Marxismo e transizione

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Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia1, pregevole come tutti i suoi scritti, Lukács, nella foga di mostrare come Stalin non solo manipolasse il marxismo allo scopo di giustificare i suoi metodi di governo ma anche tacitasse il dibattito con le sue minacce poliziesche, si lancia in una critica della concezione della legge del valore, avanzata da Stalin nella sua opera della vecchiaia I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), che sbocca alla fine in un curioso ribaltamento di posizioni. Nel suo scritto, Stalin, quali che fossero le sue finalità politiche che qui non discuteremo, sostiene l’idea che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, scomparsa la quale, spariranno sia il valore con le sue forme, che la legge del valore. È una veduta che forse in maniera troppo rozza e tranchant traduce il modo più indiretto e sfumato con cui Marx sostiene la stessa idea nel Capitale. Lukács invece sostiene che Stalin incorra qui in una “papera”2 e spiega per più pagine, riferendosi ad un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo, mentre invece Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di spiegare a chi è mentalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in realtà funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori3. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente infatti che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina questa distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno sofisticata teoricamente, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che una costrizione, la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo in costruzione a contribuire al lavoro come quantità sociale astratta, diventi un’auto-costrizione liberante, per giunta nemmeno operata autonomamente dall’individuo, ma effetto dello sviluppo delle forze produttive. Lukács, invece, con un kantismo implicito, il cui fulcro non è più la persona ma la specie che nei suoi avanzamenti produttivi impone alla persona una paradossale “libera necessità”, arriva a sostenere di fatto una tesi finalistica iperbolica poiché, opponendo la costante diminuzione tendenziale del lavoro socialmente necessario per la riproduzione della vita alla crescita tendenzialmente altrettanto costante del pluslavoro, e rinviando a un nebuloso domani in cui tale pluslavoro «può anche servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità»4, finisce per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive determinato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Ora, Lukács è pensatore troppo sagace per essere sospettato di essere incorso lui in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo apriva al ruolo dell’opinione pubblica e del dibattito nel processo di democratizzazione delle allora società socialiste sovietiche, egli volesse consolidare la base economica entro cui tale processo doveva svolgersi, il cui finalismo dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana doveva essere stimolato da un rinnovato ruolo guida del partito e dello Stato. Se si pone mente a tutto ciò, si vede che la confutazione all’incontrario di Stalin da parte di Lukács non è affatto un curioso capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma riverbera ancora oggi, illuminandolo, sullo stato di cose presenti. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità?

Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai dolori dell’Occidente, Lukács più volte richiamandosi a Lenin fa riferimento all’abitudine quale categoria sociologica generale. Lenin concepiva il comunismo come lo stato di cose morali in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Lukács accetta questa concezione ma al tempo stesso, con il suo tipico modo esegetico di argomentare, sottolinea come Lenin avesse in mente qualcosa di più di una semplice generalità sociologica astratta e pensasse invece a una dialettica dell’abitudine per la quale le istituzioni dello Stato mirassero ad abituare gli uomini a quei comportamenti spontanei ma per tanto tempo rimasti solo puramente verbali. Ora, si chiede Lukács, qual è nella società capitalistica la dialettica dell’abitudine? La dialettica dell’abitudine è quella di consolidare, attraverso istituzioni quali ad esempio il diritto, l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite dell’esistenza e della prassi proprie. Perché tale egoismo economico venga superato c’è bisogno allora di qualcosa che nella realtà sociale non sorge spontaneamente ma derivi da un rivoluzionamento non solo dell’ideologia ma anche dell’essere e dell’operare materiale della vita quotidiana5. Lungo tutto il suo scritto, Lukács individua due forze capaci di operare una tale trasformazione. La prima l’abbiamo già vista ed è l’azione sistematica dello Stato e di tutte le sue istituzioni per formare negli uomini delle nuove abitudini morali. Ciò vale però nei periodi storici di “pausa”. Ci sono invece periodi di movimento in cui tale forza è costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche. Già quando Lukács abbozzava questa dialettica dell’abitudine egli stesso però denunciava l’apatia e l’indifferenza delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del secolo XX e con uno sforzo volontaristico egli allora tornava ad affidarsi al ruolo dello Stato. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi, non solo tale indifferenza, all’Est come all’Ovest, si è approfondita ma lo Stato, quello borghese rimasto in piedi, è fortemente deperito e le abitudini sono dettate sempre più dai condizionamenti del mercato. Ma è inutile prodursi in geremiadi contro tale stato di cose. Piuttosto va osservato come una forza che non è lo Stato né l’afflato rivoluzionario, ovvero il coronavirus, abbia prodotto un cambiamento di abitudini che nessuno prima poteva mai immaginare. Prima della pandemia era considerato naturale fare lunghi viaggi in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economicamente egoistico. Ma in generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale e quella “transizione” ideologica che tanti si industriavano a realizzare con dibattiti e provvedimenti normativi. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come un disco rotto ha continuato a girare, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus, sia nato a Fort Detrick o a Wuhan, è solo negazione che in questo anno abbondante di pandemia nessuno si è curato di riempire con un piano di vita alternativo. Quando si prospetta una qualche coordinazione, l’uomo egoistico leva subito le sue proteste contro la “pedagogia sociale”, così le vecchie abitudini riconquistano facilmente il terreno perduto, e resta solo la lezione che per indurre i cambiamenti di cui si avverte sempre più l’esigenza c’è bisogno di un potere la cui assolutezza sia pari alla gravità dei problemi da risolvere.

