Per trovare un simbolo dell’era di Trump non bisogna andare negli Stati Uniti, ma in Argentina dove due tappi di sughero portati su da un’ondata di fango planetaria salutano dalla Casa Rosada una rada folla di cui cercano disperatamente di attirare l’attenzione. Da quel balcone antistante la piazza in cui in questi decenni si sono ritrovate le madri dei desaparecidos, avrebbe dovuto affacciarsi Papa Bergoglio per chiedere perdono dell’affronto di Papa Wojtyla ad Allende, quando si è affacciato a sua volta in Cile dal Palazzo della Moneda in compagnia di Pinochet. Ma Bergoglio, vecchio e malandato, mostra di avere solo qualche vaga idea del futuro, essere in buoni rapporti con la Cina, non esagerare con i froci, finirla con la schifezza della pedofilia, e un buffetto agli ebrei in uniforme da scavezzacollo israeliani. Troppo poco per la più alta figura morale dell’Occidente, di cui i due succitati tappi di sughero dicono di voler difendere i valori, no alla maternità surrogata, no all’aborto, sì alla famiglia, sì alle radici cristiane. Curioso il destino di questi valori, difesi da una manica di apostoli dalla doppia morale che celebrano il paganesimo organizzando raduni orgiastici in cui la folla delira per un razzo che ritorna docile al traliccio che lo sosteneva prima del lancio. Un abbattimento di costi da ragiunatt trasformato in un rito religioso. L’era di Trump è il compimento della religione del capitalismo. Non ci sono più diaframmi, preti in paramenti che benedicono combattenti, imprenditori, finanzieri. I guerrieri, i capitani d’industria, i nababbi officiano in prima persona il pontificale della ricchezza, con la sterminata massa pustolosa di poveri che dalle ultime fila spera di essere toccata dalla medesima grazia. Tutto il mondo è unificato dalla stessa febbre dell’oro che si sublima nella guerra all’eros condotta con gigantesche esplosioni di pornografia, la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Cina del Partito comunista, in realtà nome di fantasia di un redivivo Partito socialdemocratico che ricicla il ciarpame umanitario della Seconda Internazionale. Ma nonostante il mondo sia unificato sotto le insegne rilucenti dell’unica fede nel capitale, mai come ora è stato così prossimo alla catastrofe nucleare. Liberali di tutto il mondo, spiegateci questo mistero gaudioso.
Società
Il miraggio dell’identità
Le recenti chiusure di scuole in occasione di festività religiose non cattoliche, decise autonomamente da presidi che così colmano annosi vuoti normativi di fronte a realtà sempre più dirompenti, hanno offerto agli attuali vertici ministeriali dell’istruzione e del merito il destro per ribadire che la nuova scuola si basi sull’apprendimento di nuovi saperi nel quadro però di un’affermazione prioritaria dei valori della lingua e della cultura italiana. Le classi siano perciò a maggioranza bianche e italiche. A questo arrocco identitario, si è opposto invece che la nuova scuola deve essere principalmente capace di rendere liberi dall’ignoranza. Ben detto, ma bisogna vedere se questa richiesta, avanzata da coloro che si propongono come i più “illuminati” fra i nativi e gli immigrati, può effettivamente diventare il fondamento di un nuovo “umanesimo” che travalichi le identità e le gerarchie di partenza, senza scadere in un sincretismo mal distinguibile o comunque incapace di opporsi al cosmopolitismo della pedagogia produttivistica in auge, di cui gli identitari, proprio con il merito, lautamente si pascono. Insomma, si tratta di capire che cosa si intende per ignoranza, perché se il suo superamento è solo il rifiuto delle ingiustizie che impediscono la propria affermazione personale, che ostacolano il proprio “piano di vita”, che spengono i propri “sogni”, allora per una via differente si perviene allo stesso individualismo della gran massa dei nativi, siano essi collocati in alto o in basso nelle gerarche sociali esistenti.
