Società

Feticci e simulacri

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La forma di vita capitalistica produce di per sé feticci. Il feticcio per eccellenza è la merce, i cui rapporti sociali di produzione vengono occultati in una cosa percepita attraverso il prezzo. Nel suo scorrere, però, la vita sociale preme da ogni lato sulla reificazione e così capita che il commerciante faccia una “carezza” al cliente, sorta di sconto sul costo del tempo di lavoro del produttore transitato lungo i vari passaggi sfociati sul suo banco di vendita. Ma la strumentale e involontaria critica del feticismo della merce contenuta nella “carezza” del commerciante evidentemente non può bastare. C’è stato un momento in cui tale critica era la bandiera di un potente movimento sociale, il movimento operaio. Quando lo si è cominciato a chiamare “movimento dei lavoratori” la sua forza già declinava, ma nel frattempo il capitalismo aveva preso una tale paura che, oltre ai feticci, ha cominciato a produrre simulacri la cui funzione era di impedire che i feticci venissero distrutti. Simulacri ideologici, organizzativi, della vita quotidiana, su cui “spostare” la critica rivolta contro i feticci. Una prima grande produzione di simulacri si ebbe con il fascismo e il nazismo, i cui partiti civetta convogliavano la rivolta contro la forma di vita borghese e la indirizzavano verso falsi obiettivi. Gli ebrei furono l’obiettivo preferito. Ma in quel tempo gli stessi ebrei, mentre venivano sterminati nei luoghi, nei tempi e nelle forme ben conosciute, producevano a loro volta dei simulacri e, in fuga dall’Europa in fiamme, li introducevano in quella che la loro ideologia di “spostamento”, cioè il sionismo, definiva la “Terra promessa”. Il sionismo comprendeva principi e pratiche socialiste. Il suo arricchimento in uranio lo ha trasformato nel simulacro nazionalsocialista dello Stato d’Israele che conduce in Palestina una guerra di sterminio su cui si discetta se configuri o meno un genocidio. Contando solo dal 7 ottobre 2023, il rapporto è di millecinquecento israeliani circa tra assassinati e sequestrati da Hamas contro cinquantamila palestinesi di Gaza massacrati dall’esercito israeliano in un anno e passa di bombardamenti e mitragliamenti che, secondo la denuncia di Papa Francesco, non ha risparmiato neanche gli infanti. È evidente ormai che l’Olocausto avvenuto in Europa ad opera del nazifascismo è divenuto a sua volta un simulacro che neutralizza ogni critica verso i misfatti del simulacro sionista. Quanto a Hamas, una questione a sé stante è la produzione di simulacri nel mondo musulmano. Le dinamiche politiche interne al nazionalismo palestinese e in generale mediorientale sono complesse e poco conosciute. Avanzare giudizi e valutazioni fondate è quanto mai azzardato. Resta il fatto però che in quel mondo da troppo tempo ormai si odono solo richiami a un passato religioso prodigo a sua volta di simulacri a difesa di feticci posti all’incrocio tra una deformazione della già deforme forma di vita capitalistica e le peculiarità più truculente di quella particolare civiltà. Tornando all’Occidente, una seconda e più potente ondata di produzione di simulacri che arriva sino ai nostri giorni si è avuta con l’americanismo, ideologia ovviamente da ascrivere alla ristretta cerchia imperialista che grava ormai da tempo su tutto il popolo americano. Un simulacro particolarmente efficace prodotto in