Società

Capitalismo e rivendicazioni omosessuali

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Mentre il Parlamento si avvia ad approvare, salvo sorprese, il disegno di legge Cirinnà sulle “unioni civili tra persone dello stesso sesso”, vulgo, sui matrimoni omosessuali, vale la pena riflettere su una domanda che, magari in silenzio, magari sottovoce, molti si fanno: perché quelle che fino a poco tempo fa erano solo rivendicazioni delle organizzazioni LGBT, oggi sono diventate diritti civili, che non possono più essere ignorati? E, soprattutto, perché quelli che una volta si sarebbero chiamati i “circoli capitalistici”, dalla finanza all’economia digitale all’industria culturale e pubblicitaria alla moda ai governi democratici politicamente corretti, hanno fatto proprie le rivendicazioni omosessuali? In una parola, perché la connessione tra capitalismo e rivendicazioni omosessuali? Tentare di rispondere a queste domande comporta di fare un giro lungo, ma forse ne vale la pena. La premessa da cui partire è che nel capitalismo assoluto, di cui spesso in questo sito si parla, bisogna distinguere la civiltà capitalistica e il capitalismo. La civiltà capitalistica comprende il capitalismo come modo di produzione, ma è anche un sistema ideologico e un modo di vita. Esso storicamente è sorto in Europa da una ‘“fusione” di vari fattori da cui derivò la borghesia capitalistica europea. Questo “connubio” è tramontato con le due guerre mondiali e la fine del “compromesso socialdemocratico”, ma è rimasto il capitalismo “metropolitano” che risucchia nella “civiltà capitalistica” il capitalismo “periferico”, sorto dalla diffusione mondiale del modo di produzione capitalistico. La civiltà capitalistica ha dunque solo un legame storico con ciò che resta della borghesia europea, poiché costituisce uno strato cosmopolitico nuovo, che ha evidentemente bisogno del capitalismo come modo di produzione per riprodursi a livello mondiale. Ha bisogno cioè che si creino continuamente delle “periferie” per poter alimentare questo flusso continuo di riproduzione materiale e ideologica. Dunque, non solo merci, ma anche desideri. Non solo realtà, ma anche libido. Se il capitalismo è la realtà, la civiltà capitalistica è un particolare assetto del principio del piacere. La civiltà capitalistica è il godimento assoluto, che il modo di produzione capitalistico deve materialmente alimentare. Quando si parla di capitalismo assoluto, si parla quindi di un modo di produzione finalizzato al godimento assoluto, che è l’essenza della civiltà capitalistica. Qui torniamo alla domanda sul sostegno dei “circoli capitalistici” alle rivendicazioni LGBT: perché questa connessione tra civiltà capitalistica e omosessualità? La risposta che si può avanzare è che tale connessione consente un ulteriore “aggiustamento” del godimento assoluto proprio della civiltà capitalistica, basato su una precisa divisione internazionale del piacere: matrimoni “sterili” sia etero che omo nella “zona” ricca, dediti solo a finalizzare il sesso allo “stile di vita” improntato al godimento; matrimoni “riproduttivi” nella “zona” povera, finalizzati a riprodurre l’esercito internazionale di riserva di forza-lavoro e di consumatori di “primo livello”. Questa divisione internazionale del piacere trova una sua verifica fattuale in quanto osservano i demografi, che notano non solo la correlazione attuale tra aree ricche e bassi livelli riproduttivi, e aree povere e alti livelli riproduttivi, ma anche la tendenza futura, secondo la quale la popolazione aumenterà più