Politica

Eppoi basta

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Da «Whatever it takes» a «Eppoi basta». Questa la parabola del Grande Funzionario. Si ricorderà che «Whatever it takes» è la frase che, pronunciata il 26 luglio 2012 nella sua veste di governatore della Banca Centrale Europea all’indirizzo dei mercati finanziari per scoraggiarli da eventuali attacchi speculativi all’euro, ha procurato a Mario Draghi una vistosa aureola che l’ha accompagnato negli anni avvenire garantendogli per chiamata diretta l’ascesa al soglio di Palazzo Chigi. E qui, dove la santità non basta, le cose si complicano. Pare infatti che, giorni fa, durante un Consiglio dei Ministri ci sia stato un diverbio, a quanto pare l’ennesimo, tra l’aureolato e il ministro Franceschini, il quale chiedeva che fossero reintrodotti i fondi per la ristrutturazione delle facciate1. Triste sorte quella di un santo di doversi occupare dei cappotti termici. Ma, come mostrò mirabilmente Stendhal, cosa non farebbe un Julien Sorel per non dare corso alle sue ambizioni? Non corriamo. Pare infatti che la conversazione dalle ordinarie questioni edilizie sia ascesa alle più alte vette politiche quando il titolare della Cultura ha ricordato al premier che il bonus facciate è stato uno dei provvedimenti caratterizzanti del governo precedente e che pertanto andava affrontato per l’importanza che ha. Qui pare che Sua Grandezza si sia molto inasprito, ricordando al ministro che anche il reddito di cittadinanza e quota cento, così come ora il taglio delle tasse e i fondi per gli ammortizzatori sociali sono provvedimenti caratterizzanti del precedente come dell’attuale governo, ma, ministro, «le risorse sono finite, altrimenti il sistema salta». Che l’avvento di Draghi fosse legato alla salvezza del sistema, lo si era capito, ma detto così fa un certo effetto. Franceschini ha fatto finta di non capire – e qui ci si chiede, ma dove sono i Di Maio e i Salvini? deve essere Franceschini a difendere le ragioni dei populisti e dei sovranisti? Dicevamo, Franceschini ha fatto finta di non capire e ha spiegato all’Uomo dell’Euro che «le riunioni di governo servono a costruire un compromesso» e che il Consiglio dei Ministri è «il luogo dove avvengono le ricomposizioni». Draghi deve aver pensato che al massimo si ricompongono le salme. E così, d’istinto, sottolinea l’informato giornalista, se ne è uscito tagliente: «È quello che stiamo facendo», aggiungendo subito dopo: «Eppoi…». E mentre tutti gli astanti notavano come per la prima volta fosse visibilmente infastidito, ha concluso: «Eppoi basta». È il caso di dirlo, il nostro Julien Sorel è proprio un libro aperto. In questo quadretto, infatti, senza infingimenti c’è tutto quello che occorre sapere per sapere dove si sta andando a parare. Dopo tanto parlare di debito buono e debito cattivo, piano di resilienza e ripartenza, fiumi di soldi dall’Europa da non farsi scappare, viene chiarito senza ambiguità alcuna che si ritorna a quell’austerità che, sola, e a che prezzo!, ci permette di continuare a partecipare a quel risiko che va sotto il nome di Unione Europea. E questo è uno. Due. Se Draghi diventa Presidente della Repubblica, avremo al Quirinale l’Uomo dell’Eppoi Basta al quale bisogna baciare la pantofola senza tirarla troppo per le lunghe con le chiacchiere parlamentari e le ricomposizioni ministeriali. Questo è il progetto “gollista”, ovvero di un autoritarismo aggiornato al XXI secolo di cui diremo fra un attimo, che vagheggiano quelli del “centro moderato”, giusto perché si sappia cos’è la moderazione. Terzo. Per sommo paradosso, questo autoritarismo aggiornato al XXI secolo ci regalerà un regime di populismo finanziario. Infatti, come in ogni populismo che si rispetti, l’Uomo dell’Eppoi Basta si connetterà direttamente al popolo che in lui riporrà tutte le sue speranze, avendo cura di investirle in buoni fruttiferi del debito europeo di cui, non essendoci più una Merkel a fargli ombra, sarà il Sommo Sacerdote. L’aureola di Draghi sarà il cerchio di ferro forgiato nel miglior acciaio tedesco che cingerà la chioma d’Italia, serva giubilante di cotanto figlio. Ma, prima che tutti i giochi siano fatti, il paradosso massimo è quello che va profilandosi in vista dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Ci sarà da un lato la “maggioranza Ursula” che, come appena detto, mira a insediare il proconsole dell’Europa con l’offa di farne il re in grado di far risplendere in tutto il continente la gloria d’Italia, e dall’altro la maggioranza alternativa, in grado di salvaguardare Parlamento, Governo e relative ricomposizioni politiche, che, se non si avrà l’accortezza di escogitare una terza soluzione, dovrà raccogliersi attorno a Berlusconi. Maggioranza Ursula vs. Maggioranza Silvio. Alla faccia di chi già lo collocava fra le salme politiche. Questo per dire com’è messa bene l’Italia.