Intanto, a proposito di merito e di pedagogia del fare ben dissimulata da appassionati proclami identitari, nel corso degli anni, anche con il fattivo operato rivendicato dall’attuale responsabile del dicastero dell’Istruzione, si è trasformata l’Università da istituzione dello Stato in cui, almeno idealmente, menti autonome elaboravano al più alto grado il sapere universale e la cultura nazionale, a congregazione in cui, giurando sui protocolli della “qualità” elaborati da centri anonimi e sovrastatuali di cui ministeri, atenei e dipartimenti sono solo organi ricettivi, ci si impegna a partecipare a riunioni, compilare moduli e rispettare scadenze, tutti riti burocratici che definiscono le “missioni” di codesta congregazione, il cui adempimento assicura gli “accreditamenti” con i quali la “comunità” accademica concorre virtuosamente agli “sbocchi occupazionali”. In questa mondana “chiesa del profitto”, il cosiddetto “baronaggio”, le cui trame di potere non sempre ma spesso prima si accompagnavano al prestigio culturale, non è scomparso ma si è solo inabissato, dedicandosi a intercettare i finanziamenti e a occupare più o meno familisticamente i posti attraverso cui riprodursi, lasciando che in superfice si affollino intorno a una miriade di cariche individui divisi tra l’aspirazione a un’autentica auto-determinazione e l’assuefazione alle sempre più assillanti incombenze burocratiche che li rendono docili alla “religione” produttivistica, anche in quei contesti in cui la “produzione” è solo un miraggio e l’alta cultura dovrebbe servire proprio a comprendere criticamente il persistere di tale miraggio. Se c’è un luogo, insomma, dove si può constatare nella maniera più lampante il vuoto declamatorio dell’identitarismo asservito al produttivismo, di cui membri eminenti dell’attuale governo sono chiassosi esponenti, questo è l’Università.
Abortire
L’abolizione del diritto costituzionale all’aborto da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti ha fra i suoi effetti immediati l’allineamento tra cristiani conservatori occidentali e cristiani ortodossi orientali di rito russo in guerra contro la “democrazia” ucraina dell’utero in affitto. Una convergenza imbarazzante che, per i conflitti religiosi del passato e soprattutto per le attuali divisioni politiche, non può trasformarsi in alleanza organica di cui pure il cristianesimo potrebbe valersi nel confronto con le tendenze morali in atto. D’altra parte, se la morale libertina dell’aborto, dell’eutanasia, della procreazione mercificata, dell’omosessualità rivendicata e della fluidità di genere viene rintuzzata nella sua pretesa di elevarsi a morale di Stato, lo sfondo morale dello Stato torna a essere non già la morale laica della “decenza borghese” bensì quella repressiva del tradizionalismo retrivo. Ne consegue che le questioni morali dei singoli individui non verranno trattate nella loro unicità e concretezza, cui pure la morale borghese tendeva con le sue leggi prudenti o ipocrite che fossero, come la 194 italiana sull’interruzione di gravidanza, ma secondo la figura astratta del Dovere in contrapposizione a quella altrettanto astratta dei Diritti negli ultimi decenni giuridicamente prevalente. Questo conflitto tra proibizionismo e permissivismo è destinato a durare sino a quando non sarà possibile basare la morale sulla “particolarità universale”, intesa come giusto mezzo relativo a situazioni e soggetti la cui unicità arricchisce di volta in volta la norma generale collettiva. Questa etica mai conclusa e sempre in itinere, non casuistica ma concretamente universale, potrà affermarsi nella quotidianità se finalmente i bisogni della riproduzione saranno in equilibrio con le esigenze produttive. Sinora lo sviluppo delle forze produttive ha sbilanciato i fattori della riproduzione, trasformando le popolazioni in aggregati in cui, raggiunta la soglia emergente dell’autovalorizzazione infinita, il nascere e il morire, il piacere e il dolore, la mascolinità e la femminilità, sotto la scorza di una falsa socialità diventano pulsioni in conflitto tra di loro. Si può invocare il diritto all’aborto come rimedio per la minaccia di stupro che nei rapporti quotidiani incombe sulle donne? O l’aborto, nonostante il perfezionamento delle tecniche contraccettive, è comunque l’effetto distorto dello stravolgimento del piacere negato da tutto l’assetto dell’esistenza sociale? Si potrebbe continuare a lungo con domande del genere cui la morale corrente risponde oscillando periodicamente tra proibizionismo e permissivismo. Certamente, proibizionismo e permissivismo, momento apollineo e momento dionisiaco, razionalismo e irrazionalismo, sono ognuna nel suo ambito opposizioni che, a paragone di quelle espresse da altre civiltà, hanno consentito nel loro storico alternarsi il più elevato grado di sviluppo delle forze produttive. Ma il costo di tale “disforia sociale” che nessuna “formazione di compromesso”, com’è stato il cristianesimo delle origini, riesce più a compensare, pone all’ordine del giorno l’affrancamento della struttura da tali opposizioni. La trasvalutazione dei valori annunciata a gran voce da equivoci profeti non può che essere la trasvalutazione collettiva del valore di scambio: all’automatismo dell’autovalorizzazione infinita (merge) deve subentrare il controllo sovrastrutturale dei suoi prodotti (Bildung). Il delitto di aborto è quello commesso contro la specie da chi impedisce di portare a termine la nascita della nuova socialità che da tale sostituzione deve derivare.
