Società

Capitalismcoronavirus

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Il coronavirus è una guerra biologica, scatenata non da un esercito straniero, ma dall’economia in atto che ne propizia l’incubazione e la diffusione. Nei primi venti anni di questo secolo è la quinta o sesta guerra che tale economia scatena contro il resto della società1. Si chiamano pandemie, come se all’improvviso la natura irrompesse incontrollata contro l’organismo sano della società, ma in realtà si tratta di una natura che quell’economia ha asservito, potenziandone i meccanismi pro domo sua. In una recente analisi che compara gli effetti economici dell’epidemia della spagnola del 1918-1920 con quelli già prevedibili dell’attuale epidemia di coronavirus, si legge quanto segue: «oggi l’economia globale ha poche prospettive e la sua produttività rallenta inesorabilmente. La crescita è supportata solo da bolle tecnologiche e finanziarie che diventano ogni giorno più fragili. Un solo granello di sabbia può far crollare questo castello di carte. La sola risposta delle autorità oggi è la stessa data per le crisi del 2008 e del 2012: ricorrere alla politica monetaria per evitare lo scoppio delle bolle. Misura diventata per lo più inefficace. È proprio questo il paradosso dell’epoca che viviamo: a differenza del 1918, oggi non c’è una situazione di caos economico generalizzato, ma di lenta ed inesorabile decelerazione. Ciò rende l’economia molto più sensibile agli attacchi esterni, come può esserlo una pandemia, e, tramite i mercati finanziari, ai timori che li accompagnano».2. Tre sono gli elementi interessanti di questa analisi: la messa in evidenza di una lenta e inesorabile decelerazione dell’economia globale; la presenza delle bolle speculative tecnologico-finanziarie; le pandemie. Vero è che le pandemie vengono ancora considerate erroneamente “attacchi esterni”, ma viene correttamente evidenziato il fatto che le bolle tecnologico-finanziarie servono a rivitalizzare un’economia in lenta ed inesorabile decelerazione. Tali bolle hanno bisogno del livello di integrazione globale, il quale però con i suoi vertiginosi scambi di merci e di individui al servizio delle merci induce le pandemie (un contagiato che impiega un giorno per passare da un punto all’altro del pianeta, è una bomba vivente). Ecco, dunque, perché le pandemie non sono la natura matrigna che si rivolta contro la società civilizzata, bensì l’effetto indiretto e inevitabile della natura che tale economia globale assoggetta sempre più per poter scongiurare il proprio declino. Questo ciclo di agonia che si alimenta di morte per poter allontanare il proprio decesso finale ha un nome ben preciso, e si chiama caduta tendenziale del saggio di profitto, insita in quel modo di produzione che ha anch’esso un nome altrettanto ben preciso, capitalismo3. Il coronavirus, all’apparenza malvagio quanto può esserlo un individuo bastardo, è in realtà un figlio legittimo del capitalismo, è un capitalismcoronavirus. Contrariamente a quanto auspicano molti moralisti, dal capitalismcoronavirus non scaturirà nessun avanzamento sociale, poiché esso, come tutti gli “attacchi esterni” di una natura asservita dal modo di produzione capitalistico, è forza bruta che ispira paura e terrore. Sentimenti quanto mai propizi per esercitare sul tutto sociale una maggiore e più efficace costrizione, funzionale al modo di produzione che causa gli “attacchi esterni”. La fuoriuscita dal capitalismcoronavirus non consisterà perciò in una riduzione delle diseguaglianze, in un ampliamento dell’area del consenso, in una maggiore estensione dei rapporti sociali non alienati. Al contrario, il capitalismcoronavirus accentuerà il feticismo di tali rapporti, e le contraddizioni che ne deriveranno saranno provvisoriamente governate con ulteriori bolle finanziarie e tecnologiche. Riguardo a queste ultime, ha già tratto rinnovato vigore la deriva informatica, con il cogente argomento della necessità igienico-sanitaria di sospendere il livello fisico dei rapporti sociali, come se la digitalizzazione di tali rapporti, dal lavoro all’insegnamento all’amministrazione statale, fosse uno strumento neutro, e non invece un potente fattore di accrescimento della “servitù volontaria” insita nell’egemonia del modo di produzione in atto. Il capitalismcoronavirus ripropone perciò alle forze contro-egemoniche, per quanto disperse e deboli oggi siano, il compito immane ma indifferibile di riportare i rapporti sociali ad un livello in cui il tutto sociale non assoggetti più la natura per scongiurare la propria morte, bensì ne liberi le energie per promuovere la reciproca coesistenza.