tale solco ideologico è il marchio pubblicitario, sorta di feticcio di secondo grado: la merce va in giro a volto scoperto ma nessuno la riconosce perché il simulacro la avvolge in sé rendendola invisibile. Questa magia “sposta” dalla merce al marchio la critica dei “consumatori” i quali, riuniti in “associazioni” a loro volta simulacri dei partiti, si rivolgono ai tribunali dove entra in campo il diritto, simulacro sommo dei conflitti sociali, tramite le cui procedure si sanzionano eventuali pratiche fraudolente nella produzione di simulacri. Questa stratificazione di simulacri, che rende praticamente inscalfibile il feticismo capitalistico, appare particolarmente evidente nel caso della Ferragni, esponente di spicco del mondo degli influencer, ultima incarnazione dei produttori di simulacri dopo attori, sportivi, membri del jet set. È ormai osservazione comune che, mentre queste ultime categorie producevano simulacri come attività a latere, gli influencer sono capaci solamente di produrre simulacri, una merce che, essendo un simulacro, nessuno più si ricorda che è una merce, salvo appunto quando qualcosa va storto nella sua produzione. In tal caso, interviene il pentimento operoso dell’influencer che, rinnovando un’antica pratica medioevale, con somme di denaro compra l’indulgenza dei consumatori. Prende vita così un totalitario Mondo dei Balocchi al quale si accede lavorando molto e guadagnando poco. Nella sua produzione di simulacri, l’americanismo ha ottenuto formidabili risultati anche nella politica. In una prima fase si è ricorso a formule come i partiti di centro che guardano a sinistra o i partiti socialdemocratici. Erano pratiche dispendiose e poco efficaci, che richiedevano periodicamente l’ausilio di potenti cariche di esplosivo che simulacri di anarchici facevano saltare nei treni o in banche affollate. La svolta si è avuta quando, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, il capitalismo, approfittando del momento di massima debolezza di quel movimento operaio portatore della critica del feticismo della merce, è passato dalla guerra di posizione a quella di movimento. Dapprima si è ricorso ai “partiti democratici”, i quali però presto si sono rintanati nei parlamenti e nei governi lasciando scoperta la falla sociale della critica ormai divenuta pura rabbia. Sono nati allora i simulacri del populismo, talmente efficaci nella loro opera di “spostamento” della critica anti-feticistica, da inoculare nelle vaste masse la convinzione della scomparsa della distinzione tra destra e sinistra proprio quando la destra più estrema stava vincendo. Così, mentre il capitalismo rinnovava le proprie pratiche monopolistiche (i monopoli sorti su Internet), avviava una nuova sequela di guerre imperialistiche (dalla Jugoslavia all’Iraq, all’Afghanistan, alla Palestina, all’Ucraina), demoliva stati più deboli per ingrossare i più forti (è quello che si sta cercando di fare con la Russia e che forse si cercherà di fare con la Cina), il populismo ammansiva le masse depredate e impoverite da questo nuovo, disperato ciclo volto a rallentare l’inesorabile caduta tendenziale del saggio di profitto. L’Elevato Buffone, che ha fondato e ispirato il populismo italiano, ha più volte rivendicato il merito di aver impedito che la rabbia si trasformasse in consapevole rivolta sociale. È il simulacro che mostra il deretano e proclama beffardo: qui è la merce, qui devi saltare!