 

  1. F. Verderami, Il botta e risposta in Consiglio tra Draghi e Franceschini: «Un’intesa? E quello che cerco», «Corriere della sera», 21.10.2021, p. 9. []

Occasione persa

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La lezione più importante che si può trarre dalla pandemia è che solo una concentrazione assoluta di paura e terrore riesce a staccare gli individui dalle loro abitudini e schemi mentali, rendendoli disposti a mutare i propri comportamenti. Nelle giornate più cupe della pandemia, quando il virus sembrava una forza irresistibile più di quanto lo sia ora, faceva impressione constatare questo distacco non tanto nella gente comune quanto in coloro che, detentori di un qualche potere, si erano sin lì catafratti nella sicurezza richiesta dalle loro posizioni che ben volentieri esibivano. Strepitavano, si lamentavano, erano disposti ad ammettere tutte le storture del modo di vita sin allora difeso e procedevano a modifiche cogliendo senza indugio ogni spiraglio che si apriva per un qualche mutamento. Per chi detiene potere provare paura è una esperienza devastante che pur di salvarsi induce a ogni sorta di concessione. Ma, come già detto, sotto lo stimolo della paura anche la gente comune è più disposta a sottrarsi all’imperio dell’abitudine che ottunde ogni critica alle storture della routine in cui si è immersi. Era questa scossa, che si irradiava indistintamente in basso e in alto, la base di quegli ingenui proponimenti che i media proponevano sul “dopo la pandemia, saremo tutti più buoni”. In realtà, poiché tutta questa configurazione è semplicistica quanto un fioretto infantile, i buoni propositi sono svaniti non appena si sono cominciate a prendere le misure al temibile virus. Il problema della concentrazione assoluta di paura e terrore è che, se non accompagnata da una contestuale opera di consapevole messa in discussione delle vecchie abitudini, funziona come una molla compressa che, una volta rilasciata, ritorna con forza maggiore alla sua posizione iniziale. Il PIL, prodotto interno lordo, con i complimenti del Fondo monetario e i battimani di qualche ministro premio Nobel mancato, non sta forse rimbalzando al 6% annuo? La concentrazione assoluta di paura e terrore è un fatto rivoluzionario se c’è una forza uguale e contraria alle abitudini da svellere che svolga un’opera attiva di “pedagogia sociale”. Ma dal virus non si può pretendere tanto. Negli anni, una tale forza attiva si è acquartierata in comodi cubicoli dell’ordine esistente e le persone si sono abituate a essere “individui autonomi” ovvero, secondo una versione popolare dell’etica kantiana, a fare ciò che gli pare rigettando come un’offesa ogni accenno pedagogico-sociale. Se una tale forza, invece di imboscarsi, avesse coltivato gelosamente la propria autonomia, si sarebbe potuto intavolare un discorso innanzitutto sulle cause nient’affatto naturali del virus, e dall’accertamento delle effettive cause economiche, sociali e