velocemente nelle aree povere, dove raddoppierà, a differenza di quanto accadrà nelle aree ricche, dove invecchierà e diminuirà. Il futuro dunque è di una civiltà capitalistica che produrrà periferie povere sempre più numerose per poter sostenere l’assetto produttivo libidico finalizzato al godimento delle aree ricche. E poiché il piacere è insito nella natura umana, e quindi anche i poveri lo desiderano e lo cercano, la civiltà capitalistica funzionerà sempre più non solo come un fattore di crescita demografica esponenziale, ma anche come una potente idrovora che risucchia verso le sue aree ricche le immense masse di poveri che tale civiltà produce in continuazione per poter assicurare la propria riproduzione. Dunque, il boom demografico, che sta proiettando la specie umana verso i dieci miliardi di esemplari, e le migrazioni bibliche, che i soloni pronosticano ininterrotte per i prossimi cinquant’anni, non sono calamità naturali, ma effetti del modo in cui la civiltà capitalistica utilizza il modo di produzione capitalistico per sostenere il proprio assetto libidico e quindi il proprio dominio mondiale. La questione omossessuale, allora, fa tutt’uno con la questione demografica e la questione migratoria, poiché come abbiamo visto risponde alla divisione internazionale del piacere su cui si basa la civiltà capitalistica. Però, non tutte le ciambelle vengono col buco. La civiltà capitalistica è dispostissima a riconoscere i diritti LGBT, dal momento che per essa è una ragione di vita “aggiustare” e approfondire il dispositivo del godimento, ma per sua sfortuna gli omosessuali, gay e lesbiche, sono degli esseri umani che, forse molto di più degli eterosessuali sazi del godimento dello “stile di vita” capitalistico in cui sono immersi, non si accontentano di essere dei puri ricettori di piacere. A loro quindi non basta il riconoscimento delle loro unioni come semplice matrimonio “sterile”, funzionalizzato a sostenere la norma del godimento. Essi invece vogliono anche avere figli, vogliono anche loro praticare il matrimonio “riproduttivo”. Tuttavia, per la civiltà capitalistica questa richiesta di affettività filiale non è un grave problema. Anche se i figli nelle aree ricche sono un costo produttivo, per la civiltà capitalistica trovarsi al suo interno un’enclave riproduttiva bizzarra (queer) non cambia molto nel bilancio produttivo che il capitalismo deve assicurarle. Inoltre, il desiderio procreativo di gay e lesbiche non potrà verosimilmente essere soddisfatto che attraverso la creazione di un ulteriore mercato, il mercato di uteri e spermatozoi. Un fatto che, nel ddl Cirinnà in discussione nel Parlamento italiano, ci si limita a riconoscere “a valle”, ricorrendo alla finzione dell’adozione del figlio dell’altro membro della coppia (stepchild adoption). Ma è evidente che un tale permesso non potrà che sviluppare ulteriormente il già avviato mercato dei fattori della riproduzione biologica. La civiltà capitalistica va così all’incasso due volte. La prima inglobando ed approfondendo l’area del godimento, la seconda creando un ulteriore settore produttivo per il modo di produzione capitalistico, che si allarga a comprendere la produzione di ogni genere di merci atte a soddisfare gli specifici bisogni della vita quotidiana delle coppie omosessuali. Chi si viene a trovare del tutto a mal partito è la “ragione”, sia essa dei laici o dei credenti, che non può affermare i diritti LGBT, ma anche il multiculturalismo e i diritti dei migranti, senza vedersi trasformata in orpello ideologico di un assetto libidico e di