Nel giorno dell’insediamento del governo Lega-M5S vale la pena leggeere la pagina di un grande storico delle idee dedicata al populismo. Ognuno può trovarci le analogie e le differenze che vuole con quanto accade ai nostri giorni.
tratto da N. Merker, Filosofie del populismo, Roma-Bari, Laterza, 2009, pp. 171-173
Una costante del populismo è il Capo carismatico che afferma di rappresentare il Popolo perché egli sa che cosa, seppur massa incolta, esso profondamente vuole: sicché egli è l’unico che per proprio intuito guida quel popolo agli alti Destini a esso connaturati. Tale rapporto tra Capo e Popolo è stato chiamato cesarismo e bonapartismo, termini nati entrambi nella Francia dell’Ottocento in riferimento al regime di Luigi Bonaparte che, approfittando del passato carisma dello zio Napoleone I, si proclamò presidente della repubblica con il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, e un anno dopo “imperatore dei francesi” con il nome di Napoleone III, facendo sancire entrambe le cariche da un plebiscito pilotato. Marx analizzò quell’ascesa in un noto saggio del 1852, Il diciotto brumaio di Luigi Bonaparte. Descrisse Luigi Bonaparte per quel che era, un «personaggio mediocre e grottesco» al quale le circostanze della storia avevano permesso «di far la parte dell’eroe»1. Liberalismo e parlamentarismo sono la bestia nera del bonapartismo che li attacca da destra e li taccia di “socialismo”. «Ogni rivendicazione della più semplice riforma finanziaria borghese, del liberalismo più ordinario, del repubblicanesimo più formale, della democrazia più volgare, viene a un tempo colpita come “attentato contro la società” e bollata come “socialismo”»2. L’antiparlamentarismo si appellò «al popolo contro le assemblee parlamentari», mobilitò «contro l’Assemblea nazionale, espressione costituzionalmente organizzata del popolo, le masse del popolo inorganizzato»3. Strumentalizzare nei plebisciti masse arretrate, favorire la Chiesa cattolica, ampliare burocrazia ed esercito per creare un ceto di sostenitori del regime, fare concessioni a gruppi politici se questi hanno un certo rilievo (ma essendo contrastanti i loro interessi, ne veniva anche endemica instabilità del regime, il quale doveva compensarla esibendosi in una azione estera e coloniale da grande potenza): furono queste le linee della politica di Luigi Bonaparte. Egli, demagogicamente, «vorrebbe apparire come il patriarcale benefattore di tutte le classi», trasformare «tutta la proprietà, tutto il lavoro della Francia, in un’obbligazione personale verso di sé»4. Sicché della sua corte e tribù si può unicamente dire che essa, «in nome dell’ordine, crea l’anarchia, spogliando in pari tempo la macchina dello Stato della sua aureola, profanandola, rendendola ripugnante e ridicola»5. Per un verso il demagogo blasonato «concepisce la vita storica dei popoli, le loro azioni capitali e di Stato come [ … ] una mascherata in cui i grandi costumi, le grandi parole e i grandi gesti non servono ad altro che a coprire le furfanterie più meschine». Per un altro verso pretende di «rappresentare, in maschera napoleonica, il vero Napoleone», e si trasforma allora «in un pagliaccio serio, che non prende più la storia per una commedia, ma la propria commedia per storia universale»6. Nello stesso anno del pamphlet di Marx il libro di Victor Hugo Napoleone il piccolo coniò fin dal titolo l’irrispettoso nomignolo che, sommando livello politico e statura fisica dell’autocrate, correrà per l’Europa. A metà dell’Ottocento né Marx né Hugo potevano conoscere il termine “populismo” che entrerà nel lessico politico solo alla fine di quel secolo, negli Stati Uniti. Eppure, descrivendo il bonapartismo, sia Marx che Hugo avevano già tracciato una fenomenologia del populismo, e il loro ritratto del demagogo si attaglierebbe pure a populisti odierni di casa nostra e di case vicine. In quella fenomenologia dominano antiliberalismo e antiparlamentarismo (ne erano emblema i plebisciti come strumento di consultazione del “popolo”, oggi il demagogo ricorre ai “sondaggi”); l’idea dello Stato come concertazione di interessi è sostituita dall’onnipresenza anarchica di interessi settoriali e localistici il cui arbitraggio spetta al Capo carismatico che camuffa il clientelismo con solenni richiami a una sua propria “missione” di progresso e salvezza. Infine, c’è l’inevitabile immagine schizofrenica che il Capo disegna di se stesso: di essere cioè, in un mondo di furfanti che coprono con gesti magniloquenti le loro mascalzonate, l’unico che con le proprie grandi parole e gesta rappresenta invece realmente la “storia universale”.