Politica

Nuvoloni all’orizzonte

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Mentre questa calda estate culla gli ultimi bagnanti nelle onde di un mare via via più silenzioso, all’orizzonte sono apparsi i nuvoloni degli spropositati aumenti tariffari di luce e gas che rischiano di gravare sulle bollette anche per un 40% in più. I media si sono messi subito all’opera per spiegare questa improvvisa minaccia, e si è incominciato a parlare di cause prossime e cause remote, prezzi all’ingrosso e prezzi al dettaglio, domanda e offerta che non trovano un punto di equilibrio, insomma tutto l’armamentario della migliore scienza economica. In questo profluvio di teorie, la spiegazione più perspicua che abbiamo trovato è la seguente:

«Dal nostro punto di vista, l’alta volatilità e gli eccessivi picchi dei prezzi hanno ragioni più fondamentali. L’industria sa che il nostro sistema energetico sta subendo una profonda e veloce trasformazione. Gli investimenti in fonti fossili non hanno un futuro sul lungo termine. Ma, allo stesso tempo, i governi non si sono ancora impegnati abbastanza chiaramente per un futuro a basse emissioni di carbonio. Quindi, l’equilibrio tra domanda e offerta di energia nell’Ue potrebbe essere molto volatile, a seconda della velocità relativa della graduale eliminazione delle energie fossili e della graduale introduzione delle energie verdi. Impegni più chiari da parte dei governi per introdurre con più forza le fonti di energia verdi – per esempio attraverso il finanziamento delle infrastrutture corrispondenti e l’impegno di prezzi sostanziali per il carbonio in tutti i settori – potrebbero aiutare ad allontanarsi da un equilibrio così precario. Poiché il passaggio alla neutralità climatica implicherà una domanda di elettricità in continua crescita, gli investitori non dovranno preoccuparsi troppo di sovrainvestire in sistemi energetici a basse emissioni di carbonio. A livello dell’Ue, la rapida approvazione e implementazione del pacchetto “Fit for 55” rappresenterebbe quindi la soluzione più strutturale per evitare futuri picchi di prezzo dell’energia e per assicurare una transizione ordinata dal marrone al verde».1

Si dirà, perspicua un corno. D’accordo, bisogna fare qualche piccola parafrasi per rendere più chiaro ciò che nelle parole di questi due onesti corifei è però già abbastanza evidente. Innanzitutto, essi affermano che «l’industria sa che il nostro sistema energetico sta subendo una profonda e veloce trasformazione». Non si capisce perché parlano genericamente di industria, quando dovrebbero parlare di industria connessa alla rendita delle energie fossili (petrolio, gas naturale, carbone, sabbie bituminose, scisti bituminosi). Infatti, della classica trinità, profitto, salario, rendita, qui è di quest’ultima che si tratta, e il futuro a lungo termine è una lotta tra vecchie e nuove rendite per assicurarsi una parte di extra-profitti e determinare il supplemento di spremitura di plusvalore cui dovrà essere sottoposto il salario. Le nuove rendite sono le energie verdi (luce solare, il vento, la pioggia, le maree, le onde, il calore geotermico) che, certo, hanno questo colore rassicurante perché sono rinnovabili, ma quanto terreno bisognerà occupare di pali eolici per sfruttare adeguatamente la rinnovabilità del vento? Essendo la terra limitata, si tratta di una rinnovabilità che un giorno anch’essa si esaurirà, salvo piantarli su terreni sempre più scoscesi, e qui riocchieggia una nuova forma di rendita differenziale. Ma non corriamo. In questo quadro di lotte dentro e tra le classi, nell’onesta prosa dei nostri due turiferari appare l’attore politico, lo Stato, denominato in modo pudicamente liberaldemocratico «i governi». I governi, da bravi comitati d’affari di quell’immenso agglomerato produttivo che è il capitalismo, di cui qui se ancora non lo si è capito si discorre, possono fare molto: pareggiare per tutti i settori produttivi tramite la stabilizzazione del prezzo del carbonio il plusvalore da sottrarre a profitti e salari da girare alla rendita, favorire la sgargiante nuova rendita verde a discapito di quella marrone tristemente penitenziale, foraggiare l’industria legata alla nuova rendita verde. Il tutto naturalmente al nobile fine, sollecitato e magnificato dalla più oggettiva scienza ambientale, della neutralità climatica, ovvero del raggiungimento del punto di equilibrio tra le emissioni di gas serra e la capacità della Terra di assorbirle. Lo abbiamo già detto, a questo scopo, quanti parchi eolici, fotovoltaici, marini e geotermici può assorbire la Grande Madre Terra, delle cui sorti la nuova rendita verde appare così preoccupata, senza entrare in conflitto con le tradizionali coltivazioni alimentari per non parlare di quelle volte alla produzione di biomasse? Beh, per i prossimi cinquant’anni di terra ce n’è abbastanza, poi si vedrà. Così, anche l’avvenire dell’UE, governo di tutti i governi, è assicurato, con il suo “Fit for 55” per il 2030 e soprattutto la “carbon neutrality” per il 2050. Tutto questo per poter rifare quel miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci che è il benessere delle società moderne: usare meno energia per avere la stessa quantità, se non di più, di beni e servizi.2 Al Figlio di Dio ciò riusciva per vie soprannaturali, a noi che non siamo da meno perché finalmente possediamo la tecnologia adatta. E qui vengono in mente le parole del vecchio rivoluzionario:

«Keynes e simili dicono: l’uomo consuma perché e quanto ha desiderato. Noi marxisti diciamo che l’uomo desidera secondo quanto ha potuto consumare, e per tanto il moderno sistema di potere e di falsa scienza borghese lo alleva con le droghe alimentari e ideologiche. La Dittatura sarà necessaria a cavallo della palingenesi del Lavoro oggettivato, del rovesciamento di Praxis del Capitale fisso, non tanto per dominare la produzione, che basterà lasciare cadere a livelli inferiori liberando i servi del lavoro e delle galere aziendali per miliardi di ore, ma soprattutto per capovolgere la prassi consumatrice, sradicare le forme patologiche del consumare, eredi di forme di oppressione di classe. L’uomo singolo, il cittadino, l’individuo, come perderà anche sotto il Terrore rivoluzionario la possibilità di possedere ricchezza e valore, uccidendosene in lui la propensione belluina, così perderà, divenendo una cellula dell’eterno – e saremmo per scrivere “sacro” – Corpo sociale, ogni diritto a ledere se stesso, a rovinare il proprio organismo animale, ad intossicarsi. Con ciò non lederebbe solo il proprio corpo, ma la società. Il rivoluzionario non può essere che un disintossicato, ed è una delle ragioni per cui nelle Rivoluzioni più della massa, che sarà disintossicata in seguito dal marchio di servaggio, opera la minoranza del partito, nutrita nel vivo suo sangue dell’antiveggente e combattente Dottrina Integrale».3

Al bagnante che buon ultimo si fa cullare dalle onde silenziose del caldo mare di questa fine estate, questi tremendi propositi debbono sembrare un nuvolone ben più minaccioso del super rincaro di luce e gas. Meglio pagare alla rendita, vecchia o nuova che sia, un botto di plusvalore piuttosto che acconciarsi a questa furiosa allucinazione.

 

  1. S. Tagliapietra, G. Zachman, Cosa c’è dietro l’impennata dei prezzi in tutta Europa, «Domani», 14.9.2021, p. 9 []
  2. G. Ruggiero, La transizione ecologica nel PNRR: bene, ma ora servono le riforme, https://www.agendadigitale.eu/smart-city/la-missione-ecologica-priorita-assoluta-del-pnrr-occasione-storica-ora-le-riforme/ []
  3. A. Bordiga, Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica, 1957, 3a parte, https://www.quinterna.org/archivio/1952_1970/traiettoria_catastrofe3.htm []