culturali si sarebbero potuti derivare interventi di riforma del modo di vita corrente. Anzitutto, decomprimendo l’economia, liberandola dai miliardi di ore-lavoro dedicate a produrre merci inutili quando non dannose, buone solo a tenere su gli indici del sullodato PIL. Ma contestualmente si sarebbe dovuto sviluppare il polmone sociale e non certo con le spese in deroga ai vincoli di bilancio, spesso elemosine migragnose di uno Stato, da anni disabituato a fare non tanto politica economica quanto economia politica, a categorie avvezze a ben altri flussi di denaro in chiaroscuro ma ora improvvisamente in difficoltà. E, invece, in quei decisivi frangenti ciò che si è sentito è stato solo l’invito sgangherato a cambiare mestiere rivolto a tali categorie da una esponente assai supponente (altro che commercialista di Bari, come a suo tempo l’altezzoso Andreatta definì il valoroso Formica!) del nuovo che avanza. Questo nuovo a cinque stelle ha così tanto avanzato che nel vuoto creatosi la molla si è ripresa il suo spazio – e con quale maggior vigore. Se l’economia, quell’economia priapica da cui pur con tutte le sue storture dipende l’esistenza delle persone è l’unica effettiva dimensione sociale, beh, quando con la “spinta gentile” del green pass (ah, il genio del paternalismo borghese!)  si riesce con le inoculazioni vaccinali a relegare il virus a un basso continuo della vita quotidiana che, quasi con un brivido di piacere sotteso al rischio di potersi infettare, accompagna gli atti di un nuovo sfrenamento di massa, perché meravigliarsi che sorga e si imponga la figura salvifica del Grande Funzionario novello De Gasperi che sa come manovrarla, questa divina economia del lavoro non-lavoro, dei salari decrescenti e dell’obbligo del maggior consumo, delle crescenti aspettative di vita e delle pensioni a babbo morto? E così, mentre tutto crolla, tutto ancora una volta si tiene, e la nave va, con gli schiavi alla galera cui però è concesso per pochi spiccioli, miracolo dell’economia dei prezzi, di salire in prima classe per una crociera di una settimana. Tanto, se non su uno yacht sempre più grande, c’è sempre un’astronave che può portare in salvo i ricchi scemi su un pianeta very exclusive.

Nuvoloni all’orizzonte

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Mentre questa calda estate culla gli ultimi bagnanti nelle onde di un mare via via più silenzioso, all’orizzonte sono apparsi i nuvoloni degli spropositati aumenti tariffari di luce e gas che rischiano di gravare sulle bollette anche per un 40% in più. I media si sono messi subito all’opera per spiegare questa improvvisa minaccia, e si è incominciato a parlare di cause prossime e cause remote, prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio, domanda e offerta che non trovano un punto di equilibrio, insomma tutto l’armamentario della migliore scienza economica. In questo profluvio di teorie, la spiegazione più perspicua che abbiamo trovato è la seguente:

