Se ci si applica con diligenza, è possibile far rientrare la “stagnazione secolare”, cioè la mancanza di “crescita” di cui si discetta nei vari talk show, negli schemi marxiani della caduta tendenziale del saggio di profitto, ossia quella tendenza insita nel capitalismo a erodere con i suoi stessi meccanismi le condizioni di riproduzione ed accrescimento del capitale. Vale la pena sottolineare che da tale tendenza Marx non pretese di trarre alcuna profezia circa un crollo inevitabile del capitalismo, tanto è vero che da onesto scienziato evidenziò i molteplici fattori che la contrastano. Ciò ricordato, e una volta tradotta la “stagnazione secolare” nei termini della caduta tendenziale del saggio di profitto, bisogna poi vedere come queste forze strutturali si riflettono, giorno per giorno, nel teatro sovrastrutturale della politica. E qui non c’è niente di lineare, anzi la sovrastruttura, come una camera oscura, si diverte a capovolgere la realtà. Prendiamo il fattore della sovrappopolazione relativa, cioè la presenza di un esercito di riserva di manodopera industriale attraverso il quale vengono calmierati i salari, permettendo al capitale di estrarre un maggior pluslavoro, e quindi un più elevato plusvalore. Ebbene, a limitarci alla sola Unione Europea, tale esercito si è manifestato in questi ultimi decenni attraverso la delocalizzazione, in maggior misura, e l’immigrazione, in misura minore. Ora, chi si è opposto all’azione di tale fattore in ambedue le sue forme, forse la sinistra, erede del movimento operaio del XX secolo? Manco per niente. Per restare all’Italia di questi ultimi anni, campione di tale opposizione è stato ed è Matteo Salvini e la sua Lega, con la loro xenofobia e con la loro, però appena accennata, predicazione anti-delocalizzatrice. E fuori dall’Italia, campioni anti-capitalistici sono stati, di volta in volta, la francese Marine Le Pen, l’inglese Farage, l’ungherese Orbàn, alcune marionette austriache e, da ultimo, ma con un forte tasso etilico, ancora l’inglese Johnson, con la sua Brexit scapigliata. È la destra, la nuova destra estrema che, almeno su questo punto, si oppone al capitalismo. Solo su questo punto? Prendiamo il commercio estero. Secondo Marx, il commercio estero per varie ragioni è un efficace fattore di contrasto della caduta tendenziale del saggio di profitto: si accrescono le economie di scala, primeggiano le merci tecnologicamente più avanzate, aumentano le opportunità di profitto con gli investimenti esteri di capitali. Insomma, il bengodi della globalizzazione. Anche qui, chi si è opposto a questo fattore di contrasto, forse la sinistra, erede del movimento operaio del XX secolo? Macché, essa non solo non si è opposta ma, teorizzando illusorie “terze vie”, è divenuta una delle sue maggiori sostenitrici. Chi invece si è opposto e si oppone, e lo si vede con la “scandalosa” riapparizione dei dazi, è Donald Trump, il plutocrate Donald Trump, il cui antagonista è il “comunista” Xi Jinping, messosi alla testa di una neo-globalizzazione di stampo cinese. Certo, la deglobalizzazione di Trump non mira certo alla ricostruzione dei legami comunitari di una quieta economia del borgo, come vorrebbero i fautori della “decrescita”, ma punta solo ad ingrassare le oligarchie di casa propria, pronte a sfrenarsi di nuovo nel proscenio mondiale, quando la guerra (per ora solo) commerciale avrà decretato vincitori e vinti. E lo stesso si può dire di Salvini, Orbàn, Le Pen, e compagnia, quando evocano il suolo, il sangue, la patria, e la grandezza perduta della nazione che, rotti i vincoli globalistici, saprà cavarsela da sola. Il loro anti-capitalismo è in effetti l’anti-capitalismo di chi, constatando che la globalizzazione non serve a trarre il capitalismo dalla sua “stagnazione secolare”, ma anzi penalizza gli insediamenti storici di questo modo di produzione, si oppone alla caduta del saggio di profitto azionando le leve opposte, senza accorgersi che di lì a poco la tendenza tornerà a ripresentarsi sotto forma di più alti prezzi, maggiori costi finanziari, maggiore conflittualità sociale. Il capitalismo copre così l’ampio spettro della pace e della guerra, della vita e della morte, dell’essere e del divenire, un ciclo che ha però sempre il suo punto di caduta psicotico nell’istinto suicida della caduta del saggio di profitto, cui sfugge con l’illusione di una ricorrente accumulazione originaria, perseguita ora sfrenandosi, ora ritraendosi. Non un divenire, dunque, ma una coazione a ripetere, in cui il lavoro, l’operaio, la sinistra, sono intrappolati, perché il loro fiorire, che sarebbe il fiorire di un nuovo genere umano, richiederebbe la soppressione di quel falso divenire. E l’immensità del compito, cui pure una precedente generazione con molti gravi errori si dedicò, è l’unica attenuante di un movimento politico, affollato oggi di boy scout e chierichetti, che rendono ancora più arduo quel compito che la storia gli ha assegnato.