un meccanismo produttivo “altri” rispetto alle sue premesse di autonomia e di rispetto dell’individuo. La morale kantiana che, in quanto compimento laico della morale cristiana, era pure stata il grande acquisto universale della civiltà capitalistica borghese europea, sembra davvero diventata un ferro vecchio davanti alle inarrestabili dinamiche libidiche e produttive della nuova civiltà capitalistica cosmopolita. Né serve rispolverare il libertinismo per cercare di correre più velocemente del treno del godimento che follemente va, come fanno coloro che, però, in nome dello stesso laicismo radicale, di fronte al cozzo di usi, costumi e credenze, provocato dalle gigantesche migrazioni, dichiarano guerra al “sacro”, scambiando anche qui l’effetto per la causa. All’evidenza, infatti, non sono le religioni che si affrontano, ma gli individui portatori di religioni, usi e costumi differenti, che la civiltà capitalistica ammucchia nelle moltitudini migratorie di cui ha bisogno il modo di produzione capitalistico che l’alimenta. Spingere sul pedale dell’individuo radicalmente laico rischia di diventare quindi un delirio ideologico. Non l’individuo laico, infatti, trionferà, ma gli infiniti ricettori di piacere omogeneizzati dal godimento della civiltà capitalistica. Né meglio se la passano papi vescovi e cardinali, con i loro richiami alla “naturalità” del matrimonio eterosessuale procreativo. La corrente gelida del godimento, infatti, attraversa già il loro organismo con la pedofilia, che è l’esito storico di un assetto libidico e produttivo, precursore della stessa civiltà capitalistica1. I moniti cardinalizi sono dunque voci di un comando enunciato con lo stesso fiato di cui è fatto il grido che li contesta. Eppure, questi moniti planano su piazze che non aspettano altro che di essere mobilitate, e i laici radicali combattono nel sogno dell’ideologia le loro furiose battaglie, e gay e lesbiche vogliono procreare a dispetto del godimento e della sua logica strumentale, e i migranti solcano i continenti per sfuggire al meccanismo che li vuole poveri, cioè strumento passivo del godimento altrui. È vero, perciò, che il capitalismo assoluto coincide con la vita al punto da risultare incriticabile, ma dalla sua coltre spuntano continuamente teste braccia e gambe di corpi che convulsamente cercano di respirare le ragioni insopprimibili di quella vita che il capitalismo assoluto tende ad assorbire completamente in sé. Chi raccoglierà la spinta di questa scoordinata aspirazione al desiderio, cioè ad un piacere finalmente “disinteressato”? Potrebbero essere la scienza e la tecnica, con le loro collaudate ma anche nuove scoperte, ponti, strade, ferrovie, vaccini e computer, ma anche spermatozoi sintetici e uteri artificiali. Ma scienza e tecnica sono potenze intellettuali, incapaci da sole di produrre un contro-potere sociale, che restituisca le comunità ad un rinnovato “placido corso”. Qui ci sarebbe bisogno di una politica che, con le sue rigorose leggi strategiche e organizzative, tornasse alla guida degli “oppressi”. Ma, nell’attesa di un sì bel dì, essere pro o contro? A favore o contro i matrimoni omosessuali e le loro figliolanze per procura? Contro, si affiderebbe un divieto ad una civiltà che nel suo fondamento spinge al comportamento che con la legge vorrebbe vietare. A favore, non si impedirebbe che pur contraddittoriamente bisogni umani trovino una loro provvisoria espressione immediata. Piuttosto che un ulteriore arbitrio repressivo, non è meglio, allora, una contraddizione che lasci aperto il domani?