L’era di Trump

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Per trovare un simbolo dell’era di Trump non bisogna andare negli Stati Uniti, ma in Argentina dove due tappi di sughero portati su da un’ondata di fango planetaria salutano dalla Casa Rosada una rada folla di cui cercano disperatamente di attirare l’attenzione. Da quel balcone antistante la piazza in cui in questi decenni si sono ritrovate le madri dei desaparecidos, avrebbe dovuto affacciarsi Papa Bergoglio per chiedere perdono dell’affronto di Papa Wojtyla ad Allende, quando si è affacciato a sua volta in Cile dal Palazzo della Moneda in compagnia di Pinochet. Ma Bergoglio, vecchio e malandato, mostra di avere solo qualche vaga idea del futuro, essere in buoni rapporti con la Cina, non esagerare con i froci, finirla con la schifezza della pedofilia, e un buffetto agli ebrei in uniforme da scavezzacollo israeliani. Troppo poco per la più alta figura morale dell’Occidente, di cui i due succitati tappi di sughero dicono di voler difendere i valori, no alla maternità surrogata, no all’aborto, sì alla famiglia, sì alle radici cristiane. Curioso il destino di questi valori, difesi da una manica di apostoli dalla doppia morale che celebrano il paganesimo organizzando raduni orgiastici in cui la folla delira per un razzo che ritorna docile al traliccio che lo sosteneva prima del lancio. Un abbattimento di costi da ragiunatt trasformato in un rito religioso. L’era di Trump è il compimento della religione del capitalismo. Non ci sono più diaframmi, preti in paramenti che benedicono combattenti, imprenditori, finanzieri. I guerrieri, i capitani d’industria, i nababbi officiano in prima persona il pontificale della ricchezza, con la sterminata massa pustolosa di poveri che dalle ultime fila spera di essere toccata dalla medesima grazia. Tutto il mondo è unificato dalla stessa febbre dell’oro che si sublima nella guerra all’eros condotta con gigantesche esplosioni di pornografia, la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Cina del Partito comunista, in realtà nome di fantasia di un redivivo Partito socialdemocratico che ricicla il ciarpame umanitario della Seconda Internazionale. Ma nonostante il mondo sia unificato sotto le insegne rilucenti dell’unica fede nel capitale, mai come ora è stato così prossimo alla catastrofe nucleare. Liberali di tutto il mondo, spiegateci questo mistero gaudioso.

Il miraggio dell’identità

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Le recenti chiusure di scuole in occasione di festività religiose non cattoliche, decise autonomamente da presidi che così colmano annosi vuoti normativi di fronte a realtà sempre più dirompenti, hanno offerto agli attuali vertici ministeriali dell’istruzione e del merito il destro per ribadire che la nuova scuola si basi sull’apprendimento di nuovi saperi nel quadro però di un’affermazione prioritaria dei valori della lingua e della cultura italiana. Le classi siano perciò a maggioranza bianche e italiche. A questo arrocco identitario, si è opposto invece che la nuova scuola deve essere principalmente capace di rendere liberi dall’ignoranza. Ben detto, ma bisogna vedere se questa richiesta, avanzata da coloro che si propongono come i più “illuminati” fra i nativi e gli immigrati, può effettivamente diventare il fondamento di un nuovo “umanesimo” che travalichi le identità e le gerarchie di partenza, senza scadere in un sincretismo mal distinguibile o comunque incapace di opporsi al cosmopolitismo della pedagogia produttivistica in auge, di cui gli identitari, proprio con il merito, lautamente si pascono. Insomma, si tratta di capire che cosa si intende per ignoranza, perché se il suo superamento è solo il rifiuto delle ingiustizie che impediscono la propria affermazione personale, che ostacolano il proprio “piano di vita”, che spengono i propri “sogni”, allora per una via differente si perviene allo stesso individualismo della gran massa dei nativi, siano essi collocati in alto o in basso nelle gerarche sociali esistenti.

Intanto, a proposito di merito e di pedagogia del fare ben dissimulata da appassionati proclami identitari, nel corso degli anni, anche con il fattivo operato rivendicato dall’attuale responsabile del dicastero dell’Istruzione,  si è trasformata l’Università da istituzione dello Stato in cui, almeno idealmente, menti autonome elaboravano al più alto grado il sapere universale e la cultura nazionale, a congregazione in cui, giurando sui protocolli della “qualità” elaborati da centri anonimi e sovrastatuali di cui ministeri, atenei e dipartimenti sono solo organi ricettivi, ci si impegna a partecipare a riunioni, compilare moduli e rispettare scadenze, tutti riti burocratici che definiscono le “missioni” di codesta congregazione, il cui adempimento assicura gli “accreditamenti” con i quali la “comunità” accademica concorre virtuosamente agli “sbocchi occupazionali”. In questa mondana “chiesa del profitto”, il cosiddetto “baronaggio”, le cui trame di potere non sempre ma spesso prima si accompagnavano al prestigio culturale, non è scomparso ma si è solo inabissato, dedicandosi a intercettare i finanziamenti e a occupare più o meno familisticamente i posti attraverso cui riprodursi, lasciando che in superfice si affollino intorno a una miriade di cariche individui divisi tra l’aspirazione a un’autentica auto-determinazione e l’assuefazione  alle sempre più assillanti incombenze burocratiche che li rendono docili alla “religione” produttivistica, anche in quei contesti in cui la “produzione” è solo un miraggio e l’alta cultura dovrebbe servire proprio a comprendere criticamente il persistere di tale miraggio. Se c’è un luogo, insomma, dove si può constatare nella maniera più lampante il vuoto declamatorio dell’identitarismo asservito al produttivismo, di cui membri eminenti dell’attuale governo sono chiassosi esponenti, questo è l’Università.

