Dal fronte mediorientale, altre danze della dialettica. Dapprima il popolo ha spodestato il despota che da trent’anni lo opprimeva. Ma le forze per quest’impresa non vennero solo dai morsi della fame, come opinavano i soliti materialisti della “base economica”, o dalle magie della rete, come declamavano i dinoccolati semiotici postmoderni, ma anche e forse principalmente dall’energia accumulata in ottant’anni di opposizione dai Fratelli musulmani. Fu un bel vedere, allora, insediarsi un presidente della Fratellanza, dal nome Morsi, ma non di fame, bensì di libertà. La libertà che i Fratelli portarono, però, se liberò dal giogo subalterno di una geopolitica ormai indebolita e screditata, (il bel discorso di Obama al Cairo non fu un proclama a gratis!), si rovesciò ben presto nella minaccia della possibile tirannia di una norma avvertita come troppo costrittiva rispetto ai dolci frutti che, sotto il tallone del despota, il processo economico assicurava ai pochi e faceva intravvedere ai molti. Insomma, la (maldestra) pretesa della Fratellanza, non tanto e non solo di imporre barbe e chador, ma di irreggimentare lo “sfrenato movimento” dei locali animal spirits, si rivelò impopolare, e come un automata delle forze produttive l’esercito tornò allora a dare le carte. Giù Morsi, e di nuovo parola al popolo. Adesso gli egiziani sono, se non all’ultimo, certo di fronte al bivio decisivo: dare corso alla smisuratezza crematistica che, nuova subalternità, inserisca il paese nell’attuale equilibrio mondiale di capitalismo assoluto, (el Baradei è lì pronto a rendere i suoi servigi), oppure scegliere la misura della comunità, che metta la produzione al servizio di una effettiva autonomia politica. Che Allah li illumini.