Afghanistan, le ragioni di un silenzio

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L’Afghanistan è un invito al silenzio. Talmente intrecciata e profonda è la tragedia di questo popolo che ogni considerazione rischia di apparire oscena. Forse solo la vicenda del popolo palestinese può paragonarsi a quanto sta passando il popolo afghano. Che in primo luogo è stato tradito molte volte dai suoi governanti. Lo tradirono quelli che tra gli anni Settanta e Ottanta si divisero tra astratti ideologi e nazionalisti opportunisti, e poi quelli che, una volta scoperchiato il vaso di Pandora della guerra di tutti contro tutti, tra i Novanta e i primi due decenni del secolo corrente si divisero ancora tra astratti nazionalisti e cosmopoliti opportunisti. Nell’immenso incendio che intanto si propagava venivano bruciate tutte le idealità offerte dalla scarna faretra di una modernità che si compiaceva di celebrarsi come compiuta o comunque prossima all’ultimo stadio del compimento, i novecenteschi ideali tanto comunisti quanto democratici, e sorgeva dalle profondità di una ruralità che il maldestro rivoluzionamento dell’organismo sociale rendeva inscalfibile la caligine di una religione sotto le cui insegne si rinserravano tutte le reazioni primarie di una società atterrita dalla sua stessa evoluzione che il peculiare contesto storico e geografico già complicava, la sessuofobia, anzitutto, e poi la neofobia, l’iconoclastia e l’avversione per la musica, praticate certo con l’arbitrarietà propria di simili codici morali, quanto mai predisposti a essere utilizzati come strumenti di potere del più forte sul più debole in ogni ramo del vivere sociale, il ricco sul povero, il possidente sul nullatenente, il maschio sulla femmina, l’adulto sull’infante, il criminale sull’obbediente alle leggi. Se si guarda ai provvedimenti governativi e si osserva l’evoluzione dell’organismo economico, si vede come, dopo l’urto dei provvedimenti degli anni Settanta volti a scardinare il predominio della campagna sulla città ma rimasti per tanti aspetti lettera morta per l’improvvisa radicalità che scatenò reazioni furibonde, vi è stata una stasi progressiva in cui, a parte i commerci secolari da una frontiera all’altra con i paesi confinanti, hanno potuto prosperare solo l’economia degli aiuti esteri e quella della droga, forse più la prima che la seconda due stupefacenti che simboleggiano perfettamente l’alienazione in cui è lentamente sprofondato il popolo afghano. Esso, sia che si rifugi nelle pance spaventose ma salvifiche degli aerei delle consunte libertà democratiche, sia che vesta i panni pittoreschi di un violento ma precario emirato settecentesco, in tutte le sue componenti appare scisso dai mezzi della propria autodeterminazione, come dimostra il fatto parziale ma emblematico che le sue già magre risorse economiche risiedono non a Kabul ma a Washington che così, vinto sul terreno, può dare inizio alla sarabanda dei ricatti e delle sanzioni con cui punisce i paesi che non si conformano alla sua sempre più senile paranoia imperiale. Altri paesi nella storia recente si sono trovati a doversi forgiare come nazione intrappolati per interi periodi in scontri internazionali, dalla Corea al Vietnam allo stesso popolo palestinese. Ne sono risultati equilibri più o meno precari e provvisori, e nel caso del popolo palestinese addirittura un disequilibrio permanente i cui contraccolpi arrivano sino a Kabul, che è presa perciò non solo nel grande ma quanto mai stucchevole gioco delle potenze mondiali, il cui ritorno in auge dopo la fine del confronto tra comunismo e liberal-democrazia segna un vero e proprio arretramento dalla via della modernità, ma anche nel piccolo e non meno insidioso gioco delle potenze regionali, Iran, Arabia Saudita, Israele, quest’ultimo sempre più determinato nel suo profilo da un radicalismo religioso che, sommato a quello uguale e contrario delle irriducibili fazioni islamiche, fa gravare su tutta la regione una cappa di oscurantismo potenziato dagli artigli della sempre più rutilante tecnica militare e informatica che i proventi della maledizione del petrolio, di cui si ubriaca il capitalismo mondiale, consentono di pagarsi a pie’ di lista. Il silenzio che impone l’Afghanistan non è dunque solo il silenzio doveroso che si deve osservare davanti alla tragedia di un popolo che appare senza fine, ma è anche il silenzio che dovrebbe accompagnare una profonda e radicale riconsiderazione dei fondamenti della moderna ragione la cui sorte ormai non è più, per fortuna, nelle mani di un Occidente perdutosi nell’aridità della propria forma di vita, ma dipende da una spinta che ha bisogno delle risorse dell’intera specie in tutte le sue più avanzate realizzazioni ideali.

