio degli anni Sessanta muoveva i suoi primi passi sulla scena politica, riguardo alla riforma agraria lamentò solo il fatto che il clero non fosse stato consultato in anticipo dal governo su un progetto su cui era sostanzialmente d’accordo, e si limitò a mettere in evidenza come la riforma avesse come scopo di “distrarre” i contadini. Molto più decisa invece fu l’opposizione riguardo all’estensione del diritto di voto per le donne e alla possibilità da parte loro di ricoprire cariche pubbliche. A differenza del Tudeh che elogiò tale misura considerandola come l’inizio di un processo per rimuovere le iniquità rimanenti in campo economico, Khomeini pur dichiarandosi non contrario a consentire alle donne di votare, definiva la loro elezione a cariche pubbliche come una “prostituzione” e la sminuiva di fronte alle continue limitazioni della libertà di espressione e di stampa imposte dallo Scià.

In queste posizioni ci sono già tutte le premesse della rivoluzione islamica del 1979 che costituisce una sorta di terzo tempo della modernizzazione dell’Iran in cui il Paese si trova ancora immerso. Nelle sue forme politiche, la rivoluzione islamica del 1979 riprende moduli sovietici, con i Komité, sorta di soviet che spuntano in ogni dove in tutto il Paese, ma ben presto la “società tradizionale” prende il sopravvento tanto sulla debole “società civile” urbana, quanto sulle forze del lavoro.

Nel febbraio 1979, dopo la partenza dello Scià e la proclamata neutralità delle Forze Armate, gli avvenimenti si susseguono convulsi: l’insediamento di un Governo Provvisorio non comporta lo scioglimento del Consiglio della Rivoluzione Islamica e si instaura quindi fin da subito quel dualismo di potere tra organi dello Stato e organismi emananti dalla “società tradizionale”, ormai egemonizzata dal clero sciita militante, che diventerà una delle caratteristiche tipiche della Repubblica Islamica.

Il referendum sulla forma dello Stato, che vede la vittoria della Repubblica Islamica con il 98% dei consensi, è del marzo 1979. Fino al quel momento, il fronte unico che raggruppa tutte le opposizioni sostanzialmente tiene, ma le divergenze tra le diverse anime del movimento rivoluzionario emergono subito dopo in forma anche violenta. I nazionalisti liberali al Governo vorrebbero riportare un po’ d’ordine e di legalità nello spontaneismo dei Komité e nell’attivismo dei tribunali rivoluzionari. Il Tudeh e le sinistre lamentano la “svolta a destra” del movimento rivoluzionario. I Fedayin del Popolo iniziano a scontrarsi con i Komité islamici. Gli islamisti vogliono proseguire la Rivoluzione islamica per sancire nella Costituzione il principio del Velayat e Faqi, cioè del Governo del Giureconsulto islamico, e sono preoccupati di possibili restaurazioni dello Scià con l’aiuto straniero, come era già successo nel 1953 con il colpo di Stato contro Mossadeq. Essi guardano poi con sospetto ai nazional-popolari al governo e alla loro tradizionale ispirazione laico-secolare e filo-occidentale nel ricordo di Mossadeq.

Queste lotte intestine si concludono sostanzialmente alla metà degli anni Ottanta, quando il partito islamico elimina totalmente i compagni di strada, dall’estrema sinistra ai nazional-popolari, la cui funzione viene assorbita dal partito islamico stesso che, su una base non più laica, ma religioso-popolare, si pone alla guida della nazione nella difesa dall’aggressione a opera dell’Iraq di Saddam Hussein.