 

  1. G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987 []
  2. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92 []
  3. K. Marx, Il Capitale (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157 []
  4. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 93 []
  5. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68 []

Su due recenti ricette per l’avvenire

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Due recenti libri di critica filosofica dalle evidenti ambizioni politiche discutono di come rilanciare il fronte alternativo del lavoro nella lotta di classe attualmente in pugno al capitale.

Il primo1, da una vasta esegesi del pensiero di Gramsci, già oggetto di un precedente lavoro2, fa discendere il compito di tutelare l’interesse dei dominati da uno Stato visto come fortilizio resistenziale contro la competitività sconfinata e come ultimo baluardo del primato della potenza politica sull’economia. A tal fine, lo Stato dovrà nazionalizzare i principali mezzi della produzione, assicurare salari dignitosi e rivitalizzare i sindacati. Tutto ciò sulla base di una teorizzazione rivoluzionaria capace di tradursi gramscianamente in “senso comune”, ovvero in egemonia culturale e politica risultante da una riforma intellettuale e morale delle masse nazionali-popolari. Questa lotta dovrà basarsi sull’accettazione da parte di tali masse delle regole della democrazia parlamentare in connessione sentimentale con un nuovo gruppo intellettuale in grado di far brillare una progettualità centrata sulla deglobalizzazione dell’immaginario, la rieticizzazione della società, la risovranizzazione del mercato planetario, il riorientamento politico non atlantista, la lotta per l’emancipazione degli sfruttati per una società democratica e non classista di individui liberi.

Il secondo libro3, volto a demistificare con categorie filosofiche di matrice hegeliana teorie e pratiche sedicenti democratiche dietro cui si celerebbero le pretese imperialistiche di un Occidente dominato dalla potenza americana, all’opposto del particolarismo statuale propugnato dal libro precedente propone nelle sue conclusioni una piattaforma ideologica che, ispirata a teorici quali Gramsci e Lukács, Said e Fanon, Togliatti e Mao, possa costituire la base di una rinnovata forza interessata a promuovere un universale politicamente concreto alternativo al falso universalismo della globalizzazione. A tal fine, riprendendo distinzioni avanzate a più riprese dal pensiero rivoluzionario cinese tra un Primo, un Secondo e un Terzo mondo, si sottolineano le differenze esistenti tra gli Stati Uniti, superstiti del Primo mondo dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e l’Unione Europea esponente di un Secondo mondo oscillante tra le pretese egemoniche del Primo mondo e le politiche di accordo e di cooperazione portate avanti dal Terzo mondo. La rinnovata forza promotrice dell’universale politicamente concreto dovrebbe, allora, nel campo ben circoscritto della questione europea, mettere in atto tre procedure politiche, ovvero la lotta contro l’ideologia “eccezionalistica” del “secolo americano” per isolare l’asse USA-Israele e assegnare maggiore autonomia all’UE anche con uno sganciamento dalla NATO e dalle politiche imperialistiche americane; la lotta per un’estensione dei confini dell’UE dall’Atlantico agli Urali, sulla base di un policentrismo già di marca togliattiana in grado di integrare economie emergenti quali la Russia e la Cina per configurare un’arena internazionale multipolare e maggiormente democratica; una maggiore coordinazione infine tra le forze democratiche e anticapitaliste europee, per una lotta di classe all’interno dell’UE finalizzata a maggiori diritti sociali, dignità del lavoro, pianificazione economica volta allo sviluppo delle forze produttive del continente.

