Neoborbonismo, un altro errore di nanismo politico?

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Sta suscitando un vespaio la giornata della memoria delle vittime meridionali dell’unificazione italiana, decretata lo scorso luglio dal Consiglio regionale pugliese che, senza voler considerare i fermenti e le iniziative abortite degli anni scorsi, si pensi solo all’MPA di Raffaele Lombardo, in Sicilia, corona analoghi orientamenti variamente espressisi in altre regioni meridionali. Si contano già reazioni di organismi culturali, vedi le proteste della Società Italiana per lo Studio della Storia contemporanea, per l’esclusione di ogni istituzione formativa e di ricerca nel varo dell’iniziativa, e il comunicato della International Gramsci Society Italia, volto a rintuzzare gli usi strumentali delle critiche di Gramsci al processo risorgimentale, nonché gli articoli dei grandi giornali d’opinione, la Repubblica del 5 agosto 2017 con una grintosa presa di posizione storico-politica dello storico Guido Crainz, e il Corriere della sera del giorno successivo con l’opinione fieramente contraria dell’editore meridionale Alessandro Laterza. Che il neoborbonismo più o meno dichiarato da tempo montante sia equivoco e sinora non molto ricco ed elaborato culturalmente, è cosa certa, ma resta aperta la questione a chi appartengano quei combattenti che sino all’ultimo difesero la fortezza di Gaeta, e in generale tutti i caduti dell’altra parte: solo ai Borboni, che in tutto questo tempo non hanno fatto niente di significativo per rivendicarne la memoria, o anche a tutti gli italiani? Discuterne non sembra ozioso, perché in questo momento di forte crisi dell’unità nazionale, di cui il neoborbonismo è un sintomo, potrebbero venir fuori elementi di chiarificazione utili come popolo a conoscersi meglio. Ad esempio, si potrebbe evidenziare che il Risorgimento fu anche lo scontro tra due visioni differenti del capitalismo, se a questo termine si attribuisce il senso non solo di un modo di produzione, ma anche di un modo di vita, lo scontro cioè tra un “capitalismo industriale nazionale”, di cui si fecero interpreti i Savoia, e un “capitalismo paternalistico di Stato” di cui nel regno borbonico i poli siderurgici di Mongiana e Pietrarsa erano embrioni ben avviati, con i loro operai trattati come figli di un precoce Welfare, a fronte ovviamente dei carusi siciliani che nelle miniere dell’isola morivano senza nemmeno essere censiti. Che questo capitalismo fosse destinato a perdere, e con esso tutta la forma di vita “agraria” ad esso legata, caratterizzata da una dinamica evolutiva assai lenta, per altro congelata dal ben noto “patto” risorgimentale tra possidenti del Sud e industriali dal Nord, è un dato storico assodato, dal momento che tale capitalismo non era in linea con gli indirizzi nazionalistici europei, di cui invece Cavour comprese appieno la portata. Da questo punto di vista, ciò che gli odierni neoborbonici non comprendono è che lo Stato del Sud perse non certo perché i piemontesi erano dei nazisti ante litteram, ma perché, pur con tutti i suoi bilanci a posto e le finanze floride, era un nano politico. Ciò non toglie che fosse una realtà economica, sociale e culturale con una sua secolare peculiarità, il cui tono dominante certamente era divenuto via via la “miseria”, ciò che lo rendeva inviso anche a chi, ricco o povero che fosse, vi era immerso, si rilegga Il Gattopardo, e che spiega il facile “tradimento” di cui fu oggetto, ma la cui sommaria soppressione, ad opera anche di rapaci carpetbaggers, vedi sempre le emblematiche vicende di Mongiana e Pietrarsa, non giovò alla stessa costruzione unitaria nazionale, rendendola astratta e precaria non solo per le fratture verticali tra dirigenti e diretti, ma anche per le fratture orizzontali che, nell’interpretazione del capitale, il nuovo signore della vita moderna, come lo chiamava Sturzo, si manifestarono fra le differenti sezioni delle classi dominati delle varie realtà statuali coinvolte nel processo risorgimentale. Sotto l’egida dell’idea di nazione, il Risorgimento fu dunque uno scontro intercapitalistico, che prese la forma di un’invasione, una guerra civile, che vide meridionali combattere contro meridionali, e una lotta di classe, il cui episodio più noto furono i fatti di Bronte.

Oggi che il posto dell’idea di nazione è preso dall’idea di Europa, il neoborbonismo è l’ideologia reattiva delle borghesie meridionali arroccatesi nelle istituzioni regionali. E la giornata della memoria delle vittime dell’unificazione nazionale è la costruzione di una mitologia, la cui base fattuale, i morti dell’invasione e della guerra civile, va però ricondotta alla verità storica, la sola che può premunire da nuovi errori. In questo senso, piacerebbe che i Consigli di tali istituzioni si pronunciassero, e ciò vale in modo particolare per la Puglia, sul lavoro neoschiavile che alimenta il modesto ma non disprezzabile benessere dei loro territori. Potrebbe venirne fuori una presa di coscienza sulle dinamiche capitalistiche contemporanee, dall’immigrazione ai rapporti con la tecnofinanza di Francoforte e Bruxelles, che potrebbe fornire contenuti propri con cui riempire l’idea di Europa. Il silenzio dei Borboni sull’idea di nazione fu il peccato ideologico che minò il loro regno. Interloquire oggi sull’idea di Europa, magari facendo propria la prospettiva di Rossi, Spinelli e Colorni, che nel loro Manifesto delineavano una dittatura federale non capitalistica, potrebbe essere l’ultima occasione per recuperare quanto resta di vivo di quella forma di vita “tradizionale” di cui oggi si vogliono onorare i caduti.