Da quanto abbiamo detto sin qui appare evidente il ruolo centrale del clero sciita militante, come forza economica, sociale e politica del Paese. La continuità ideologica nell’azione di tale forza per tutto il corso del XX secolo – l’islamizzazione di una società che deve confrontarsi con la sfida della modernizzazione, si è sempre espressa con politiche pragmatiche e flessibili. Questo pragmatismo ha la sua base nel fatto che il clero sciita è alla testa di una capillare struttura di assistenza sociale e redistribuzione del reddito tra i suoi fedeli e sostenitori politici, che esso da sempre coordina. Non è un caso che, quando tale redistrbuzione si inceppa, come sembra che accada nell’Iran del 2017-2018, scoppino delle rivolte, in cui il popolo minuto che vive di tali sussidi o che perde i suoi risparmi nelle falle dell’economia controllata dal clero, si rivolta contro il potere centrale, divenendo massa di manovra delle varie fazioni in cui il regime islamico è diviso. Questo populismo religioso fa sì che la rivoluzione si concretizzi non nell’instaurazione di un ordine economico alternativo bensì nell’affermazione della nazione, che si identifica però non più con i ristretti ceti urbani ispirati dall’Occidente come al tempo dello Scià ma con il “popolo” che comprende i “poveri” e più in generale la campagna senza però mettere in discussione disuguaglianze e assetti proprietari. La rivoluzione anti-imperialista all’esterno diventa perciò contro-rivoluzione sociale all’interno, e il “partito di Dio” è lo strumento che stabilizza i rapporti di produzione in una forma ibrida di capitalismo assistenziale di Stato che elimina l’istanza politica del lavoro. Tacitato il conflitto di classe interno, la nazione, ridefinita in termini di identità religiosa, può dedicarsi a una politica di potenza regionale dalle evidenti ambizioni mondiali, se si considera l’ambigua corsa all’arma atomica in competizione con Israele.

Quiete prima della tempesta

Abbiamo detto all’inizio che l’Afghanistan prefigura tendenze affermatesi poi compiutamente nella Rivoluzione iraniana del 1979. Naturalmente ciò avviene in un peculiare contesto interno ed esterno al paese che dà a tali tendenze una coloritura e uno sviluppo loro propri. L’Afghanistan si differenzia innanzitutto per il ben noto frazionamento etnico, una maggioranza pashtun che domina sulle minoranze tagike, uzbeke, hazara e altre ancora. Questo carattere ha influenzato tanto i modi attraverso i quali l’Afghanistan ha perseguito la propria indipendenza nazionale, quanto i tentativi di riforma sociale. Ancora all’inizio degli anni Settanta il paese è una monarchia costituzionale che dagli anni Venti persegue una modernizzazione analoga a quella di altri paesi dell’area, tra cui appunto l’Iran. Il re è il riferimento dei signori delle campagne (khan), grandi latifondisti che assieme ai mullah, capi religiosi responsabili nei villaggi dell’educazione coranica, governano di fatto le aree rurali al posto di un potere centrale debole e lontano. L’occidentalizzazione dei costumi è perciò limitata alle ristrette aree urbane, in particolare Kabul. Anche nelle campagne, però, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, si avviano trasformazioni che dalla base economica arrivano a intaccare gli assetti ideologici. Infatti, grazie agli aiuti internazionali devoluti sia dagli Stati Uniti che dall’allora Unione Sovietica, con la creazione di infrastrutture e opere irrigue si avvia un capitalismo rurale che svuota in parte il potere tradizionale dei latifondisti a favore di una incipiente classe di agricoltori mercanti. L’effetto è una crescita dei contadini senza terra la cui proletarizzazione crea un vuoto “spirituale” non più colmabile dai tradizionali rapporti di rispetto sociali e religiosi. Dunque, sotto un’apparenza di quiete, in realtà urgono fermenti ideologici e politici che all’inizio degli anni Settanta trovano un primo sbocco nel colpo di Stato ad opera di Mohammad Daud Khan, cugino dell’ultimo re Zahir Shah e già personalità politica di spicco. Con il proposito di accelerare il processo di modernizzazione, Daud Khan abolisce la monarchia e instaura una repubblica a partito unico. Oltre a una intensificazione dei rapporti con l’allora Unione Sovietica, pur in un quadro di non allineamento, Daud avvia una riforma agraria che però, al di là degli intenti rimasti tali circa una redistribuzione delle terre, si concretizza solo in un timido inizio di redazione catastale.