Come si vede, i due programmi, più semplice il primo, più articolato il secondo, accomunati dal rifiuto dell’egemonismo americano e dalla scelta anticapitalistica si dividono, però, circa il raggio d’azione e gli strumenti con cui porre in essere queste opzioni. Nel primo programma, le poderose operazioni di rovesciamento dei rapporti tra capitale e lavoro, dalle nazionalizzazioni alla redistribuzione della ricchezza dal profitto al salario, vengono messe a carico di uno Stato teso a restaurare la sovranità nazionale nel segno dei dominati. La domanda perciò è da dove esso trarrà questa rinnovata potenza leviatanica e con quali strumenti i ceti subalterni dovranno appropriarsi dei suoi apparati di forza e di consenso. L’unica indicazione in tal senso è che essi dovranno muoversi dentro il recinto della rappresentanza parlamentare, sullo sfondo di una riforma intellettuale e morale in grado di assicurare l’egemonia culturale con la quale operare altrettante poderose operazioni sovrastrutturali quali la deglobalizzazione dell’immaginario e la rieticizzazione della società. Ma cosa intendere per “cultura”? Sono le idee già costituite che un ceto intellettuale rivoluzionario infonde nella massa nazionale-popolare per trarla dall’oscurità in cui giace, oppure si tratta di individuare un nuovo principio educativo e le relative istituzioni che lo inverino? Nell’uno come nell’altro caso le questioni che si pongono sono assai complesse. Perché sia tale, una cultura come contenuti storicamente stabiliti impone delle scelte che la stabilizzino rispetto alle infiltrazioni migratorie e al deperimento demografico, altrettanto quanto la cultura come principio educativo la quale, inoltre, rimette in gioco i rapporti con le istituzioni educative esistenti, dalla Chiesa cattolica alla scuola ai vecchi e nuovi media, e richiede una valutazione critica dell’operato delle antiche formazioni politiche dei subalterni per non doverne ripetere gli stessi errori. Purtroppo l’autore che, come già detto, è al suo secondo libro sull’argomento, continua a non dire nulla su tali questioni, sicché il suo programma sembra risolversi in un fraseggiare che dovrebbe imporsi per la forza intrinseca delle sue formule.