  1. Giuseppe Ippolito, Enrico Girardi, Cristiana Pulcinelli, Malattie infettive emergenti, http://www.treccani.it/enciclopedia/malattie-infettive-emergenti_%28XXI-Secolo%29/ []
  2. R. Godin, Strage del 1918: cosa ci insegna l’epidemia della spagnola, «Il Fatto Quotidiano», 9 marzo 20220, pp. 13-14 []
  3. https://www.duemilaventi.net/il-capitalismo-e-i-suoi-nemici/ []

Proposte semiserie per la pace tra i sessi

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L’incalzare del Me Too sta producendo prese di posizione sino a poco tempo fa impensabili. Il disfattismo maschile prima era confinato in certi fogli di riferimento per i resti di nobili ma decaduti casati di sinistra. Ma quando un caso di violenza di genere, dalla dinamica per altro controversa, tocca una coppia star come il duo Piketty-Filippetti, anche il Corriere della sera si schiera, con un sermone che invita i maschi a pentirsi del loro potere millenario, a riconoscere le proprie colpe, a prendere atto che il potere femminile incombe, e che è inutile resistervi1. Bene, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Ma la questione vera è il nuovo potere femminile o la crisi irreversibile della coppia monogamica? Non è che il nuovo potere femminile è solo un prodotto secondario di questa lunghissima e tragica crisi, che ci si ostina a non vedere, e che si cerca di curare con i pannicelli caldi del divorzio, dell’autonomia della donna, della parità dei sessi, delle nuove e bizzarre figure giuridiche dello stalking e del femminicidio? Usciamo fuori dai punti interrogativi e, a costo di romperci l’osso del collo, proviamo ad affermare qualcosa in positivo. La coppia monogamica consacrata in matrimonio può andar bene per una coppia di cardellini, ma non e non più per un maschio e una femmina che Homo sapiens sapiens nel succedersi dei modi di produzione ha elevato a ruoli che ora scoppiano, anche se gli omosessuali con la loro richiesta fuori tempo massimo di riconoscimento matrimoniale le stanno assicurando una sopravvivenza che ha tutta l’aria di un accanimento terapeutico. Non funziona più rinchiudere in un unico cubicolo la funzione riproduttiva, la funzione sessuale, quella economica e quella affettiva. Tutta la società è anacronisticamente organizzata per spezzettare ed ergere a strutture feticizzate le articolazioni e i momenti di queste funzioni, e gli individui, maschi, femmine, presto omosessuali e chiunque del variegato universo LGBT voglia infilarsi in questo ginepraio, semplicemente ne sono stravolti, sino a cadere in nevrosi e psicosi che sfociano nella rabbia e nell’aggressione. Si prenda la funzione riproduttiva. Non c’è bisogno di essere il triste Foucault per osservare che, appena nato, il pargolo, certo con le migliori intenzioni igienico-sanitarie, viene tolto alla madre ed eguagliato nella nursery (più recentemente a volte sostituita da un rooming-in sempre retto però da “oggettive” esigenze igienico-sanitarie). Tornata a casa, la madre è risucchiata dai suoi doveri produttivi, che la spingono a reclamare “democraticamente” di poterlo affidare all’asilo nido, alle baby sitter e ai baby parking. Quale migliore prova, dopo il censitario dare a balia, della servitù volontaria che ha stravolto in massa il rapporto materno? Se invece la madre ha la fortunata sfortuna di non lavorare, essa è abbandonata a se stessa nel chiuso della propria casa, pronta a sviluppare la “normale” depressione post partum che a volte, certo, non sempre, sfocia nell’uccisione del bebé. Con un pizzico di allegra follia, allora, perché non immaginare, in alternativa, una maternità in compagnia? Non asili nido per soli bimbi, ma maternai in cui le madri, se vogliono, crescono assieme alle altre madri il più a lungo possibile i loro rispettivi figli, senza che ci sia un padrone che le licenzi, uno Stato che si occupi intrusivamente dell’educazione collettiva dei loro nati, di un marito che reclama di nuovo l’accesso dopo tanta attesa alle loro parti erotiche. E qui si può dire qualcosa circa la funzione sessuale e quella affettiva. Certo, caro Ilič, il rapporto sessuale non può essere come bere un bicchier d’acqua, e l’amore libero è un mito libertino che funziona quando per tutti gli altri libero non è. Ma, anche qui rendendo il