«Dal nostro punto di vista, l’alta volatilità e gli eccessivi picchi dei prezzi hanno ragioni più fondamentali. L’industria sa che il nostro sistema energetico sta subendo una profonda e veloce trasformazione. Gli investimenti in fonti fossili non hanno un futuro sul lungo termine. Ma, allo stesso tempo, i governi non si sono ancora impegnati abbastanza chiaramente per un futuro a basse emissioni di carbonio. Quindi, l’equilibrio tra domanda e offerta di energia nell’Ue potrebbe essere molto volatile, a seconda della velocità relativa della graduale eliminazione delle energie fossili e della graduale introduzione delle energie verdi. Impegni più chiari da parte dei governi per introdurre con più forza le fonti di energia verdi – per esempio attraverso il finanziamento delle infrastrutture corrispondenti e l’impegno di prezzi sostanziali per il carbonio in tutti i settori – potrebbero aiutare ad allontanarsi da un equilibrio così precario. Poiché il passaggio alla neutralità climatica implicherà una domanda di elettricità in continua crescita, gli investitori non dovranno preoccuparsi troppo di sovrainvestire in sistemi energetici a basse emissioni di carbonio. A livello dell’Ue, la rapida approvazione e implementazione del pacchetto “Fit for 55” rappresenterebbe quindi la soluzione più strutturale per evitare futuri picchi di prezzo dell’energia e per assicurare una transizione ordinata dal marrone al verde».1

Si dirà, perspicua un corno. D’accordo, bisogna fare qualche piccola parafrasi per rendere più chiaro ciò che nelle parole di questi due onesti corifei è però già abbastanza evidente. Innanzitutto, essi affermano che «l’industria sa che il nostro sistema energetico sta subendo una profonda e veloce trasformazione». Non si capisce perché parlano genericamente di industria, quando dovrebbero parlare di industria connessa alla rendita delle energie fossili (petrolio, gas naturale, carbone, sabbie bituminose, scisti bituminosi). Infatti, della classica trinità, profitto, salario, rendita, qui è di quest’ultima che si tratta, e il futuro a lungo termine è una lotta tra vecchie e nuove rendite per assicurarsi una parte di extra-profitti e determinare il supplemento di spremitura di plusvalore cui dovrà essere sottoposto il salario. Le nuove rendite sono le energie verdi (luce solare, il vento, la pioggia, le maree, le onde, il calore geotermico) che, certo, hanno questo colore rassicurante perché sono rinnovabili, ma quanto terreno bisognerà occupare di pali eolici per sfruttare adeguatamente la rinnovabilità del vento? Essendo la terra limitata, si tratta di una rinnovabilità che un giorno anch’essa si esaurirà, salvo piantarli su terreni sempre più scoscesi, e qui riocchieggia una nuova forma di rendita differenziale. Ma non corriamo. In questo quadro di lotte dentro e tra le classi, nell’onesta prosa dei nostri due turiferari appare l’attore politico, lo Stato, denominato in modo pudicamente liberaldemocratico «i governi». I governi, da bravi comitati d’affari di quell’immenso agglomerato produttivo che è il capitalismo, di cui qui se ancora non lo si è capito si discorre, possono fare molto: pareggiare per tutti i settori produttivi tramite la stabilizzazione del prezzo del carbonio il plusvalore da sottrarre a profitti e salari da girare alla rendita, favorire la sgargiante nuova rendita verde a discapito di quella marrone tristemente penitenziale, foraggiare l’industria legata alla nuova rendita verde. Il tutto naturalmente al nobile fine, sollecitato e magnificato dalla più oggettiva scienza ambientale, della neutralità climatica, ovvero del raggiungimento del punto di equilibrio tra le emissioni di gas serra e la capacità della Terra di assorbirle. Lo abbiamo già detto, a questo scopo, quanti parchi eolici, fotovoltaici, marini e geotermici può assorbire la Grande Madre Terra, delle cui sorti la nuova rendita verde appare così preoccupata, senza entrare in conflitto con le tradizionali coltivazioni alimentari per non parlare di quelle volte alla produzione di biomasse? Beh, per i prossimi cinquant’anni di terra ce n’è abbastanza, poi si vedrà. Così, anche l’avvenire dell’UE, governo di tutti i governi, è assicurato, con il suo “Fit for 55” per il 2030 e soprattutto la “carbon neutrality” per il 2050. Tutto questo per poter rifare quel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci che è il benessere delle società moderne: usare meno energia per avere la stessa quantità, se non di più, di beni e servizi.2 Al Figlio di Dio ciò riusciva per vie soprannaturali, a noi che non siamo da meno perché finalmente possediamo la tecnologia adatta. E qui vengono in mente le parole del vecchio rivoluzionario:

«Keynes e simili dicono: l’uomo consuma perché e quanto ha desiderato. Noi marxisti diciamo che l’uomo desidera secondo quanto ha potuto consumare, e per tanto il moderno sistema di potere e di falsa scienza borghese lo alleva con le droghe alimentari e ideologiche. La Dittatura sarà necessaria a cavallo della palingenesi del Lavoro oggettivato, del rovesciamento di Praxis del Capitale fisso, non tanto per dominare la produzione, che basterà lasciare cadere a livelli inferiori liberando i servi del lavoro e delle galere aziendali per miliardi di ore, ma soprattutto per capovolgere la prassi consumatrice, sradicare le forme patologiche del consumare, eredi di forme di oppressione di classe. L’uomo singolo, il cittadino, l’individuo, come perderà anche sotto il Terrore rivoluzionario la possibilità di possedere ricchezza e valore, uccidendosene in lui la propensione belluina, così perderà, divenendo una cellula dell’eterno – e saremmo per scrivere “sacro” – Corpo sociale, ogni diritto a ledere se stesso, a rovinare il proprio organismo animale, ad intossicarsi. Con ciò non lederebbe solo il proprio corpo, ma la società. Il rivoluzionario non può essere che un disintossicato, ed è una delle ragioni per cui nelle Rivoluzioni più della massa, che sarà disintossicata in seguito dal marchio di servaggio, opera la minoranza del partito, nutrita nel vivo suo sangue dell’antiveggente e combattente Dottrina Integrale».3

Al bagnante che buon ultimo si fa cullare dalle onde silenziose del caldo mare di questa fine estate, questi tremendi propositi debbono sembrare un nuvolone ben più minaccioso del super rincaro di luce e gas. Meglio pagare alla rendita, vecchia o nuova che sia, un botto di plusvalore piuttosto che acconciarsi a questa furiosa allucinazione.

 

  1. S. Tagliapietra, G. Zachman, Cosa c’è dietro l’impennata dei prezzi in tutta Europa, «Domani», 14.9.2021, p. 9 []
  2. G. Ruggiero, La transizione ecologica nel PNRR: bene, ma ora servono le riforme, https://www.agendadigitale.eu/smart-city/la-missione-ecologica-priorita-assoluta-del-pnrr-occasione-storica-ora-le-riforme/ []
  3. A. Bordiga, Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica, 1957, 3a parte, https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/traiettoria_catastrofe3.htm []

