Dopo la crisi, Keynes tale e quale?

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 Coloro che, animati dalle migliori intenzioni, propongono un ritorno a Keynes per uscire dalla crisi, omettono di porsi una domanda che pure è del tutto pertinente: perché dopo il periodo d’oro degli anni 1945-1970, in cui lo schema di Keynes “investimenti più consumi” sembrava funzionare a meraviglia, è tornata la crisi e c’è stata la reazione neoliberista? Cos’è che non ha retto in quella combinazione? E se non ha retto, perché dovremmo riaffidarci oggi a una ricetta che non ha funzionato? “Investimenti più consumi” era la traduzione economica dei vizi privati e delle pubbliche virtù, l’edonismo razionale che l’assetto capitalistico metteva a disposizione delle masse. Ma la borghesia ha avuto una grande paura quando è salita la richiesta che l’immaginazione andasse al potere. Lì ha capito che stava allevando i suoi becchini, che non erano però le avanguardie proletarie ma i propri figli, i figli di una classe media sempre più sterminata, che inseguivano il ciclo ricorsivo e illimitato del desiderio cui li spingeva una norma assunta esteriormente. Per un processo endogeno, la “società”, cioè la società borghese, si stava dissolvendo. Nel frattempo, però, le avanguardie operaie si erano incagliate in uno schema speculare e opposto, “investimenti senza consumi”, uno spaventoso universo del Dovere produttivo cui sfuggivano facendo finta di applicarsi ad un lavoro che odiavano. Nell’assenza di una risposta, dunque, che nel 1989 divenne addirittura bancarotta, la borghesia giocò d’anticipo, e poi, dal 1990 in poi, batté i pugni sul tavolo contro i propri figli degeneri ma, più in generale, contro tutti coloro che erano rimasti “senza”, e su cui adesso si estendeva il suo dominio. Così venne l’inverno neoliberista, dove il consumo bisogna guadagnarselo con il sudore della fronte. Una doppia condanna, il lavoro e il consumo, che è come dire “muori, desiderando”. Ed è così che la classe media sta deperendo, è l’unico modo per il capitalismo di salvare la propria essenza, il feticcio della norma e la deiezione delle pulsioni. Keynes, dunque, era un palliativo rispetto a questo assetto, ed è per questo che i bravi borghesi, con acuto senso della sopravvivenza, inorridiscono al pensiero che il suo schema possa tornare in auge. Essi invece sanno bene che ormai l’unico modo di sopravvivere è la dittatura del Dovere, “abituarsi ad un nuovo stile di vita povero”, come ha detto in faccia l’amministratore delegato Marchionne ai rappresentanti sindacali della sua azienda. Come si può pensare, dunque, di tornare a Keynes, come se nulla fosse? Si può ragionevolmente credere che la storia è un susseguirsi di cicli del piacere e del dovere? Questo è un naturalismo che il capitalismo non farà passare, perché ne va della sua sopravvivenza. In realtà, il capitalismo è spontaneamente storicista, perché sa che la propria esistenza consiste in quella scissione tra norma e pulsioni. Non ci sono palingenesi, non c’è l’araba fenice che risorge dalle sue ceneri, se la storia va avanti, il capitalismo sarà spazzato via. L’inverno neoliberista, dunque, nel suo stridore, prelude a una svolta radicale. Ma cosa possiamo, se non sapere, almeno intuire di ciò che verrà? Che ne sarà del desiderio finalmente tratto dalla deiezione cui la scissione l’aveva relegato a fronte della norma ieratica? Esistono avanguardie in grado di imprimere una presa di coscienza a questo processo che preme dolorosamente sulla scorza screpolata del presente?