giusto omaggio al futurismo fourierista, che ne sarebbe di una prostituzione gratuita? Già si levano le alte strida del benpensantismo di tutto l’arco costituzionale. Ma immaginiamo che, all’epoca del passaggio dalla Repubblica all’Impero romano, che gli storici individuano come una svolta decisiva nelle trasformazioni profonde della mente greco-romana e quindi capitalistico-borghese-occidentale, immaginiamo, dicevamo, che anziché l’orientamento repressivo colto al volo per fini di potere dall’incombente Cristianesimo, avesse trionfato la già fiorente religione sessuale, con i suoi riti e culti. Anziché preti e suore che donano gratis il loro amore spirituale, non avremmo forse avuto baccanti e sacerdoti che avrebbero fatto dono spirituale del loro corpo materiale? Si tratterebbe dunque di riprendere questo filo interrotto, anzi sepolto sotto la coltre di una proscrizione corporale, la cui spiritualità isterica deborda ormai continuamente nel patologico. Che dire infatti della pedofilia, dell’omosessualità e del lesbismo che alligna in chi professa la donazione gratuita di amore spirituale? Ci sarebbe dunque da riflettere spregiudicatamente su una prostituzione maschile e femminile che, anziché essere abbandonata alla bassezza del mercimonio e della pornografia, ritornasse nuovamente nel recinto del sacro, liberando così il rapporto affettivo tra maschi e femmine, e in generale tra gli individui, dalla malafede del reciproco possesso sessuale mascherato da amor cortese. Un rapporto affettivo reso a se stesso, infine, in cui il sesso potrebbe esser compreso come una delle possibilità, non necessariamente da esperire, poiché l’affettività liberata finalmente da secondi fini potrebbe generare quell’amicizia perfetta cui ogni essere umano aspira, e che, nella sua perfezione, è già così difficile da esperire, poiché nella fusione reciproca continuamente risorge il sé che insidia l’integrità dell’altro2. E perciò, caricare questa già fragile navicella di compiti impropri è davvero cosa eccessiva che l’ipocrita società in atto richiede agli individui. E quando lo scollamento di tutte queste incongrue contiguità fosse stato messo in opera, la funzione economica, con tutti i suoi ingranaggi produttivi e i suoi feticci patrimoniali, non avrebbe più tutta quella nefasta voce in capitolo che adesso ha, anche perché abbiamo volutamente omesso di dire che essa dovrebbe per prima essere scollegata dal viluppo infernale in cui giace, spinta al massimo nella sua potenzialità produttiva, ma sotto l’egida di una rigorosa utilizzazione collettiva della propria indispensabile energia. Se è difficile pensarla tra le nazioni, la pace perpetua ancora più difficile è immaginarla tra i sessi, dove fra l’altro si tingerebbe di involontaria ironia, dal momento che il senso comune rifugge giustamente dalla pace dei sensi. Ma sembra di buon senso affermare che almeno una tregua tra i sessi non la si ottiene costringendo il maschio a pentirsi del suo lungo potere sulla femmina, bensì sottraendo gli individui all’anacronistica coppia monogamica e alla sua strutturale ingiustizia. In essa, infatti, per somma ingiuria, non c’è un terzo che ne dirima le controversie che quotidianamente sorgono, se non nella fase estrema e meccanica della dissoluzione giudiziaria. E gli individui che in essa sono presi, sono costretti dalle sue perverse dinamiche ad offendere e a farsi giudici di tali inevitabili offese, in un tormento interiore che li logora ed immiserisce. Come tutto ciò che riguarda la società in atto, tanto dunque appare lontano ed irrealistico tale rivoluzionamento, tanto invece è urgente e richiesto dalla gravità della crisi etica in cui gli individui tragicamente si dibattono.

 

  1. A. Polito, Come nasce la violenza degli uomini sulle donne, «Corriere della sera», 3 dicembre 2019, pp. 1 e 20. []
  2. Su questo punto, splendide pagine in C. Montaleone, Atomi, corpi, amori. Saggio su Montaigne, Milano, Mimesis, 2019. []

Gilet gialli, facile previsione

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Alla luce della mobilitazione dei gilet gialli in Francia, ripropongo con qualche aggiornamento una nota pubblicata qui già due anni fa sull’auto senza pilota e i suoi inevitabili ma poco considerati risvolti sociali.