Afghanistan, le ragioni di un silenzio

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L’Afghanistan è un invito al silenzio. Talmente intrecciata e profonda è la tragedia di questo popolo che ogni considerazione rischia di apparire oscena. Forse solo la vicenda del popolo palestinese può paragonarsi a quanto sta passando il popolo afghano. Che in primo luogo è stato tradito molte volte dai suoi governanti. Lo tradirono quelli che tra gli anni Settanta e Ottanta si divisero tra astratti ideologi e nazionalisti opportunisti, e poi quelli che, una volta scoperchiato il vaso di Pandora della guerra di tutti contro tutti, tra i Novanta e i primi due decenni del secolo corrente si divisero ancora tra astratti nazionalisti e cosmopoliti opportunisti. Nell’immenso incendio che intanto si propagava venivano bruciate tutte le idealità offerte dalla scarna faretra di una modernità che si compiaceva di celebrarsi come compiuta o comunque prossima all’ultimo stadio del compimento, i novecenteschi ideali tanto comunisti quanto democratici, e sorgeva dalle profondità di una ruralità che il maldestro rivoluzionamento dell’organismo sociale rendeva inscalfibile la caligine di una religione sotto le cui insegne si rinserravano tutte le reazioni primarie di una società atterrita dalla sua stessa evoluzione che il peculiare contesto storico e geografico già complicava, la sessuofobia, anzitutto, e poi la neofobia, l’iconoclastia e l’avversione per la musica, praticate certo con l’arbitrarietà propria di simili codici morali, quanto mai predisposti a essere utilizzati come strumenti di potere del più forte sul più debole in ogni ramo del vivere sociale, il ricco sul povero, il possidente sul nullatenente, il maschio sulla femmina, l’adulto sull’infante, il criminale sull’obbediente alle leggi. Se si guarda ai provvedimenti governativi e si osserva l’evoluzione dell’organismo economico, si vede come, dopo l’urto dei provvedimenti degli anni Settanta volti a scardinare il predominio della campagna sulla città ma rimasti per tanti aspetti lettera morta per l’improvvisa radicalità che scatenò reazioni furibonde, vi è stata una stasi progressiva in cui, a parte i commerci secolari da una frontiera all’altra con i paesi confinanti, hanno potuto prosperare solo l’economia degli aiuti esteri e quella della droga, forse più la prima che la seconda due stupefacenti che simboleggiano perfettamente l’alienazione in cui è lentamente sprofondato il popolo afghano. Esso, sia che si rifugi nelle pance spaventose ma salvifiche degli aerei delle consunte libertà democratiche, sia che vesta i panni pittoreschi di un violento ma precario emirato settecentesco, in tutte le sue componenti appare scisso dai mezzi della propria autodeterminazione, come dimostra il fatto parziale ma emblematico che le sue già magre risorse economiche risiedono non a Kabul ma a Washington che così, vinto sul terreno, può dare inizio alla sarabanda dei ricatti e delle sanzioni con cui punisce i paesi che non si conformano alla sua sempre più senile paranoia imperiale. Altri paesi nella storia recente si sono trovati a doversi forgiare come nazione intrappolati per interi periodi in scontri internazionali, dalla Corea al Vietnam allo stesso popolo palestinese. Ne sono risultati equilibri più o meno precari e provvisori, e nel caso del popolo palestinese addirittura un disequilibrio permanente i cui contraccolpi arrivano sino a Kabul, che è presa perciò non solo nel grande ma quanto mai stucchevole gioco delle potenze mondiali, il cui ritorno in auge dopo la fine del confronto tra comunismo e liberal-democrazia segna un vero e proprio arretramento dalla via della modernità, ma anche nel piccolo e non meno insidioso gioco delle potenze regionali, Iran, Arabia Saudita, Israele, quest’ultimo sempre più determinato nel suo profilo da un radicalismo religioso che, sommato a quello uguale e contrario delle irriducibili fazioni islamiche, fa gravare su tutta la regione una cappa di oscurantismo potenziato dagli artigli della sempre più rutilante tecnica militare e informatica che i proventi della maledizione del petrolio, di cui si ubriaca il capitalismo mondiale, consentono di pagarsi a pie’ di lista. Il silenzio che impone l’Afghanistan non è dunque solo il silenzio doveroso che si deve osservare davanti alla tragedia di un popolo che appare senza fine, ma è anche il silenzio che dovrebbe accompagnare una profonda e radicale riconsiderazione dei fondamenti della moderna ragione la cui sorte ormai non è più, per fortuna, nelle mani di un Occidente perdutosi nell’aridità della propria forma di vita, ma dipende da una spinta che ha bisogno delle risorse dell’intera specie in tutte le sue più avanzate realizzazioni ideali.

A ciascuno il suo burqa?