A ciascuno il suo burqa?

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Torna tragicamente il burqa in Afghanistan, ma pare che anche in Italia alle donne sia imposto un burqa particolare, la difficoltà sempre più grande di poter abortire. Infatti, secondo un dato del 2016 del Ministero della Salute, quindi sottostimato rispetto alla tendenza ulteriormente affermatasi negli anni successivi, si registra un tasso di obiezione di coscienza negli staff delle strutture italiane pari all’85,2 per cento1. Ma cosa spinge ginecologi e anestesisti, sebbene questi ultimi in misura minore, a questa scelta di massa? Se si chiede in giro agli addetti del settore, la risposta è che una minoranza esigua lo fa per motivi religiosi, ma una parte più cospicua cerca di sottrarsi a un grosso carico di lavoro che si ritiene non essere adeguatamente remunerato. Alcuni anni fa all’ospedale Cervello di Palermo fu finanziato un progetto che agevolava e sveltiva le interruzioni di gravidanza farmacologiche. Pare che in quel periodo nessuno fosse più obiettore, e quando il progetto finì e con esso i soldi ecco di nuovo che si risveglia l’obiezione di coscienza. Morale della favola, ma visto che di mezzo c’è il denaro sarebbe il caso di dire immorale della favola, se ci fosse un riconoscimento economico il tasso di obiezione si dimezzerebbe. Ma, come si è detto all’inizio, chi fa obiezione di coscienza si appella spesso alla fede. «L’ho fatto per motivi religiosi — spiega un medico di Palermo, che pure rispetta la decisione delle donne, presa giustamente in autonomia — mi sentivo troppo in colpa e ho smesso». Come dargli torto? E una ginecologa obiettrice di Catania spiega che «l’obiezione quando c’è è totale: non fai differenza tra interruzione volontaria e aborto terapeutico, non interrompi nessuna gravidanza».  Giusto, per la dottoressa. E per la donna alle prese con un aborto terapeutico, chi le dà una risposta? Quanto agli anestesisti obiettori, semplicemente non vengono messi di turno quando ci sono da fare le interruzioni volontarie. «Li comprendo — commenta uno di loro — nemmeno io lo faccio a cuor leggero, mentre sono lì cerco di convincermi che sto facendo altro». Ecco l’estraneazione che esce dai libri di filosofia e plana sulla vita quotidiana. Si dirà, l’arretrato Sud. No, l’obiezione di coscienza contro l’aborto sembra che annulli il divario tra Nord e Sud. Infatti, la Sicilia e Bolzano negano questo diritto in modo identico. E forse anche i comportamenti sono identici. Molti medici lamentano l’abuso della procedura, anche quella chirurgica, da parte di donne che sembrano non usare contraccettivi: «ero a Trapani anni fa e ho visto praticare l’interruzione volontaria a una donna per l’ottava volta — afferma uno di loro, un anestesista — e non è un caso rarissimo». È vero, è un caso tutt’altro che raro che si verifica non da ora ma da molto tempo. Chi scrive ricorda che già all’inizio degli anni Novanta una ginecologa gli riferì una identica situazione, e si conosceva anche qual era la causa: il compagno della donna rifiutava di usare il preservativo e non voleva che lei prendesse la pillola o si facesse impiantare la spirale. L’anestesista di cui sopra conclude con molto understatement che «è chiaro che c’è un problema di informazione generale rispetto alla salute riproduttiva». È chiarissimo, ma più che informazione forse sarebbe il caso di parlare di formazione. Si può, in un paese dell’Occidente progredito? A quanto pare, no, perché l’individuo autonomo non tollera pedagogie. E non tollera il burqa delle donne afghane. Vuole solo i diritti. Il burqa delle donne italiane, anch’esse beninteso individui autonomi, quello si può fare, tanto è invisibile. E qui viene da pensare, ma è solo un cattivo pensiero, che a volte i diritti, nella loro unilaterale astrattezza, se è consentito dirlo en philosophe, sono mine anti-uomo, che anziché i corpi fanno saltare in aria la coscienza di uomini e donne.