Abortire

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L’abolizione del diritto costituzionale all’aborto da parte della Corte Suprema degli Stati Uniti ha fra i suoi effetti immediati l’allineamento tra cristiani conservatori occidentali e cristiani ortodossi orientali di rito russo in guerra contro la “democrazia” ucraina dell’utero in affitto. Una convergenza imbarazzante che, per i conflitti religiosi del passato e soprattutto per le attuali divisioni politiche, non può trasformarsi in alleanza organica di cui pure il cristianesimo potrebbe valersi nel confronto con le tendenze morali in atto. D’altra parte, se la morale libertina dell’aborto, dell’eutanasia, della procreazione mercificata, dell’omosessualità rivendicata e della fluidità di genere viene rintuzzata nella sua pretesa di elevarsi a morale di Stato, lo sfondo morale dello Stato torna a essere non già la morale laica della “decenza borghese” bensì quella repressiva del tradizionalismo retrivo. Ne consegue che le questioni morali dei singoli individui non verranno trattate nella loro unicità e concretezza, cui pure la morale borghese tendeva con le sue leggi prudenti o ipocrite che fossero, come la 194 italiana sull’interruzione di gravidanza, ma secondo la figura astratta del Dovere in contrapposizione a quella altrettanto astratta dei Diritti negli ultimi decenni giuridicamente prevalente. Questo conflitto tra proibizionismo e permissivismo è destinato a durare sino a quando non sarà possibile basare la morale sulla “particolarità universale”, intesa come giusto mezzo relativo a situazioni e soggetti la cui unicità arricchisce di volta in volta la norma generale collettiva. Questa etica mai conclusa e sempre in itinere, non casuistica ma concretamente universale, potrà affermarsi nella quotidianità se finalmente i bisogni della riproduzione saranno in equilibrio con le esigenze produttive. Sinora lo sviluppo delle forze produttive ha sbilanciato i fattori della riproduzione, trasformando le popolazioni in aggregati in cui, raggiunta la soglia emergente dell’autovalorizzazione infinita, il nascere e il morire, il piacere e il dolore, la mascolinità e la femminilità, sotto la scorza di una falsa socialità diventano pulsioni in conflitto tra di loro. Si può invocare il diritto all’aborto come rimedio per la minaccia di stupro che nei rapporti quotidiani incombe sulle donne? O l’aborto, nonostante il perfezionamento delle tecniche contraccettive, è comunque l’effetto distorto dello stravolgimento del piacere negato da tutto l’assetto dell’esistenza sociale? Si potrebbe continuare a lungo con domande del genere cui la morale corrente risponde oscillando periodicamente tra proibizionismo e permissivismo. Certamente, proibizionismo e permissivismo, momento apollineo e momento dionisiaco, razionalismo e irrazionalismo, sono ognuna nel suo ambito opposizioni che, a paragone di quelle espresse da altre civiltà, hanno consentito nel loro storico alternarsi il più elevato grado di sviluppo delle forze produttive. Ma il costo di tale “disforia sociale” che nessuna “formazione di compromesso”, com’è stato il cristianesimo delle origini, riesce più a compensare, pone all’ordine del giorno l’affrancamento della struttura da tali opposizioni. La trasvalutazione dei valori annunciata a gran voce da equivoci profeti non può che essere la trasvalutazione collettiva del valore di scambio: all’automatismo dell’autovalorizzazione infinita (merge) deve subentrare il controllo sovrastrutturale dei suoi prodotti (Bildung). Il delitto di aborto è quello commesso contro la specie da chi impedisce di portare a termine la nascita della nuova socialità che da tale sostituzione deve derivare.