 

Tempo fa, in uno di quei fervidi articoli che descrivono il più roseo dei futuri, si poteva leggere quanto segue:

«Oggi è una frase da ricchi: “Manda l’auto a prendermi in azienda”. Domani potrebbe essere una frase di tutti»1.

Posto che nel mondo di domani non esisteranno individui che non lavoreranno in azienda, ecco lo scenario di vita quotidiana che il giornalista prospettava:

«Luisa si sveglia alle sette fa colazione, sale in auto e si fa trasportare in ufficio mentre consulta il tablet. Non ha bisogno di parcheggiare. L’auto torna immediatamente a casa da sola. L’attendono il marito di Luisa, Michele, e il piccolo Luigi. Il figlio saluta il padre, sale in auto e va a scuola. Durante il tragitto ripassa la lezione. Quando Luigi scende, l’auto torna a casa. Sale Michele che va a fare commissioni. Questo è il periodo della giornata in cui l’auto senza guidatore viene utilizzata in modo quasi tradizionale. E’ chiaro che mentre si sposta da una destinazione all’altra Michele può leggere e sbrigare faccende senza preoccuparsi del percorso e dei semafori. Ma l’auto si sposta sempre con lui fino a quando torna a casa, all’ora di pranzo. Mentre il padre prepara da mangiare l’instancabile automobile torna da sola a scuola a prendere Luigi e riportarlo a casa. In serata sarà ancora l’automobile vuota ad andare in azienda, prelevare Luisa e riconsegnarla sotto il suo appartamento».

Fantastico! Uno scenario che più politicamente corretto non si può. È madamin Luisa che va in ufficio, mentre il sciur padre è un casalingo, magari che telelavora. E Michele e Luisa hanno un solo figlio. Maschio. Perfetto. È il mondo di oggi nell’illusione della pubblicità, ma proiettato nel domani, quando ci sarà l’auto senza pilota. L’auto senza pilota che i demiurghi di Google stanno ideando per noi. Un mondo dove tutti sono ricchi, ma con una tale levità da poter farsi venire a prendere tutti quanti dalla macchina a fine giornata. Un mondo in pace con l’uguaglianza, l’ecologia e l’economia. Spiegava ancora l’articolista che l’auto senza pilota applica alla perfezione una delle regole di base dell’economia:

«il capitale investito deve essere utilizzato il più possibile per essere ammortizzato in fretta. Lasciare un’auto parcheggiata otto ore sotto l’ufficio è uno spreco di capitale. Non solo e non tanto perché si paga la tariffa del parcheggio ma perché acquistando un’auto si spendono decine di migliaia di euro per comperare l’opportunità di spostarsi e non ha senso economico sfruttarla solo due volte al giorno».

Non fa una grinza. Basta entrare nell’ordine di idee che spostarsi equivale a spostarsi con l’auto privata. Che male c’è? La mobilità automatizzata, cioè l’auto privata con il pilota automatico, non è uno scherzo. Si è mossa la banca Barclays a studiare il progetto, dal cui rapporto provengono le oggettive informazioni che il bravo articolista sta bravamente contribuendo a diffondere. E quando si muove una banca, vuol dire che presto il sogno sarà incubo, cioè realtà. Barclays ha calcolato l’effetto che l’auto senza pilota avrà sulla produzione di automobili. Pare che dei 33 stabilimenti americani GM e Ford, ne resteranno 17. Sarà una bella lotta (intercapitalistica) tra gli inopinati giganti sbucati dal web e i dinosauri delle automobili tradizionali. E di Luisa e Michele, e del loro figlio Luigi, che ne sarà? Quel desiderio di ricchezza media levitante sulle ruote leggere di un’auto senza pilota si realizzerà? Dipende. Come spiegava sempre l’articolista,

«gli analisti prevedono che il cambiamento sarà graduale. Inizierà prima nelle grandi città e solo successivamente arriverà nelle campagne. Ma sarà inevitabile. Soprattutto se nei grandi centri urbani la mobilità automatica sarà incentivata da permessi di accesso non consentiti alle auto tradizionali».