 

  1. Eugenia Nicolosi, Troppi obiettori. Gli aborti tornano clandestini, «la Repubblica – Palermo», 17.8.2021, p. 5. Tutti i dati cui si fa riferimento successivamente nel testo sono tratti da questo articolo. []

Ragioni oggettive a favore dei fratelli no vax

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Premesso che chi scrive ha fatto il suo dovere vaccinale, è fuor di dubbio che chi non vuole vaccinarsi e si oppone al controllo del lasciapassare ha dalla sua parte delle ragioni oggettive fra le quali possono essere messe in evidenza le seguenti:

 

1) il consenso informato da firmare all’atto di vaccinarsi, in mancanza di una legge che fissi dettagliatamente gli obblighi dello Stato verso il vaccinando e i suoi congiunti in caso di eventi avversi prossimi o venturi, lascia il cittadino in balia di tali eventi e scarica di responsabilità lo Stato, il quale però, pur in una situazione di sperimentazione sanitaria di massa quale non si nega essere da parte di molti competenti in materia quella attualmente in corso, obbliga di fatto al vaccino con la misura amministrativa ex post del lasciapassare. Questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

2) si afferma che il vaccino serve a evitare la malattia grave che richiede il ricovero in ospedale. Ciò significa che si dà per scontato che la malattia si diffonda e persista a bassa intensità nella maggioranza della popolazione, ma senza predisporre alcun significativo potenziamento dell’assistenza medica a casa che resta carente o inesistente. Lo Stato quindi fa il calcolo minimo di evitare l’allarme sociale e il costo economico del sovraccarico ospedaliero, lasciando che il cittadino se la sbrighi privatamente nel caso più che probabile, anche quando vaccinato, che la malattia lo colpisca sebbene in forma non grave o mortale. Anche qui, questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

3) posto che la strada delle cure (monoclonali, immunosoppressori) è stata sostanzialmente scartata perché ritenuta troppo lenta rispetto all’obiettivo di rimettere in moto al più presto l’intero ingranaggio della vita sociale, e posto che lo stesso vaccino non sembra poi l’arma infallibile contro l’insidioso virus, non c’è stata e non c’è alcuna seria possibilità di scegliere fra i vari tipi di vaccino (mRNA, vettoriale, proteine) in sperimentazione non solo in paesi “reprobi” come Cuba, Russia e Cina, ma anche nel blocco dei “virtuosi” paesi occidentali. Si è alimentato invece un dibattito fittizio tra marchi (Astrazeneca vs. Pfizer), impedendo di fatto un’informazione obiettiva e completa su tutte le opzioni possibili, lasciando che tutto fosse regolato da dinamiche economiche riconducibili a pochi, salvifici monopoli farmaceutici. Tutto ciò ancora una volta non può che aver generato sospetto e sfiducia;

 

4) non è mancato e manca solo il dibattito scientifico su opzioni effettive e non fittizie, ma ancor più manca un dibattito serio su come uscire dalle “situazioni di guerra” causate dalle ormai ricorrenti pandemie. Al contrario, la fuga dalle responsabilità, i ragionamenti grettamente utilitaristici, la riproposizione di modelli organizzativi obsoleti, le contrapposizioni schematiche rispondenti più al marketing che al dibattito democratico, non fanno che ribadire la grande divisione tra uno Stato nella sua essenza autoritario e un cittadino relegato nella sua privatezza, la cui àncora di salvezza per entrambi è un’economia che si rimetta a regime quanto prima per poter continuare a stillare quelle ormai sempre più grame risorse necessarie a tenere in vita un’organizzazione sociale di cui da tempo si è più prigionieri che protagonisti.