No vax, sì vax, statu quo

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Di fronte all’alternativa se vivere o morire, l’ostinazione del no vax di non proteggersi dall’infezione del coronavirus appare irrimediabilmente irrazionale. Ma come si è prodotta l’immediatezza dell’alternativa tra vivere o morire su cui punta l’implacabile appello alla “razionalità” del sì vax? Nell’antichità la peste era attribuita alla punizione degli dei scontenti dell’irreligiosità dei popoli. Solo in pochi si sottraevano alla spiegazione mitologica, come Tucidide che riguardo alla peste di Atene del 429 a.C. riferiva del movimento del tutto terreno che l’infezione aveva percorso dall’Etiopia all’Egitto al Peloponneso, o Ippocrate che la inquadrava nella sua teoria degli umori. La spiegazione naturale è il primo passo verso la spiegazione scientifica, ma la scienza, e con essa la medicina che è una scienza molto particolare, dall’antichità ai nostri giorni non si è sviluppata nella serra sigillata di un’accademia di ricercatori di verità disinteressate ma in quel flusso di contatti di uomini, oggetti e territori cui allude Tucidide. Alla medicina empirica di Ippocrate e poi a quella sperimentale di Claude Bernard questa società degli scambi non chiedeva conoscenze pure ma rimedi alle falle che questi movimenti sempre più frenetici aprivano nel corpo sociale. I rapporti tecnici della scienza – teorie, esperimenti, strumenti scientifici – erano dunque il “contesto interno” collegato al “contesto esterno” di rapporti sociali determinati dallo scambio di merci. Una società perciò dominata dalla categoria “astratta” del valore e quindi divisa in classi, tra chi possiede i mezzi di produzione e chi la semplice forza lavoro, in cui la scienza ha il compito di risolvere le incessanti contraddizioni dello sviluppo delle forze produttive, ridotte però a evidenze empiriche immediate. Così, l’infezione da coronavirus non è l’effetto “interno” dello sfrenato movimento “esterno” di uomini al seguito di frenetici flussi di merci, ma l’immediatezza assoluta della proteina Spike che aderendo al recettore ACE2 consente secondo il capriccio del caso e delle circostanze l’ingresso del virus nella cellula del corpo di tale o tal altro individuo preso nel vortice dello “sfrenato movimento” che, rigettato però sullo sfondo, diviene causalmente non percepibile. Di conseguenza, non ci sono più dei che puniscono ma un movimento occulto che, nella parvenza di indiscutibile realtà naturale, la scienza aggiusta nelle sue fratture, divenendo essa stessa produttrice di valore. E siccome la scienza con tali operazioni di aggiustamento, vedi i vaccini, si lega all’evidenza immediata del vivere o del morire, essa diventa la potenza assoluta che è “irrazionale” contraddire. Alla credenza nella punizione divina subentra allora il razionalismo di massa come credenza obbligatoria nella potenza della scienza che fa da supporto inattaccabile dello statu quo sociale. Lo scandalo del no vax allora sta nella miscredenza rispetto a tale potenza e nel suo potenziale eversivo rispetto allo statu quo. Tuttavia, almeno sino a quando tale miscredenza non riuscirà a tradursi in una più ampia “razionalità sociale”, essa resta pura negazione che con la sua evidenza di morte rafforza l’evidenza non della vita, ma della vita generata dal regime falsamente naturale dello sfrenato movimento.