Due blocchi contrapposti

L’approccio burocratico al problema dei rapporti tra città e campagna e il cambiamento traumatico della forma di governo danno l’avvio a un convulso succedersi di regimi e fasi politiche in cui però è possibile individuare abbastanza nettamente le linee attraverso le quali vengono perseguiti tanto l’affermazione nazionale quanto le riforme sociali. L’accelerazione di Daud Kahn fece emergere i due blocchi che poi si contenderanno la scena negli anni successivi sino al caos dei signori della guerra e alla nascita dei Talebani alla metà degli anni Novanta, ovvero i conservatori religiosi e i comunisti che, già dalla metà degli anni Sessanta, si erano organizzati nel Partito democratico Popolare dell’Afghanistan.

Quanto ai conservatori religiosi, si tratta di un fronte che cambia nel corso del tempo, in riferimento ai territori e alle appartenenze etniche. È noto che l’Islam afghano è sunnita per il 90%, in contrapposizione a una minoranza sciita del restante 10% di etnia azera. In generale, nella storia dell’Afghanistan l’Islam si è caratterizzato non tanto per la sua funzione assistenziale, come in Iran, ma per il ruolo giocato nei movimenti di resistenza ai tentativi di occupazione di potenze straniere. È quanto accadde nel respingere le due aggressioni inglesi del XIX secolo, in cui l’Islam fornì un cemento ideologico “nazionale” che compensava le divisioni derivanti dall’esistenza di un sottostante orgoglio identitario tribale e di un altrettanto senso dell’onore personale e familiare. Nel quadro di questa funzione “nazionale” le moschee non erano solo luoghi di culto, ma anche riparo per gli ospiti e luoghi d’incontro e di socialità, oltreché di istruzione scolastica e di rispetto delle varie festività. Era consuetudine per un afghano passare un certo periodo di tempo della propria gioventù a studiare il Corano in una madrasa. È su queste consuetudini che si innesterà il fenomeno dei Talebani, nato nei campi profughi ai confini con il Pakistan in seguito al conflitto provocato dall’intervento sovietico del 1979. Qui le madrase diventeranno anche centro di assistenza e di sostentamento delle popolazioni lì ammassate.

Quanto ai comunisti, benché divisi al loro interno tra una fazione mirante alla conquista rivoluzionaria del potere (Kahlq, ovvero Massa o Popolo) e una favorevole a un più ampio fronte nazional-patriottico (Parcham, ovvero Bandiera o Vessillo), essi appoggiarono Daud nel rovesciamento della monarchia e nel 1978, con un colpo di mano in seguito a disordini provocati dall’uccisione di un loro eminente esponente intellettuale, Mir Akbar Khyber, riuscirono a conquistare il potere con la Rivoluzione di Aprile. La riforma agraria, che Daud aveva appena accennata, divenne allora la spina dorsale di un rivolgimento radicale delle campagne. Infatti, assieme all’abolizione dell’usura, del prezzo della sposa e del matrimonio forzato e a un programma intensivo di alfabetizzazione, fu avviata una redistribuzione con la quale si limitava a sei ettari la quantità di terra che una famiglia poteva possedere, procedendo alla requisizione senza indennizzo della quantità eccedente. L’intento era di emancipare i contadini (dehqan) dall’oppressione secolare dei grandi proprietari fondiari (Kahn) i quali, legittimati ideologicamente dall’elemento clericale, decidevano della distribuzione delle sementi, delle attrezzature agricole e dell’accesso alle fonti idriche. La riforma, varata il 1° gennaio 1979, che prevedeva anche la creazione di cooperative incaricate di fornire crediti, fertilizzanti e mezzi di produzione, avrebbe però richiesto più tempo per subentrare al vecchio modo di produzione basato sulla mezzadria, il credito a usura da parte dei kahn nonché il prestito dei mezzi per arare i campi. Il crollo nell’immediato dell’economia agricola causato dalla disarticolazione di tale arcaico modo di produzione divenne allora il terreno fertile per una sollevazione anti-governativa, maturata agli inizi del 1979, che assunse presto le caratteristiche di un complessivo scontro ideologico. La riforma agraria, infatti, venne percepita come una sfida al possesso della terra come supporto di tutta la forma di vita tradizionale, in quanto elemento non solo di ricchezza materiale, fonte dell’endemica conflittualità interna a tale forma di vita, ma anche di mantenimento del prestigio e dell’autorità politica dei capi, i quali perciò, colpiti dalle espropriazioni nel loro ruolo sociale, si mobilitarono e, facendo appello a motivi sia ideologici che tribali, riuscirono a egemonizzare il proletariato agricolo che la riforma intendeva emancipare dalla sua storica condizione di miseria economica e di subalternità sociale. Fu dunque principalmente questo contesto interno di “rivoluzione passiva” a scatenare la guerra civile, e solo secondariamente l’intervento sovietico del dicembre 1979 che mirava a stabilizzare un’area cruciale per gli interessi strategici dell’allora Unione Sovietica.