 

Tutto ciò considerato, sembrano eccessive e spropositate le misure che vengono minacciate per coloro che non intendono vaccinarsi e sottostare al controllo del lasciapassare. Privare qualcuno del lavoro e dello stipendio è come spedirlo in prigione senza neanche volergli passare il vitto dell’amministrazione carceraria. Se si vogliono adottare misure così estreme, ci si assuma la responsabilità di leggi chiaramente discusse ed emanate, senza più far ricorso a decreti che producono solo rabbia e frustrazione. O è proprio la rabbia e la frustrazione che si vogliono alimentare, per poter ricorrere al pugno di ferro che ribadisca i presupposti indiscutibili dell’ordine vigente?

Ingiustizia uguale per tutti

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Nella spietata analisi di un aristocratico del V secolo, Atene appare dominata dalla “canaglia”, cioè dai poveri e in particolare da quei timonieri, capirematori, comandanti in seconda, manovratori, carpentieri, insomma da quel popolo lavoratore che molto più degli opliti, dei nobili, della gente per bene, faceva andare le navi e rendeva forte la città rispetto alle altre città greche di terra1. La contrapposizione tra potenze di mare e potenze di terra non ha nulla di mistico e nella sua analisi l’aristocratico del V secolo, molto più chiaramente di qualche tenebroso ideologo moderno, lo spiega bene. Il mare è il presupposto strategico di una superiore mobilità del capitale. Oggi tale contrapposizione, che nel frattempo si è arricchita della dimensione dei cieli e dello spazio extra-terrestre, vive un momento particolare, poiché l’atlantismo, che negli ultimi settant’anni ha riassunto l’egemonia della potenza di mare, è in declino e sorge la potenza di terra Russia-Cina con i suoi placidi oleodotti e le sue caracollanti Vie della Seta. L’Italia, che dal 1945 è inglobata nel blocco marittimo, registra un bradisismo che proprio in questi giorni si può cogliere nella sfera del diritto con la richiesta pressante da parte dell’UE di una “riforma della giustizia” che rimuova gli impedimenti allo scorrere di un capitale in ulteriore debito d’ossigeno, specie dopo la catastrofe della pandemia, nella realizzazione ormai storicamente sempre più difficoltosa del saggio di profitto. Non bisogna idealizzare il passato, ma per la sua intrinseca ambiguità nei decenni trascorsi il diritto ha reso possibile il riconoscimento di alcune istanze del lavoro, si pensi all’art.18, o di alcune esigenze ambientali, si pensi alle ordinanze e contro-ordinanze nella vicenda dell’ILVA. Ma, appunto, il diritto è ambiguo, e così bisogna registrare la dura repressione giudiziaria di un movimento anch’esso ambientalista come il No-Tav in Val di Susa condotta da magistrati pure distintisi nella “lotta alla mafia”, quella tendenza che combatte l’altra faccia del valore creato dai circuiti dei traffici di droga e della finanza nera. È non l’illusione ottica della “magistratura comunista” che così si rivela, ma l’ideale di un capitalismo legalitario che un corpo di funzionari dello Stato ha portato al massimo fulgore con il “manipulitismo”, cioè con la visione di un capitalismo mondato dalle pratiche monopolistiche promosse con concessioni e appalti dal potere discrezionale delle cerchie affaristiche cui si erano ridotti i partiti nel volgere degli anni Ottanta. Oggi, per il crescente affanno, accentuato dalla pandemia, delle politiche di austerità e dei bilanci in pareggio, leggi compressione dei salari e dittatura dei mercati finanziari con la cui accettazione a Maastricht si cercò di arrestare la rovina di quel mondo, c’è un vasto rimescolamento di carte in forza del quale non la politica genericamente intesa, non i partiti che aspirano confusamente a una rinascita, ma lo Stato nella sua ieratica figura rientra e viene invocato per riavviare un’accumulazione capitalistica inceppata dallo scontro mondiale tra mare e terra. Dunque, né la lotta alla mafia né Mani pulite hanno più ragion d’essere se non quale omaggio verbale all’“onestà” e ai suoi eroi del passato. Ma quel che più conta è che cada ogni residua ambiguità