Ma poter farsi venire a prendere dall’auto senza pilota non doveva essere alla portata di tutti? Gradualmente. Peppino, Ignazia e Alfiuccio, che coltivano patate e mungono caprette in un agro lontano dalla grande città, dovranno aspettare un pochino, diciamo qualche generazione, e se vorranno venire in città con la loro fetida automobile diesel, dovranno lasciarla in un malfamato parcheggio a ore, e pagare una bella tassa di accesso. Che strano questo progresso capitalistico dietro le cui invenzioni futuristiche occhieggiano usi feudali! E che maleducati questi villici con il gilet giallo che protestano per gli incentivi all’auto elettrica, cugina dell’auto senza pilota, e rifiutano di rottamare la loro vecchia, fetida auto diesel!

  1. P. Griseri, L’auto senza pilota. Ne basterà una sola per tutta la famiglia e circolerà il doppio, ‘la Repubblica”, 17.1.2016, p. 21. []

Capitalismo e rivendicazioni omosessuali

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Mentre il Parlamento si avvia ad approvare, salvo sorprese, il disegno di legge Cirinnà sulle “unioni civili tra persone dello stesso sesso”, vulgo, sui matrimoni omosessuali, vale la pena riflettere su una domanda che, magari in silenzio, magari sottovoce, molti si fanno: perché quelle che fino a poco tempo fa erano solo rivendicazioni delle organizzazioni LGBT, oggi sono diventate diritti civili, che non possono più essere ignorati? E, soprattutto, perché quelli che una volta si sarebbero chiamati i “circoli capitalistici”, dalla finanza all’economia digitale all’industria culturale e pubblicitaria alla moda ai governi democratici politicamente corretti, hanno fatto proprie le rivendicazioni omosessuali? In una parola, perché la connessione tra capitalismo e rivendicazioni omosessuali? Tentare di rispondere a queste domande comporta di fare un giro lungo, ma forse ne vale la pena. La premessa da cui partire è che nel capitalismo assoluto, di cui spesso in questo sito si parla, bisogna distinguere la civiltà capitalistica e il capitalismo. La civiltà capitalistica comprende il capitalismo come modo di produzione, ma è anche un sistema ideologico e un modo di vita. Esso storicamente è sorto in Europa da una ‘“fusione” di vari fattori da cui derivò la borghesia capitalistica europea. Questo “connubio” è tramontato con le due guerre mondiali e la fine del “compromesso socialdemocratico”, ma è rimasto il capitalismo “metropolitano” che risucchia nella “civiltà capitalistica” il capitalismo “periferico”, sorto dalla diffusione mondiale del modo di produzione capitalistico. La civiltà capitalistica ha dunque solo un legame storico con ciò che resta della borghesia europea, poiché costituisce uno strato cosmopolitico nuovo, che ha evidentemente bisogno del capitalismo come modo di produzione per riprodursi a livello mondiale. Ha bisogno cioè che si creino continuamente delle “periferie” per poter alimentare questo flusso continuo di riproduzione materiale e ideologica. Dunque, non solo merci, ma anche desideri. Non solo realtà, ma anche libido. Se il capitalismo è la realtà, la civiltà capitalistica è un particolare assetto del principio del piacere. La civiltà capitalistica è il godimento assoluto, che il modo di produzione capitalistico deve materialmente alimentare. Quando si parla di capitalismo assoluto, si parla quindi di un modo di produzione finalizzato al godimento assoluto, che è l’essenza della civiltà capitalistica. Qui torniamo alla domanda sul sostegno dei “circoli capitalistici” alle rivendicazioni LGBT: perché questa connessione tra civiltà capitalistica e omosessualità? La risposta che si può avanzare è che tale connessione consente un ulteriore “aggiustamento” del godimento assoluto proprio della civiltà capitalistica, basato su una precisa divisione internazionale del piacere: matrimoni “sterili” sia etero che omo