Scontro egemonico

Senza dover andare oltre in una ricostruzione storica che per molta parte è ancora cronaca, abbiamo già qui molti degli elementi che abbiamo rinvenuto nel contesto iraniano ma distribuiti differentemente lungo il processo di modernizzazione che, nel convulso succedersi dei regimi politici e degli assetti ideologici, si trasforma in un tentativo di emancipazione dall’alto sfociato in un conflitto tra città e campagna. Infatti, alla germinale “società civile” delle poche aree urbane si contrappone l’immensa area rurale dove ristagna la “società tradizionale” retta dalle consuetudini e dai principi religiosi di un Islam quale unico collante della frammentazione tribale e familiare. Il grande possidente (kahn) è la figura di rispetto di questo “quieto” universo fondato sul nesso tra terra ed esistenza sociale. La “società civile” delle poche aree urbane, specie nel suo strato politico-ideologico, è però in grande fermento, e il PDAP, l’equivalente del Tudeh iraniano, riesce addirittura a conquistare il potere centrale, al punto da suscitare l’ammirazione dei rivoluzionari iraniani che vedono in quelli afghani dei romantici combattenti da emulare. È possibile così portare la sfida estrema alla “società tradizionale” con quella riforma agraria che, come abbiamo visto, non tocca solo l’organismo economico ma acquista il significato di una messa in discussione di un’intera forma di vita. A questo punto, pur nella differenza dei contesti e degli svolgimenti, il processo arriva allo stesso esito: il blocco tra mullah e kahn reagisce “sanfedisticamente” contro i “senza Dio”, che qui non è lo Scià ma i comunisti del PDAP. Dal canto loro, le forze rivoluzionarie già divise al loro interno indietreggiano dai propositi emancipatori e, man mano che per guadagnare consenso si attestano su posizioni di sola rivendicazione dell’affermazione nazionale, perdono la loro legittimazione già incrinata dall’appoggio dell’invasore, sino a essere travolte e annientate dal movimento religioso-patriottico dei mujaheddin. Nel caos dei “signori della guerra” sorge allora l’Emirato islamico in cui la religione nell’interpretazione radicale dei Talebani salva la nazione. A differenza dell’Iran, però, dove lo scontro avviene sul piano ideologico dell’emancipazione femminile, in Afghanistan la reazione è indirizzata principalmente contro la riforma agraria avvertita come sfida a un’intera forma di vita. C’è da chiedersi però se la riforma agraria fosse lo strumento adatto per una simile impresa. Essa certamente spezzava la rendita feudale, ma il dogma della redistribuzione del latifondo condiviso da tutto il socialismo dell’epoca, se recepiva la “fame” di terra dei contadini di cui invece i proprietari erano “sazi”, costituiva però un’elaborazione economicistica del legame dell’uomo con la terra che, oltre a deprimere nell’immediato le forze produttive, non era in grado di opporre una nuova egemonia a quella “sanfedistica” della “società tradizionale” e, come abbiamo visto in Iran, confinava le forze rivoluzionarie in una posizione subalterna rispetto ai modernizzatori ispirati dall’Occidente capitalistico.