normativa e ogni attardata velleità di tutela giudiziaria delle ragioni del lavoro e della natura. Il nuovo capitalismo di Stato alle viste non ha più dunque il volto benevolo di un compromesso di classe, come fu nel trentennio 1945-1975, ma la voce stridula di un banchiere la cui missione è fermare il tramonto e rovesciare le sorti dello scontro, rimettendo le cose a posto in una delle provincie più riottose ma al tempo stesso più importanti del blocco marittimo. Infatti, come spiegano inequivocabilmente da Oltreoceano, «[i processi ai politici] sono troppo frequenti in Italia, dove l’ampio potere di magistrati spesso mossi dall’ideologia può essere usato per inseguire vendette politiche o dove le aziende possono rimanere intrappolate in procedimenti giudiziari ingombranti e scoraggianti che sono tra i più lenti d’Europa»2. Perciò, la riforma varata da Draghi, continua l’interessato osservatore di là dell’Atlantico, «non è altro che il tentativo di ristabilire la fiducia degli italiani nei loro leader politici e nelle istituzioni dopo decenni di vetriolo anti establishment, titoli arrabbiati e invettive sui social media»3. Il ritorno del capitalismo di Stato richiesto dall’incombere del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), un festival dirigista per rimettere in moto il mercato liberista, è dunque la base del nuovo patto politico che deve contrassegnare la fase storica prossima ventura. Quale sarà la sua ideologia lo si può intuire dalle parole di un suo menestrello: un capitalismo di Stato che atteggiandosi ad amministratore imparziale dà se la gente «soffre, rischia, prova, corre, se la gioca, e poi se fallisce gli diamo una mano»4. L’annuncio sbracato di questa lotteria sociale coglie, se non di sorpresa, certo in un momento di grande difficoltà una magistratura che negli anni ha coperto pratiche di potere sempre più diffuse, ispirate al modello delle lotte di partito, con una ideologia legalitaria nel suo complesso sempre più lontana da un paese attanagliato da una rabbia profonda per l’incapacità e l’impossibilità di realizzare le però sempre persistenti pulsioni all’arricchimento cui lo spinge la forma di vita capitalistica. Si spiega così il successo della raccolta di firme promossa da forze politiche vecchie e nuove per un referendum su questioni di amministrazione della giustizia che all’apparenza nulla hanno a che fare con la sfera economica, la separazione delle carriere, la responsabilità civile dei giudici, la custodia cautelare, il rapporto tra magistratura e politica, la gestione delle carriere. Il “vetriolo anti establishment” che nel recente passato un libello come La casta, a firma dei giornalisti Stella e Rizzo, indirizzò verso i “politici”, oggi da una analoga pubblicazione, Il sistema, a firma del giornalista Sallusti e dell’ex magistrato ora inquisito Palamara, viene riversato sui “giudici corrotti”. Esso potrà finalmente essere prosciugato, come richiede con impazienza l’alleato maggiore, se il grande ritorno del capitalismo di Stato, a dispetto della sprezzante ideologia con cui i sicofanti vogliono abbellirlo, saprà mantenere le promesse di compensi e redistribuzioni che tacitamente tutti si aspettano. In questo modo, il governo della “canaglia”, che nell’Atene del V secolo era ancora un felice paradosso storico, si riduce al suo significato letterale il cui riferimento è un mondo sottosopra sempre più angusto dove solo l’ingiustizia è uguale per tutti.

 

 

  1. Pseudo-Senofonte [Crizia], Athenaion Politeia [Dialogo sul sistema politico ateniese], trad. it. a cura di L. Canfora, La democrazia come violenza, Palermo, Sellerio, 1984, pp. 15-35. []
  2. J. Horowitz, Italy’s Mr. Fix-It Tries to Fix the Country’s Troubled Justice System — and Its Politics, Too The issue has become a test for whether Prime Minister Mario Draghi can really change Italy, «The New York Times», 29.7.2021, edizione online []
  3. Ibidem. []
  4. https://www.iltempo.it/politica/2021/07/31/news/matteo-renzi-la-gente-deve-soffrire-bufera-social-reddito-di-cittadinanza-commenti-hashtag-renzifaischifo-video-28170162/. []