I nuvoloni si addensano sul governo di Giorgia Meloni, la cui bravura di attrice un po’ trasformista e un po’ smargiassa non basta più a compensare la pochezza di una compagine di sconosciuti rimasti tali anche dopo due anni di governo e che riescono a farsi notare solo quando mischiano maldestramente gli affari di cuore con quelli di governo. E anche l’economia, che pure ormai da molti anni non dipende più dalle scelte dell’esecutivo, la sta tradendo. Lei si sbraccia a dimostrare che l’occupazione non è mai stata così alta come sotto il suo governo, ma nel frattempo la grande industria sta finendo di squagliarsi e la piccola chiede ai privati, cioè ai cittadini risparmiatori, di mettere i gruzzoli a disposizione dei loro traffici sempre più in affanno su un mercato mondiale in cui innovazione tecnologica e compressione salariale la fanno da padroni. D’altra parte, con la tempesta che si avvicina, l’opposizione è in pieno caos. L’accrocchio dei 5Stelle tra una baruffa e l’altra fra il pietoso Grillo e l’azzimato Conte sale e scende da percentuali elettorali sempre più magre, i sinistrorsi post-vendoliani dopo che la Salis gli ha trasfuso un po’ di sangue fresco hanno preso una tale paura di apparire dei rossi estremisti che quasi sono lì, lì per ripudiarla, mentre il PD della Schlein e dei suoi collaboratori non riesce proprio a entrare in partita. Questi poveri ragazzi, cresciuti a musica, fumetti e qualche libro letto di fretta tra una sessione e l’altra di videogiochi, hanno tentato con tanta buona volontà di rilanciare i temi “sociali”, ma non riescono proprio a capire che non bastano le dichiarazioni a giornali e televisioni, ma occorrono quella volontà e quello spirito di sacrificio con cui riscoprire l’abc del partito di sinistra, cioè per dirla semplice l’intreccio di piazza e parlamento, certo non per fare un generico casino à la Sorel (stiamo assistendo anche a questo, alla ristampa delle Riflessioni sulla violenza!) ma per portare avanti una lotta di classe dura quanto quella che ormai da decenni conducono vincendola i capitalisti. Ma come non giustificarli se chi si richiama al marxismo proclama che il comunismo non è un orizzonte ma un punto di vista e sostiene che dopo il socialismo e il comunismo sono oggi il femminismo e l’ecofemminismo lo “spettro” che si aggira nel mondo globalizzato? E così Mattarella, che non sta certo lì a rimirar le stelle, ha nominato Marina Berlusconi Cavaliera della Repubblica. Una nomina che richiama quella di Mario Monti a senatore a vita da parte di Giorgio Napolitano, meno squillante e dirompente, certo, com’è nella natura felpata del personaggio, giocata non nell’imminenza del disastro ma più sul lungo periodo, il cui significato però è inequivocabile: se i destri cripto, para, semi-fascisti sono una banda di dilettanti, se i sinistri pre e post ristagnano nel loro infantilismo, se il centro che si propone da Calenda a Renzi a Tajani è il nulla del nulla, allora è meglio approntare sin da ora con Marina la soluzione del rebus. E questa volta non ci sarà da gridare al pericolo del cavaliere nero, dei capitali mafiosi e contro l’indecenza delle donnine del bunga bunga. Tutto lavato e risciacquato nella meglio figura dell’imprenditoria del Nord che, fresca di nomina, all’uscita dal Quirinale, arrotando le vibranti alveolari offertele dalla base lombarda del suo italiano regionale, ha fatto intendere di gradire molto l’eredità del suo papà, cioè la nomina più o meno prossima a Presidentessa del Consiglio.