No vax, sì vax, statu quo
Di fronte all’alternativa se vivere o morire, l’ostinazione del no vax di non proteggersi dall’infezione del coronavirus appare irrimediabilmente irrazionale. Ma come si è prodotta l’immediatezza dell’alternativa tra vivere o morire su cui punta l’implacabile appello alla “razionalità” del sì vax? Nell’antichità la peste era attribuita alla punizione degli dei scontenti dell’irreligiosità dei popoli. Solo in pochi si sottraevano alla spiegazione mitologica, come Tucidide che riguardo alla peste di Atene del 429 a.C. riferiva del movimento del tutto terreno che l’infezione aveva percorso dall’Etiopia all’Egitto al Peloponneso, o Ippocrate che la inquadrava nella sua teoria degli umori. La spiegazione naturale è il primo passo verso la spiegazione scientifica, ma la scienza, e con essa la medicina che è una scienza molto particolare, dall’antichità ai nostri giorni non si è sviluppata nella serra sigillata di un’accademia di ricercatori di verità disinteressate ma in quel flusso di contatti di uomini, oggetti e territori cui allude Tucidide. Alla medicina empirica di Ippocrate e poi a quella sperimentale di Claude Bernard questa società degli scambi non chiedeva conoscenze pure ma rimedi alle falle che questi movimenti sempre più frenetici aprivano nel corpo sociale. I rapporti tecnici della scienza – teorie, esperimenti, strumenti scientifici – erano dunque il “contesto interno” collegato al “contesto esterno” di rapporti sociali determinati dallo scambio di merci. Una società perciò dominata dalla categoria “astratta” del valore e quindi divisa in classi, tra chi possiede i mezzi di produzione e chi la semplice forza lavoro, in cui la scienza ha il compito di risolvere le incessanti contraddizioni dello sviluppo delle forze produttive, ridotte però a evidenze empiriche immediate. Così, l’infezione da coronavirus non è l’effetto “interno” dello sfrenato movimento “esterno” di uomini al seguito di frenetici flussi di merci, ma l’immediatezza assoluta della proteina Spike che aderendo al recettore ACE2 consente secondo il capriccio del caso e delle circostanze l’ingresso del virus nella cellula del corpo di tale o tal altro individuo preso nel vortice dello “sfrenato movimento” che, rigettato però sullo sfondo, diviene causalmente non percepibile. Di conseguenza, non ci sono più dei che puniscono ma un movimento occulto che, nella parvenza di indiscutibile realtà naturale, la scienza aggiusta nelle sue fratture, divenendo essa stessa produttrice di valore. E siccome la scienza con tali operazioni di aggiustamento, vedi i vaccini, si lega all’evidenza immediata del vivere o del morire, essa diventa la potenza assoluta che è “irrazionale” contraddire. Alla credenza nella punizione divina subentra allora il razionalismo di massa come credenza obbligatoria nella potenza della scienza che fa da supporto inattaccabile dello statu quo sociale. Lo scandalo del no vax allora sta nella miscredenza rispetto a tale potenza e nel suo potenziale eversivo rispetto allo statu quo. Tuttavia, almeno sino a quando tale miscredenza non riuscirà a tradursi in una più ampia “razionalità sociale”, essa resta pura negazione che con la sua evidenza di morte rafforza l’evidenza non della vita, ma della vita generata dal regime falsamente naturale dello sfrenato movimento.