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Torna tragicamente il burqa in Afghanistan, ma pare che anche in Italia alle donne sia imposto un burqa particolare, la difficoltà sempre più grande di poter abortire. Infatti, secondo un dato del 2016 del Ministero della Salute, quindi sottostimato rispetto alla tendenza ulteriormente affermatasi negli anni successivi, si registra un tasso di obiezione di coscienza negli staff delle strutture italiane pari all’85,2 per cento1. Ma cosa spinge ginecologi e anestesisti, sebbene questi ultimi in misura minore, a questa scelta di massa? Se si chiede in giro agli addetti del settore, la risposta è che una minoranza esigua lo fa per motivi religiosi, ma una parte più cospicua cerca di sottrarsi a un grosso carico di lavoro che si ritiene non essere adeguatamente remunerato. Alcuni anni fa all’ospedale Cervello di Palermo fu finanziato un progetto che agevolava e sveltiva le interruzioni di gravidanza farmacologiche. Pare che in quel periodo nessuno fosse più obiettore, e quando il progetto finì e con esso i soldi ecco di nuovo che si risveglia l’obiezione di coscienza. Morale della favola, ma visto che di mezzo c’è il denaro sarebbe il caso di dire immorale della favola, se ci fosse un riconoscimento economico il tasso di obiezione si dimezzerebbe. Ma, come si è detto all’inizio, chi fa obiezione di coscienza si appella spesso alla fede. «L’ho fatto per motivi religiosi — spiega un medico di Palermo, che pure rispetta la decisione delle donne, presa giustamente in autonomia — mi sentivo troppo in colpa e ho smesso». Come dargli torto? E una ginecologa obiettrice di Catania spiega che «l’obiezione quando c’è è totale: non fai differenza tra interruzione volontaria e aborto terapeutico, non interrompi nessuna gravidanza».  Giusto, per la dottoressa. E per la donna alle prese con un aborto terapeutico, chi le dà una risposta? Quanto agli anestesisti obiettori, semplicemente non vengono messi di turno quando ci sono da fare le interruzioni volontarie. «Li comprendo — commenta uno di loro — nemmeno io lo faccio a cuor leggero, mentre sono lì cerco di convincermi che sto facendo altro». Ecco l’estraneazione che esce dai libri di filosofia e plana sulla vita quotidiana. Si dirà, l’arretrato Sud. No, l’obiezione di coscienza contro l’aborto sembra che annulli il divario tra Nord e Sud. Infatti, la Sicilia e Bolzano negano questo diritto in modo identico. E forse anche i comportamenti sono identici. Molti medici lamentano l’abuso della procedura, anche quella chirurgica, da parte di donne che sembrano non usare contraccettivi: «ero a Trapani anni fa e ho visto praticare l’interruzione volontaria a una donna per l’ottava volta — afferma uno di loro, un anestesista — e non è un caso rarissimo». È vero, è un caso tutt’altro che raro che si verifica non da ora ma da molto tempo. Chi scrive ricorda che già all’inizio degli anni Novanta una ginecologa gli riferì una identica situazione, e si conosceva anche qual era la causa: il compagno della donna rifiutava di usare il preservativo e non voleva che lei prendesse la pillola o si facesse impiantare la spirale. L’anestesista di cui sopra conclude con molto understatement che «è chiaro che c’è un problema di informazione generale rispetto alla salute riproduttiva». È chiarissimo, ma più che informazione forse sarebbe il caso di parlare di formazione. Si può, in un paese dell’Occidente progredito? A quanto pare, no, perché l’individuo autonomo non tollera pedagogie. E non tollera il burqa delle donne afghane. Vuole solo i diritti. Il burqa delle donne italiane, anch’esse beninteso individui autonomi, quello si può fare, tanto è invisibile. E qui viene da pensare, ma è solo un cattivo pensiero, che a volte i diritti, nella loro unilaterale astrattezza, se è consentito dirlo en philosophe, sono mine anti-uomo, che anziché i corpi fanno saltare in aria la coscienza di uomini e donne.

 

  1. Eugenia Nicolosi, Troppi obiettori. Gli aborti tornano clandestini, «la Repubblica – Palermo», 17.8.2021, p. 5. Tutti i dati cui si fa riferimento successivamente nel testo sono tratti da questo articolo. []