nella “zona” ricca, dediti solo a finalizzare il sesso allo “stile di vita” improntato al godimento; matrimoni “riproduttivi” nella “zona” povera, finalizzati a riprodurre l’esercito internazionale di riserva di forza-lavoro e di consumatori di “primo livello”. Questa divisione internazionale del piacere trova una sua verifica fattuale in quanto osservano i demografi, che notano non solo la correlazione attuale tra aree ricche e bassi livelli riproduttivi, e aree povere e alti livelli riproduttivi, ma anche la tendenza futura, secondo la quale la popolazione aumenterà più velocemente nelle aree povere, dove raddoppierà, a differenza di quanto accadrà nelle aree ricche, dove invecchierà e diminuirà. Il futuro dunque è di una civiltà capitalistica che produrrà periferie povere sempre più numerose per poter sostenere l’assetto produttivo libidico finalizzato al godimento delle aree ricche. E poiché il piacere è insito nella natura umana, e quindi anche i poveri lo desiderano e lo cercano, la civiltà capitalistica funzionerà sempre più non solo come un fattore di crescita demografica esponenziale, ma anche come una potente idrovora che risucchia verso le sue aree ricche le immense masse di poveri che tale civiltà produce in continuazione per poter assicurare la propria riproduzione. Dunque, il boom demografico, che sta proiettando la specie umana verso i dieci miliardi di esemplari, e le migrazioni bibliche, che i soloni pronosticano ininterrotte per i prossimi cinquant’anni, non sono calamità naturali, ma effetti del modo in cui la civiltà capitalistica utilizza il modo di produzione capitalistico per sostenere il proprio assetto libidico e quindi il proprio dominio mondiale. La questione omossessuale, allora, fa tutt’uno con la questione demografica e la questione migratoria, poiché come abbiamo visto risponde alla divisione internazionale del piacere su cui si basa la civiltà capitalistica. Però, non tutte le ciambelle vengono col buco. La civiltà capitalistica è dispostissima a riconoscere i diritti LGBT, dal momento che per essa è una ragione di vita “aggiustare” e approfondire il dispositivo del godimento, ma per sua sfortuna gli omosessuali, gay e lesbiche, sono degli esseri umani che, forse molto di più degli eterosessuali sazi del godimento dello “stile di vita” capitalistico in cui sono immersi, non si accontentano di essere dei puri ricettori di piacere. A loro quindi non basta il riconoscimento delle loro unioni come semplice matrimonio “sterile”, funzionalizzato a sostenere la norma del godimento. Essi invece vogliono anche avere figli, vogliono anche loro praticare il matrimonio “riproduttivo”. Tuttavia, per la civiltà capitalistica questa richiesta di affettività filiale non è un grave problema. Anche se i figli nelle aree ricche sono un costo produttivo, per la civiltà capitalistica trovarsi al suo interno un’enclave riproduttiva bizzarra (queer) non cambia molto nel bilancio produttivo che il capitalismo deve assicurarle. Inoltre, il desiderio procreativo di gay e lesbiche non potrà verosimilmente essere soddisfatto che attraverso la creazione di un ulteriore mercato, il mercato di uteri e spermatozoi. Un fatto che, nel ddl Cirinnà in discussione nel Parlamento italiano, ci si limita a riconoscere “a valle”, ricorrendo alla finzione dell’adozione del figlio dell’altro membro della coppia (stepchild adoption). Ma è evidente che un tale permesso non potrà che sviluppare ulteriormente il già avviato mercato dei fattori della riproduzione biologica. La civiltà capitalistica va così all’incasso due volte. La prima inglobando ed approfondendo l’area del godimento, la seconda creando un ulteriore settore produttivo per il modo di produzione capitalistico, che si allarga a comprendere la produzione di ogni genere di merci atte a soddisfare gli specifici bisogni della vita quotidiana