  1. F. Aqueci, Freud, Pareto, Lacan e la questione cattolica, “Critica marxista”, n. 5, settembre-ottobre 2010, pp. 33-39, poi ripreso in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 153-165. []

L’auto senza pilota. Gradualmente.

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Si sa, “la Repubblica”, per bocca del suo fondatore, teorizza la compenetrazione di fatti e opinioni: dare tutte le notizie, ma colorate con la vernice che apertamente piace a noi. Così, quando l’articolista scrive: «Oggi è una frase da ricchi: “Manda l’auto a prendermi in azienda”. Domani potrebbe essere una frase di tutti»1, il lettore ancora prima di leggerla deve condividere che domani tutti lavoreranno in azienda, o comunque che tutti quelli che lavoreranno in azienda potranno farsi venire a prendere dall’auto. Associato a questa community ideologica dalla vasta estensione transnazionale, il contenuto dell’articolo è ripreso infatti dal meglio dell’informazione anglosassone, il lettore potrà allora immergersi nello scenario di vita quotidiana che il giornalista, come da manuale, gli prospetta: «Luisa si sveglia alle sette fa colazione, sale in auto e si fa trasportare in ufficio mentre consulta il tablet. Non ha bisogno di parcheggiare. L’auto torna immediatamente a casa da sola. L’attendono il marito di Luisa, Michele, e il piccolo Luigi. Il figlio saluta il padre, sale in auto e va a scuola. Durante il tragitto ripassa la lezione. Quando Luigi scende, l’auto torna a casa. Sale Michele che va a fare commissioni. Questo è il periodo della giornata in cui l’auto senza guidatore viene utilizzata in modo quasi tradizionale. E’ chiaro che mentre si sposta da una destinazione all’altra Michele può leggere e sbrigare faccende senza preoccuparsi del percorso e dei semafori. Ma l’auto si sposta sempre con lui fino a quando torna a casa, all’ora di pranzo. Mentre il padre prepara da mangiare l’instancabile automobile torna da sola a scuola a prendere Luigi e riportarlo a casa. In serata sarà ancora l’automobile vuota ad andare in azienda, prelevare Luisa e riconsegnarla sotto il suo appartamento». Fantastico! E che scenario politicamente corretto, per il lettore medio che il giornale in questione forgia giorno per giorno! È Luisa che va in ufficio, mentre il padre è un casalingo, magari con un lavoro da casa. E Michele e Luisa hanno un solo figlio. Maschio. Perfetto. È il mondo di oggi, così come la pubblicità odierna vorrebbe che fosse, ma proiettato nel domani, quando ci sarà l’auto senza pilota. L’auto senza pilota che quei demiurghi di Google stanno ideando per noi. Un mondo dove tutti sono ricchi, ma con una tale levità da poter farsi venire a prendere tutti dalla macchina a fine giornata in ufficio. Un mondo in pace con l’uguaglianza, l’ecologia e l’economia. Infatti, spiega fervorosamente l’articolista, l’auto senza pilota applica alla perfezione una delle regole di base dell’economia: «il capitale investito deve essere utilizzato il più possibile per essere ammortizzato in fretta. Lasciare un’auto parcheggiata otto ore sotto l’ufficio è uno spreco di capitale. Non solo e non tanto perché si paga la tariffa del parcheggio ma perché acquistando un’auto si spendono decine di migliaia di euro per comperare l’opportunità di spostarsi e non ha senso economico sfruttarla solo due volte al giorno». Non fa una grinza. Basta entrare nell’ordine di idee che spostarsi equivale a spostarsi con l’auto privata. È un altro effettucio ideologico che fa parte del contratto “niente fatti scissi dalle opinioni”, ma stiamo parlando della mobilità automatizzata di domani. Vogliamo metterci a fare i tignosi di fronte a questo radioso mondo firmato Larry Page? La mobilità automatizzata, cioè l’auto privata con il pilota automatico, non è uno scherzo. Si è mossa Barclays a studiare il progetto, dal cui rapporto provengono le informazioni apertamente partigiane che il bravo articolista sta bravamente contribuendo a diffondere. E quando si muove una banca, vuol dire che presto il sogno sarà incubo, cioè realtà. Barclays ha calcolato l’effetto che l’auto senza pilota avrà sulla produzione di automobili. Pare che dei 33 stabilimenti americani GM e Ford, ne resteranno 17. Sarà una bella lotta (intercapitalistica, se si può dire) tra gli inopinati giganti sbucati dal web e i dinosaursi delle automobili tradizionali. E di Luisa e Michele, e del loro figlio Luigi, che ne sarà? Quel desiderio di ricchezza media levitante sulle ruote leggere di un’auto senza pilota si realizzerà? Dipende. Come spiega l’infervorato articolista, «gli analisti prevedono che il cambiamento sarà graduale. Inizierà prima nelle grandi città e solo successivamente arriverà nelle campagne. Ma sarà inevitabile. Soprattutto se nei grandi centri urbani la mobilità automatica sarà incentivata da permessi di accesso non coinsentiti alle auto tradizionali». Ma poter farsi venire a prendere dall’auto senza pilota non doveva essere alla portata di tutti? Gradualmente. Peppino, Ignazia e Alfiuccio, che coltivano patate e mungono caprette in un agro lontano dalla città à la Page, dovranno aspettare un pochino, diciamo qualche generazione, e se vorranno venire in città con la loro fetida automobile tradizionale, dovranno lasciarla in un malfamato parcheggio a ore, e pagare una bella tassa di accesso. Uffa, va bene, le diseguaglianze, ma anche i ricchi piangeranno. Infatti, quelli con la passione rétro di far rombare i motori a colpi di accelleratore, saranno costretti a sgasare lontano dalla città perfetta, magari in quell’agro lontano dove Peppino, Ignazia e Alfiuccio buttano sangue tutto il giorno. È la «sconvolgente rivoluzione della mobilità», come la descrive neutralmente Barclays nel suo rapporto, che abbassa le vecchie élite e dà un’altra illusione ai poveri. Capitalismo assoluto? Ma no, solo scienza e tecnica, quelle “potenze” che filosofi sconsiderati chiamano spregiativamente Gestell, e che invece, messe a profitto da apostoli visionari come Larry Page e compagnia, operano incessantemente per elargire i loro doni all’umanità. Gradualmente.