Venendo al secondo programma, si individua in esso un economicismo che, ben dissimulato dal ricorso alle categorie dialettiche hegeliane, emerge chiaramente quando, trattando dei rapporti da instaurare con Russia e Cina, si privilegia il loro carattere di “economie emergenti”, come se in questi paesi non esistesse una fioritura sovrastrutturale storicamente determinata che essi stessi rivendicano. Basti pensare all’eurasiatismo che, costituendo un ingrediente ideologico essenziale benché strumentale nella complessiva visione politica di Putin, rimette in gioco il rapporto con la tradizione ortodossa grande-russa quale matrice degli autentici valori cristiani. Altrettanto si può dire del multipolarismo di cui si fa banditrice la Cina contemporanea, la cui base non è certo l’internazionalismo proletario della Cina degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, bensì un’introiezione dello spazio mondiale nell’ideologia interna dell’armonia confuciana quale condizione per prolungare all’esterno lo sviluppo nazionale delle forze produttive. Pensare che tutto ciò possa passare in secondo piano rispetto ad accordi di cooperazione economica e finanziaria significa nutrire la stessa fiducia nell’azione omogeneizzatrice dell’economia degli adepti della globalizzazione che si vuole combattere. C’è poi in questo programma una sorprendente sottovalutazione del capitale finanziario, sicché i contrasti intercapitalistici vengono calcolati in termini di basi militari disseminate in giro per il mondo, guerre intraprese attivamente, conflitti cui ci si accoda. Uno schema che serve ad attenuare le responsabilità dell’UE, raffigurandola come un’entità che nelle sue obbligate oscillazioni tra Primo e Terzo mondo può essere utile per minare l’egemonismo americano. Ma sminuire il fatto pur noto che il capitalismo da tempo sublima nei flussi finanziari il “distruttivismo” della guerra e il “produttivismo” dell’industria, impedisce di evidenziare i divergenti interessi finanziari non solo tra USA e UE ma all’interno della stessa UE, all’origine delle politiche austeritarie che deprimono il salario e perpetuano i dualismi economici. In una tale gabbia, dunque, è impensabile per un paese come l’Italia poter affrontare il divario tra Nord e Sud, questione su cui in questo programma si sorvola del tutto, e in generale l’intento di perseguire in essa tutti quegli avanzamenti del lavoro fissati nel programma appare un miraggio di cui Lenin, che nella bibliografia del libro è citato da tutte le possibili edizioni in italiano, sorriderebbe, lui che già nel 1916, per nulla in soggezione per il fatto che tra i fautori dell’idea di un’Europa unita ci fosse addirittura l’illustre Napoleone, aveva mostrato che in regime capitalistico gli Stati Uniti d’Europa sono impossibili o reazionari. In questo programma, infine, rispetto a quello precedentemente discusso, c’è una particolare insistenza sullo sviluppo delle forze produttive del continente, sorta di adesione alla stessa lettura “sviluppistica” del marxismo adottata in Cina negli ultimi trent’anni. Ma questa lettura, oltre a risultare più arretrata non solo dei fautori della decrescita ma di certe contestazioni riformistiche della dittatura del Prodotto interno lordo, comporta l’assoluta mancanza di attenzione per l’alienazione del lavoro e in generale per i fenomeni dell’alienazione sociale, la vera pietra di inciampo per il marxismo orientale che, se si esclude il caotico tentativo maoista della Rivoluzione culturale, non a caso considerata dalla dirigenza cinese da Deng Xiaoping in poi come la parte erronea dell’eredità di Mao, ha sempre eluso la dimensione ontologico-sociale dell’edificazione socialista invocando un movimento dialettico le cui scansioni però sono determinate da una dirigenza che si legittima spingendo continuamente in avanti lo sviluppo delle forze produttive. Di fronte a questa cattiva circolarità, sarebbe un ben grave arretramento per il già malconcio marxismo occidentale recedere dalle acquisizioni che, dal Marx dei Manoscritti economico-filosofici al Lukács di Storia e coscienza di classe4, lo hanno visto all’avanguardia in questo campo, e soprattutto sarebbe un drammatico offuscamento dell’unica prospettiva che può rilanciare il socialismo in Occidente e quindi nel mondo, ovvero il porre al centro del programma di una rinnovata forza politica anticapitalistica i problemi dell’ontologia sociale critica.

 

 

  1. D. Fusaro, Bentornato Gramsci, Milano, La Nave di Teseo 2021. []
  2. D. Fusaro, Antonio Gramsci. La passione di essere nel mondo, Milano, Feltrinelli 2015. []
  3. E. Alessandroni, Dittature democratiche e democrazie dittatoriali. Problemi storici e filosofici, Roma, Carocci 2021. []
  4. Di Lukács in questi ultimi anni non sono mancate traduzioni e curatele di nuovi testi, ma in modi tali che Solmi, Codino, Cases e tutti gli altri che nel secolo scorso si occuparono di lui onorevolmente si stanno ancora rivoltando furiosamente, vivi o morti che siano. Non resta che sperare in meglio per il futuro. []

Europa: Napoleone o Lenin?