delle coppie omosessuali. Chi si viene a trovare del tutto a mal partito è la “ragione”, sia essa dei laici o dei credenti, che non può affermare i diritti LGBT, ma anche il multiculturalismo e i diritti dei migranti, senza vedersi trasformata in orpello ideologico di un assetto libidico e di un meccanismo produttivo “altri” rispetto alle sue premesse di autonomia e di rispetto dell’individuo. La morale kantiana che, in quanto compimento laico della morale cristiana, era pure stata il grande acquisto universale della civiltà capitalistica borghese europea, sembra davvero diventata un ferro vecchio davanti alle inarrestabili dinamiche libidiche e produttive della nuova civiltà capitalistica cosmopolita. Né serve rispolverare il libertinismo per cercare di correre più velocemente del treno del godimento che follemente va, come fanno coloro che, però, in nome dello stesso laicismo radicale, di fronte al cozzo di usi, costumi e credenze, provocato dalle gigantesche migrazioni, dichiarano guerra al “sacro”, scambiando anche qui l’effetto per la causa. All’evidenza, infatti, non sono le religioni che si affrontano, ma gli individui portatori di religioni, usi e costumi differenti, che la civiltà capitalistica ammucchia nelle moltitudini migratorie di cui ha bisogno il modo di produzione capitalistico che l’alimenta. Spingere sul pedale dell’individuo radicalmente laico rischia di diventare quindi un delirio ideologico. Non l’individuo laico, infatti, trionferà, ma gli infiniti ricettori di piacere omogeneizzati dal godimento della civiltà capitalistica. Né meglio se la passano papi vescovi e cardinali, con i loro richiami alla “naturalità” del matrimonio eterosessuale procreativo. La corrente gelida del godimento, infatti, attraversa già il loro organismo con la pedofilia, che è l’esito storico di un assetto libidico e produttivo, precursore della stessa civiltà capitalistica1. I moniti cardinalizi sono dunque voci di un comando enunciato con lo stesso fiato di cui è fatto il grido che li contesta. Eppure, questi moniti planano su piazze che non aspettano altro che di essere mobilitate, e i laici radicali combattono nel sogno dell’ideologia le loro furiose battaglie, e gay e lesbiche vogliono procreare a dispetto del godimento e della sua logica strumentale, e i migranti solcano i continenti per sfuggire al meccanismo che li vuole poveri, cioè strumento passivo del godimento altrui. È vero, perciò, che il capitalismo assoluto coincide con la vita al punto da risultare incriticabile, ma dalla sua coltre spuntano continuamente teste braccia e gambe di corpi che convulsamente cercano di respirare le ragioni insopprimibili di quella vita che il capitalismo assoluto tende ad assorbire completamente in sé. Chi raccoglierà la spinta di questa scoordinata aspirazione al desiderio, cioè ad un piacere finalmente “disinteressato”? Potrebbero essere la scienza e la tecnica, con le loro collaudate ma anche nuove scoperte, ponti, strade, ferrovie, vaccini e computer, ma anche spermatozoi sintetici e uteri artificiali. Ma scienza e tecnica sono potenze intellettuali, incapaci da sole di produrre un contro-potere sociale, che restituisca le comunità ad un rinnovato “placido corso”. Qui ci sarebbe bisogno di una politica che, con le sue rigorose leggi strategiche e organizzative, tornasse alla guida degli “oppressi”. Ma, nell’attesa di un sì bel dì, essere pro o contro? A favore o contro i matrimoni omosessuali e le loro figliolanze per procura? Contro, si affiderebbe un divieto ad una civiltà che nel suo fondamento spinge al comportamento che con la legge vorrebbe vietare. A favore, non si impedirebbe che pur contraddittoriamente bisogni umani trovino una loro provvisoria espressione immediata. Piuttosto che un ulteriore arbitrio repressivo, non è meglio, allora, una contraddizione che lasci aperto il domani?