  1. P. Griseri, L’auto senza pilota. Ne basterà una sola per tutta la famiglia e circolerà il doppio, ‘la Repubblica”, 17.1.2016, p. 21. []

Un powerpoint di Buon Natale

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Forse perché pressati dalle pirotecniche esibizioni islamiche, quest’anno ci si scambiano auguri da buoni cristiani, ricordando quando il Natale (come la Pasqua) era una  festa che aveva un sapore diverso e portava ai bambini (fortunati di avere una famiglia) un’intensa gioia, e si depreca che il Natale sia diventato  un evento materialistico in cui bisogna consumare e scambiare regali, per essere felici solo un paio d’ore, fino a quando non si è assaliti dal desiderio di possedere un’altra cosa. Ma in questa nostalgica contrizione si dimentica che anche i musulmani deprecano questo tempo materialistico. Astraendo per un momento dai truci pistoleri dell’Islam, ci sono bravi seguaci di Maometto che, indossando una pettorina gialla con su scritto “Polizia islamica”, vanno in giro per i quartieri di piccole cittadine tedesche, invitando le signore a velarsi e i loro mariti a non bere più una goccia di qualsivoglia alcolico. Non contenti, affiggono volantini qua e là agli angoli delle strade in cui si proclama che quei quartieri sono “zona controllata dalla sharia”, e si bandisce alcol, droghe, gioco d’azzardo, musica, concerti, pornografia e prostituzione1. Esagerati, certo, ma il sospetto è che, tanto nella nostalgia “cristiana” per il parco Natale, quanto nel disprezzo “islamico” per la depravazione occidentale, la radice sia uguale, una reazione “morale” basata sull’identità fornita dal proprio Dio, che taciti la coscienza di fronte ad una pratica che, per quanto si voglia, non riesce a districarsi da quel “materialismo” da tutti deprecato. Cristiani e musulmani, infatti, ma anche ebrei e confuciani, continuano a consumare e a vivere per consumare. Se non fossero attratti da questo modo di vita, perché mai quei bravi maomettani in pettorina gialla brigherebbero tanto per andare a vivere fra i “materialisti” tedeschi, quando potrebbero restare a casa propria, a coltivare la loro “pura” povertà? Le guerre, certo, ma quattro milioni di turchi non si sono mica trasferiti in Germania per sfuggire al genocidio. Il sospetto grande, allora, è che a trionfare sia la religione più subdola, la religione della merce, che approfitta delle vecchie divisioni religiose in cui il genere umano si attarda, per imporre silenziosamente il proprio culto, che si annida implacabile come un parassita nella vita stessa (nei sommovimenti demografici, direbbero gli studiosi positivi). Piuttosto quindi, come impone il politicamente corretto, di astenersi nelle scuole dal celebrare il Natale, sarebbe opportuno riaprire gli occhi su quel modo di vita, che è anche un modo di produzione, magari proiettando, al posto delle canzoncine natalizie, un powerpoint sul-modo-di-produzione-capitalistico-giunto-nella-sua-fase-di-dominio-assoluto. E, in quest’epoca di disdegno per le ideologie, per evitare l’effetto “libretto rosso”, lo si potrebbe fare illustrare da Roberto Benigni.