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Napoleone era un europeista. Il duecentesimo della morte ha offerto l’occasione di riesumare dal Memoriale  di Sant’Elena le sue affermazioni con cui inscrive le sue gesta nel progetto di creare la nazione europea1. In Europa, egli calcolava, «si contano più di 30 milioni di Francesi, 15 di Spagnoli, 15 di Italiani, 30 di tedeschi… Di ciascuno di questi popoli io avrei voluto fare un unico grande corpo nazionale. Quali prospettive di forza, di grandezza e di prosperità ne sarebbe derivata!». Per la Francia, continuava Napoleone alternando il presente al passato, il rimpianto al progetto come solo sanno fare i Cesari cui, una volta atterrati, è concesso ancora uno scampolo di vita, «la cosa è fatta, in Spagna non è possibile, per istituire la nazione italiana io ho impiegato vent’anni, quella dei Tedeschi esige ancor più pazienza, io ho potuto soltanto semplificare la loro mostruosa complicazione». Quale lo scopo di tanto affaticarsi? Così come aveva uniti i partiti in Francia, così pure aveva preparato «la fusione dei grandi interessi dell’Europa» senza stare a preoccuparsi del malcontento delle popolazioni perché «il risultato le avrebbe di nuovo ricondotte a me». “Me”, come fu chiaro a Hegel vedendolo passare a cavallo per le vie di Jena, si riferisce a Napoleone, allo spirito del mondo e, possiamo aggiungere prosaicamente, al dante causa di entrambi, quel capitale che reclama la sua dittatura ma assicura il risultato. Infatti, se quel “Me” lo avessero lasciato fare, già a quel tempo «l’Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune». È stato solo un ritardo. Sono passate alcune generazioni, francesi, spagnoli, italiani, tedeschi, ognuno si è attardato nella propria complicazione più o meno mostruosa, ma alla fine i giovani, cui Napoleone affidava il compito di vendicare l’oltraggio dell’esilio a Sant’Elena, hanno capito e Schengen è venuta: «tale unione dovrà venire un giorno o l’altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato, e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la lega dei popoli». Di questo equilibrio che porta l’impronta del Me a cavallo, di questa Unione Europea che garantisce il risultato, non tutto però è ancora perfetto. A distanza di duecento anni Napoleone insiste: «abbiamo bisogno di una legge europea, di una Corte di Cassazione Europea, di un sistema monetario unico, di pesi e di misure uguali, abbiamo bisogno  delle stesse leggi per tutta Europa. Voglio fare di tutti i popoli europei un unico popolo… Ecco l’unica soluzione che mi piace». Pesi, misure, sistema monetario unico, ci si è portati avanti, per il resto si sta provvedendo seguendo la regola empirica che il Còrso così enunciava: «quando si acquista pratica degli affari, si dispregiano le teorie e ci si vale di esse come i geometri, non per procedere in avanti per linea retta, bensì soltanto per mantenere la propria direzione».