  1. F. Aqueci, Freud, Pareto, Lacan e la questione cattolica, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2010, pp. 33-39, poi ripreso in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 153-165. []

L’auto senza pilota. Gradualmente.

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Si sa, “la Repubblica”, per bocca del suo fondatore, teorizza la compenetrazione di fatti e opinioni: dare tutte le notizie, ma colorate con la vernice che apertamente piace a noi. Così, quando l’articolista scrive: «Oggi è una frase da ricchi: “Manda l’auto a prendermi in azienda”. Domani potrebbe essere una frase di tutti»1, il lettore ancora prima di leggerla deve condividere che domani tutti lavoreranno in azienda, o comunque che tutti quelli che lavoreranno in azienda potranno farsi venire a prendere dall’auto. Associato a questa community ideologica dalla vasta estensione transnazionale, il contenuto dell’articolo è ripreso infatti dal meglio dell’informazione anglosassone, il lettore potrà allora immergersi nello scenario di vita quotidiana che il giornalista, come da manuale, gli prospetta: «Luisa si sveglia alle sette fa colazione, sale in auto e si fa trasportare in ufficio mentre consulta il tablet. Non ha bisogno di parcheggiare. L’auto torna immediatamente a casa da sola. L’attendono il marito di Luisa, Michele, e il piccolo Luigi. Il figlio saluta il padre, sale in auto e va a scuola. Durante il tragitto ripassa la lezione. Quando Luigi scende, l’auto torna a casa. Sale Michele che va a fare commissioni. Questo è il periodo della giornata in cui l’auto senza guidatore viene utilizzata in modo quasi tradizionale. E’ chiaro che mentre si sposta da una destinazione all’altra Michele può leggere e sbrigare faccende senza preoccuparsi del percorso e dei semafori. Ma l’auto si sposta sempre con lui fino a quando torna a casa, all’ora di pranzo. Mentre il padre prepara da mangiare l’instancabile automobile torna da sola a scuola a prendere Luigi e riportarlo a casa. In serata sarà ancora l’automobile vuota ad andare in azienda, prelevare Luisa e riconsegnarla sotto il suo appartamento». Fantastico! E che scenario politicamente corretto, per il lettore medio che il giornale in questione forgia giorno per giorno! È Luisa che va in ufficio, mentre il padre è un casalingo, magari con un lavoro da casa. E Michele e Luisa hanno un solo figlio. Maschio. Perfetto. È il mondo di oggi, così come la pubblicità odierna vorrebbe che fosse, ma proiettato nel domani, quando ci sarà l’auto senza pilota. L’auto senza pilota che quei demiurghi di Google stanno ideando per noi. Un mondo dove tutti sono ricchi, ma con una tale levità da poter farsi venire a prendere tutti dalla macchina a fine giornata in ufficio. Un mondo in pace con l’uguaglianza, l’ecologia e l’economia. Infatti, spiega fervorosamente l’articolista, l’auto senza pilota applica alla perfezione una delle regole di base dell’economia: «il capitale investito deve essere utilizzato il più possibile per essere ammortizzato in fretta. Lasciare un’auto parcheggiata otto ore sotto l’ufficio è uno spreco di capitale. Non solo e non tanto perché si paga la tariffa del parcheggio ma perché acquistando un’auto si spendono decine di migliaia di euro per comperare l’opportunità di spostarsi e non ha senso economico sfruttarla solo due volte al giorno». Non fa una grinza. Basta entrare nell’ordine di idee che spostarsi equivale a spostarsi con l’auto privata. È un altro effettucio ideologico che fa parte del contratto “niente fatti scissi dalle opinioni”, ma stiamo parlando della mobilità automatizzata di domani. Vogliamo metterci a fare i tignosi di fronte a questo radioso mondo firmato Larry Page? La mobilità automatizzata, cioè l’auto privata con il pilota automatico, non è uno scherzo. Si è mossa Barclays a studiare il progetto, dal cui rapporto provengono le informazioni apertamente partigiane che il bravo articolista sta bravamente contribuendo a diffondere. E quando si muove una banca, vuol dire che presto il sogno sarà incubo, cioè realtà. Barclays ha calcolato l’effetto che l’auto senza pilota avrà sulla produzione di automobili. Pare che dei 33 stabilimenti americani GM e Ford, ne resteranno 17. Sarà una bella lotta (intercapitalistica, se si può dire) tra gli inopinati giganti sbucati dal web e i dinosaursi delle automobili tradizionali. E di Luisa e Michele, e del loro figlio Luigi, che ne sarà? Quel desiderio di ricchezza media levitante sulle ruote leggere di un’auto senza pilota si realizzerà? Dipende. Come spiega l’infervorato articolista, «gli analisti prevedono che il cambiamento sarà graduale. Inizierà prima nelle grandi città e solo successivamente arriverà nelle campagne. Ma sarà inevitabile. Soprattutto se nei grandi centri urbani la mobilità automatica sarà incentivata da permessi di accesso non coinsentiti alle auto tradizionali». Ma poter farsi venire a prendere dall’auto senza pilota non doveva essere alla portata di tutti? Gradualmente. Peppino, Ignazia e Alfiuccio, che coltivano patate e mungono caprette in un agro lontano dalla città à la Page, dovranno aspettare un pochino, diciamo qualche generazione, e se vorranno venire in città con la loro fetida automobile tradizionale, dovranno lasciarla in un malfamato parcheggio a ore, e pagare una bella tassa di accesso. Uffa, va bene, le diseguaglianze, ma anche i ricchi piangeranno. Infatti, quelli con la passione rétro di far rombare i motori a colpi di accelleratore, saranno costretti a sgasare lontano dalla città perfetta, magari in quell’agro lontano dove Peppino, Ignazia e Alfiuccio buttano sangue tutto il giorno. È la «sconvolgente rivoluzione della mobilità», come la descrive neutralmente Barclays nel suo rapporto, che abbassa le vecchie élite e dà un’altra illusione ai poveri. Capitalismo assoluto? Ma no, solo scienza e tecnica, quelle “potenze” che filosofi sconsiderati chiamano spregiativamente Gestell, e che invece, messe a profitto da apostoli visionari come Larry Page e compagnia, operano incessantemente per elargire i loro doni all’umanità. Gradualmente.

  1. P. Griseri, L’auto senza pilota. Ne basterà una sola per tutta la famiglia e circolerà il doppio, ‘la Repubblica”, 17.1.2016, p. 21. []