Terra, Dio, esistenza

I talebani, dunque, sia nella loro prima (1996-2001) che nella seconda emergenza (2021), sono l’esito estremo di questa mancata elaborazione egemonica che prima ha travolto e annientato le forze interne emancipatrici e poi si è opposta vittoriosamente a una modernizzazione imposta militarmente per un ventennio, dal 2001 ai nostri giorni. In quest’ultimo periodo, in cui il paese è stato sotto il controllo delle forze occidentali con alla testa gli Stati Uniti, l’organismo economico, a parte il mercato “spurio” degli aiuti internazionali contiguo a quello dei traffici “illegali”, è stato sostanzialmente abbandonato a se stesso. Infatti, a parte una “riforma agraria” limitata al progetto di un catasto agrario che ricorda quello avviato ugualmente senza esito dal lontano regime di Daud, niente è stato fatto, e non poteva che essere così in un rapporto basato essenzialmente sull’occupazione militare, per elaborare in modo nuovo quel nesso tra terra ed esistenza la cui incomprensione segnò il fallimento della riforma agraria tentata dai comunisti negli anni Settanta. C’è chi ora, per l’Afghanistan, “il cuore sanguinante dell’Asia”, preconizza la fondazione di uno Stato sciita comunista, come a voler riprendere quel discorso riformatore interrotto ma sulla base di rapporti etnici e religiosi ribaltati. Il presente, tra rinnovata oppressione interna e ottusi ricatti esterni, è così tragico che ogni previsione risulta azzardata.

Quel che si può dire è che la vicenda dell’Afghanistan riguardata dal punto di vista qui prescelto, la riforma agraria, assume un significato generale circa le conseguenze della mancata rielaborazione del nesso tra l’uomo e la terra. Le religioni non sono realtà assolute ma, a seconda del grado di sviluppo dell’organismo sociale, guidano, elaborano e accompagnano le trasformazioni della realtà sociale. La teocrazia del mondo avvenire così come si è storicamente concretizzata in Iran prima e poi in Afghanistan è un dispotismo che tacita i conflitti sociali suscitati dall’avanzare del capitalismo e lasciati irrisolti dai movimenti di emancipazione a causa di impostazioni economicistiche subalterne alle concezioni modernizzatrici. Piuttosto che lo stadio futuro finale la teocrazia del mondo avvenire è la permanenza di un passato in cui la terra è oggetto di sfruttamento e Dio è il testimone di questa rapinosa appropriazione. L’introduzione del macchinismo industriale nel mondo agrario ha solo dato vita a quell’organismo ibrido tra rendita e profitto che è il capitalismo agrario, lasciando immutate anzi rafforzandole tutte le altre sovrastrutture ideologiche. D’altra parte, l’avanzare della scienza e della tecnica, si pensi alla produzione in laboratorio di proteine e alimenti che sempre più largamente si sperimenta, prefigurando un’agricoltura come ramo industriale della genetica, della chimica e della biologia sintetica, sembra preludere a una terra abbandonata sia dagli uomini che da Dio. La rendita agraria (ma con questo termine bisogna intendere “ecologicamente” anche lo sfruttamento di ciò che sta sotto la terra) viene così spodestata dalla sua pretesa di essere il sostegno della “vera” fede, ma se si pensa alla crescente tendenza del capitalismo contemporaneo a fare a meno del lavoro, della divina “trinità”, rendita profitto salario, a sopravvivere sarà solo la merce. Sta nella desolazione di questa anonima divinità senza tempio la forza che promana dalla falsa promessa della teocrazia del mondo avvenire.