Occasione persa
La lezione più importante che si può trarre dalla pandemia è che solo una concentrazione assoluta di paura e terrore riesce a staccare gli individui dalle loro abitudini e schemi mentali, rendendoli disposti a mutare i propri comportamenti. Nelle giornate più cupe della pandemia, quando il virus sembrava una forza irresistibile più di quanto lo sia ora, faceva impressione constatare questo distacco non tanto nella gente comune quanto in coloro che, detentori di un qualche potere, si erano sin lì catafratti nella sicurezza richiesta dalle loro posizioni che ben volentieri esibivano. Strepitavano, si lamentavano, erano disposti ad ammettere tutte le storture del modo di vita sin allora difeso e procedevano a modifiche cogliendo senza indugio ogni spiraglio che si apriva per un qualche mutamento. Per chi detiene potere provare paura è una esperienza devastante che pur di salvarsi induce a ogni sorta di concessione. Ma, come già detto, sotto lo stimolo della paura anche la gente comune è più disposta a sottrarsi all’imperio dell’abitudine che ottunde ogni critica alle storture della routine in cui si è immersi. Era questa scossa, che si irradiava indistintamente in basso e in alto, la base di quegli ingenui proponimenti che i media proponevano sul “dopo la pandemia, saremo tutti più buoni”. In realtà, poiché tutta questa configurazione è semplicistica quanto un fioretto infantile, i buoni propositi sono svaniti non appena si sono cominciate a prendere le misure al temibile virus. Il problema della concentrazione assoluta di paura e terrore è che, se non accompagnata da una contestuale opera di consapevole messa in discussione delle vecchie abitudini, funziona come una molla compressa che, una volta rilasciata, ritorna con forza maggiore alla sua posizione iniziale. Il PIL, prodotto interno lordo, con i complimenti del Fondo monetario e i battimani di qualche ministro premio Nobel mancato, non sta forse rimbalzando al 6% annuo? La concentrazione assoluta di paura e terrore è un fatto rivoluzionario se c’è una forza uguale e contraria alle abitudini da svellere che svolga un’opera attiva di “pedagogia sociale”. Ma dal virus non si può pretendere tanto. Negli anni, una tale forza attiva si è acquartierata in comodi cubicoli dell’ordine esistente e le persone si sono abituate a essere “individui autonomi” ovvero, secondo una versione popolare dell’etica kantiana, a fare ciò che gli pare rigettando come un’offesa ogni accenno pedagogico-sociale. Se una tale forza, invece di imboscarsi, avesse coltivato gelosamente la propria autonomia, si sarebbe potuto intavolare un discorso innanzitutto sulle cause nient’affatto naturali del virus, e dall’accertamento delle effettive cause economiche, sociali e culturali si sarebbero potuti derivare interventi di riforma del modo di vita corrente. Anzitutto, decomprimendo l’economia, liberandola dai miliardi di ore-lavoro dedicate a produrre merci inutili quando non dannose, buone solo a tenere su gli indici del sullodato PIL. Ma contestualmente si sarebbe dovuto sviluppare il polmone sociale e non certo con le spese in deroga ai vincoli di bilancio, spesso elemosine migragnose di uno Stato, da anni disabituato a fare non tanto politica economica quanto economia politica, a categorie avvezze a ben altri flussi di denaro in chiaroscuro ma ora improvvisamente in difficoltà. E, invece, in quei decisivi frangenti ciò che si è sentito è stato solo l’invito sgangherato a cambiare mestiere rivolto a tali categorie da una esponente assai supponente (altro che commercialista di Bari, come a suo tempo l’altezzoso Andreatta definì il valoroso Formica!) del nuovo che avanza. Questo nuovo a cinque stelle ha così tanto avanzato che nel vuoto creatosi la molla si è ripresa il suo spazio – e con quale maggior vigore. Se l’economia, quell’economia priapica da cui pur con tutte le sue storture dipende l’esistenza delle persone è l’unica effettiva dimensione sociale, beh, quando con la “spinta gentile” del green pass (ah, il genio del paternalismo borghese!) si riesce con le inoculazioni vaccinali a relegare il virus a un basso continuo della vita quotidiana che, quasi con un brivido di piacere sotteso al rischio di potersi infettare, accompagna gli atti di un nuovo sfrenamento di massa, perché meravigliarsi che sorga e si imponga la figura salvifica del Grande Funzionario novello De Gasperi che sa come manovrarla, questa divina economia del lavoro non-lavoro, dei salari decrescenti e dell’obbligo del maggior consumo, delle crescenti aspettative di vita e delle pensioni a babbo morto? E così, mentre tutto crolla, tutto ancora una volta si tiene, e la nave va, con gli schiavi alla galera cui però è concesso per pochi spiccioli, miracolo dell’economia dei prezzi, di salire in prima classe per una crociera di una settimana. Tanto, se non su uno yacht sempre più grande, c’è sempre un’astronave che può portare in salvo i ricchi scemi su un pianeta very exclusive.