  1. La Germania legalizza la polizia islamica?, “Il Foglio”, 12 dicembre 2015. []

Cronica del nuovo millennio

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Una scolaresca va in visita ad Auschwitz. La professoressa che l’accompagna, nota che il blocco destinato all’Italia per il ricordo degli ebrei italiani lì deportati è chiuso. Dalla guida apprende che è in quello stato da quattro anni, per mancanza di fondi. La professoressa, sdegnata, scrive a Corrado Augias, il quale pubblica nella sua rubrica la lettera, auspicando che il governo, almeno nella ricorrenza del 70° della Shoah, riapra il blocco1. Passano due giorni, e sul “Fatto” si legge che il blocco è chiuso perché al suo interno ci sarebbe «un’opera d’arte astratta, poco “leggibile”, e per questo considerata inidonea e ora è stato deciso di portarla a Firenze». Il cronista, la cui paratassi richiama quella di una cronica medievale, aggiunge che le autorità locali sono in attesa di capire come l’Italia deciderà di affrontare la questione e in che tempi2. Lo stesso giorno, però, il ministero degli esteri manda una precisazione a “Repubblica”, in cui si afferma che «è la presenza nell’opera di richami artistici al comunismo, oggi considerati fuori legge in Polonia, ad aver indotto la chiusura del Blocco 21»3. Dunque, l’Italia, un paese in cui l’anticomunismo è una pratica spiritica di massa, non può celebrare i suoi ebrei morti ad Auschwitz perché una legge anticomunista vieta i “riferimenti artistici” al comunismo presenti nell’opera che, secondo quanto si afferma nella lettera del ministero degli esteri, nel 1980 l’Associazione Nazionale Esuli e Deportati (Aned) decise di porre nel blocco dedicato all’Italia. È vero, era il 1980, e non si poteva prevedere che i “riferimenti artistici” al comunismo sarebbero stati vietati per legge, e questa è stata sicuramente una mancanza di lungimiranza. Di che si sdegna, dunque, la professoressa? La colpa è degli ebrei del secolo scorso, che hanno commissionato un’opera d’arte “inidonea” che ora è stata deportata a Firenze e lì verrà gasata e Renzi ha detto che i soldi ci sono per fare questa cosa ma poi ha ritirato la manina comunque i polacchi hanno pure fermato Pacifici che dopo avere parlato in tivù cercava di scappare da Auschwitz da una finestrella ma è scattato l’allarme e sono venuti i poliziotti e lo hanno insultato ladro di merda non si sa se gli hanno detto anche ebreo di merda stavano quasi per riaprire i forni ma è intervenuto il consolato italiano e gli ha detto tranquillo è anticomunista e allora l’hanno rilasciato. Non è uno scherzo, è tutto scritto nella cronica del “Fatto”4. Cronica del nuovo millennio.

  1. “la Repubblica”, 27.1.2015, p. 28 []
  2. “Il Fatto Quotidiano”, 29.1.2015, p. 18 []
  3. “la Repubblica”, 29.1.2015, p. 26 []
  4. Pacifici “deportato” per una notte, “Il Fatto Quotidiano”, 29.1.2015, p. 18, articolo siglato con le iniziali “Al. Fer:” []

Ominicidio?

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Nuda e cruda, dalla cronaca: “CATANIA – L’ha investito con la sua auto e poi gli ha gettato dell’acido sul volto. Infine è fuggita. Autrice della violenza, avvenuta ad Acireale, una 38enne, Elena Maria Ciragolo, successivamente identificata e arrestata dalla polizia per tentativo di omicidio e lesioni personali. La vittima dell’aggressione è ricoverato nell’ospedale Cannizzaro di Catania per ustioni a una guancia e a un occhio. Gli agenti sono intervenuti a seguito di segnalazione da parte di alcuni passanti che avevano trovato, disteso sul selciato, un uomo che era stato investito da un’auto e che presentava il viso rovinato da uno spruzzo di acido”.