In questo inizio di millennio, la dialettica appare sempre più scatenata nella sarabanda delle sue inversioni. Si considerino i seguenti eventi: a Tunisi, tre ragazze del movimento internazionale delle femens, si denudano il seno davanti al Ministero della Giustizia, per protestare contro la detenzione di Amina, una giovane tunisina che le ha eroicamente precedute in quella stessa pratica; a Istanbul, turchi di ogni età, sesso e professione protestano, tra bandiere rosse tornate a garrire al vento e getti di idranti e lacrimogeni polizieschi, a difesa di un parco di seicento alberi, minacciato di distruzione per far posto ad un megacentro commerciale e ad una nuova moschea; a Francoforte, manifestanti, ai quali i pavidi media italiani non dedicano la minima attenzione, protestano davanti alla sede della BCE contro quel “pilota automatico”, evocato da Mario Draghi, che esautora i governi e rende l’economia una forza perfettamente aliena. Come direbbero i pedanti cultori dell’intelletto astratto, è la linea dei diritti che avanza, manifestandosi per “equivalenti omeomorfi” nei differenti contesti storici e geografici: diritti civili, ecologici, sociali. Ma queste “passioni” della mente sociale rischiano di imbozzolarsi nella loro soggettività se non si collegano alle profondità della struttura. La coscienza del parco a Instabul è nata quando Erdogan ha promosso l’uso massiccio delle carte di credito, e il seno nudo di Amina è il vettore del flusso di merci che preme per riversarsi nei cunicoli stretti della società tunisina. È irritante doverlo ricordare, ma la lingua dei diritti è parlata alla perfezione dal capitalismo assoluto. A modo suo, Erdogan sembra averlo capito, ma non è certo giustapponendo la moschea al centro commerciale che sfuggirà, da un lato, all’avversione del ceto medio “modernizzato” da lui stesso promosso, dall’altro, alle richieste sempre più stringenti di quel capitalismo che egli si illude di ricondurre alla ragion politica del Corano. Sono questi leader incapaci di sintesi dialettiche che rendono “invisibili” lotte come quelle dei ragazzi di Francoforte, relegate così ad una spontaneità che non turba la perfezione olimpica dell’oderna religione della merce.
Società
Una tipica alchimia
A proposito di Federico Aldovrandi, il giovane morto a Ferrara, il 25 settembre del 2005, sotto le ginocchia di poliziotti molto zelanti nel loro intento di immobilizzarlo, Antonia Sani, su “il manifesto” di oggi, scrive che quell’«azione ignominiosa» è da spiegarsi con «la mentalità di molta parte dei cittadini ferraresi, mentalità che porta automaticamente al rifiuto di ogni trasgressione. E alla maniera dura per reprimerle». Questa mentalità, non sarebbe il frutto di un fascismo perenne, ma sarebbe da ascriversi a «60 anni di amministrazioni comunali, provinciali, di sinistra (o, come in passato venivano definite, “social-comuniste”). Almeno due generazioni di ferraresi si sono formate sotto queste amministrazioni. Amministrazioni che hanno saputo coltivare nella popolazione un forte senso dell’obbedienza ai superiori e all’ordine tradizionale». La Sani poi ancora scrive: «Nell’estate del 1985 frequentavo la piscina comunale, nella quale si succedevano continui divieti proclamati al microfono; addirittura nella serata di ferragosto l’uso della piscina fu sospeso perché un ragazzo aveva toccato una ragazza nell’acqua, cosa proibita da un comunicato. È di questi giorni la risposta di un taxista al quale chiedevo di lasciarmi in un certo luogo della Stazione: “sì, se non mi fa fare qualcosa che non posso fare”». Mi sembra una puntualizzazione non da poco. Il fascismo è stato anche educazione alla legge e all’ordine, ma era soprattutto guerra di classe. L’autoritarismo degli anni della Repubblica, invece, senza distinzione tra una prima e una seconda, è il costume, anche nelle sue punte puritane, funzionale al consumo capitalistico, una società pacificata dal compromesso keynesiano, dove in ogni ceto, specie negli antichi strati subalterni, la trasgressione è occultamente sollecitata come aspirazione morale, ma spietatamente repressa quando si materializza in un qualche comportamento che, specie se proveniente dai subalterni, possa minacciare l’esistenza della norma autoritaria. Bisogna prendere atto che la “Costituzione più bella del mondo” ha coperto questo verminaio autoritario, che prima aveva le fattezze presentabili e per bene della DC e del PCI, e poi, nell’ora del degrado, ha vestito i panni truci e volgari del leghismo e del berlusconismo. Rispetto a ciò, Grillo è la vischiosità del vecchio impastata con l’urgenza del nuovo, un antiautoritarismo intransigente generato da un autoritarismo parossistico. Una tipica alchimia di una crescita di cui nessuno si è saputo fare carico.