Di questa Europa di geometri ambiziosi di marchiare la propria direzione nella carne del mondo, cento anni dopo Lenin decifrò la vera natura senza lasciarsi incantare dalla sirena della patria comune, evidenziando che «gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari»2. Impossibili perché l’accordo risultante dalla napoleonica lega dei popoli non poteva essere altro che una spartizione, e in regime capitalistico non è possibile altro principio di spartizione che la forza. Reazionari perché il loro scopo sarebbe stato all’interno di schiacciare il socialismo, all’esterno di frenare lo sviluppo più rapido degli Stati allora emergenti, l’America e il Giappone. L’impossibilità degli Stati Uniti d’Europa è stata provata dalle terribili prove di forza delle due guerre mondiali. Il loro carattere reazionario si è rivelato senza neanche bisogno di unirsi formalmente, mandando avanti come mazzieri fascismo e nazismo per sterminare il socialismo e opporsi alle nuove e più dinamiche realtà capitalistiche emergenti. Eppure, si dirà, dopo quei cataclismi attorno all’euro una certa unione è nata – anche se c’è stato l’abbandono degli inglesi che, come si sarà notato, Napoleone neanche considera fra i popoli europei da riformare – e con tale forma di unione sembrano cessate tanto le guerre quanto le dittature e l’Europa non sembra più una minaccia per il maggior dinamismo dei nuovi mondi capitalistici. Aveva dunque ragione Napoleone e torto Lenin? Gli Stati Uniti d’Europa in regime capitalistico sono non solo possibili ma anche democratici e pacifisti? Se si allarga la visuale dei due punti di vista, si vede che le questioni in gioco sono più complicate di queste domande. Al tempo di Napoleone l’Europa era il mondo e gli Stati Uniti d’America si scorgevano appena all’orizzonte, ma già Napoleone invocava «l’applicazione del Congresso Americano per la grande famiglia europea». Per Lenin, invece, l’orizzonte sono gli Stati Uniti del mondo come forma statale ultima e provvisoria che la completa vittoria del comunismo avrebbe fatto sparire. Due sogni planetari simili ma opposti, l’aspirazione visionaria ad un’unificazione capitalistica mondiale che comincia a prendere coscienza di se stessa e la lotta per un’unione di libere nazioni senza Stato che si divincola dalle legalità dello sviluppo economico. In entrambi, l’Europa è il punto su cui fare leva che però sparirà nel risultato finale. L’unificazione capitalistica mondiale è andata molto avanti e con la globalizzazione sembra oggi trionfare anche se qui e là si aprono le crepe sovraniste che sembrano preludere a una ricaduta all’indietro. L’unione di libere nazioni senza più il carico dello Stato sembra invece tramontata con la fine del cosiddetto socialismo reale. Lenin, però, come del resto Napoleone, non si abbandonava alla realtà onirica ma i sogni erano visioni modellate sui dati empirici. E rispetto a Napoleone egli aveva il vantaggio di poter osservare un organismo economico che riteneva di poter forzare proprio perché più sviluppato e, grazie anche alle lotte operaie, meglio conosciuto teoricamente nei suoi punti di forza e debolezza. Così, partendo dal principio che l’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo, prevedeva che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico preso separatamente, ma nel quadro generale di una rivoluzione socialista considerata non come un atto singolo, bensì come un lungo periodo di tempestose scosse politiche ed economiche, della più acuta lotta di classe, di guerra civile, di rivoluzioni e di controrivoluzioni. Se Lenin fosse vivo, dunque, giudicherebbe che la partita è aperta e predisporrebbe al meglio le forze per tornare a battere il suo Napoleone, il quale da geometra provetto starebbe ben attento a mantenere la propria direzione senza farsi intrappolare da false teorie che assicurano la più schiacciante vittoria nella lotta di classe. Gli austeritari e i flexicuristi che governano ormai non più solo l’Europa ma l’intero mondo capitalistico e, dall’altra sponda, coloro che dubitano della rivoluzione e gettano nel fango le sue insegne, farebbero bene ognuno per proprio conto a ripassarsi queste lezioni per riportare lo scontro a livello della storia che non gestisce ma crea la vita dell’essere sociale.

 

  1. Le citazioni del Memoriale cui si fa riferimento nel testo sono reperibili online. []
  2. Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa (1915), articolo reperibile online. []

Cent’anni di PCI

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Quando il PCI nacque, cent’anni di solitudine fa, aveva già al suo interno le due tendenze che ne hanno segnato il corso ovvero l’astrattismo di Bordiga e il concretismo di Gramsci, fra cui oscillavano le diverse individualità di un composito gruppo dirigente da cui nel lungo periodo emergerà Togliatti. Astrattismo e concretismo sono termini dello stesso Bordiga, grande dirigente politico e grande teorico marxista1. L’astrattismo comportava un partito che, ancorato in una visione radicalmente immanentistica del cosmo, dell’uomo e della storia, aveva come scopo di realizzare il fine di una rivoluzione che trasferisse il potere, non nella fabbrica, ma nello Stato, dai proprietari dei mezzi di produzione agli autentici lavoratori. Questo comportava un’azione armata («assalto a Questure e Prefetture») il cui carattere non rivoltoso ma rivoluzionario sarebbe dovuto derivare dal contesto mondiale, come era accaduto in Russia. Corollario di tale astrattismo era il rifiuto totale del parlamentarismo, «potenza storica borghese» la cui accettazione comportava la deviazione opportunistica dal fine supremo della rivoluzione. Con tale visione, il concretismo di Gramsci condivideva il radicale immanentismo, nonché il fine rivoluzionario di un mutamento di potere nella struttura, da conseguirsi però nella fabbrica e di riflesso nella società civile, attraverso un partito i cui intellettuali organici avrebbero dovuto fluidificare il momento di forza insito nel rovesciamento dei rapporti di produzione. La prospettiva di Bordiga di un’armata politica che si coordina con quella degli altri fronti nazionali verso il fine mondiale della rivoluzione sfiorì quasi subito, e intervenne il periodo dell’espulsione dal partito, del confino ad opera del fascismo, del ritiro a vita privata. A liberazione avvenuta, il suo astrattismo, benché a volte apparisse un talmud della rivoluzione, diede il meglio di sé nell’analisi teorica. E non ci si riferisce qui tanto ai suoi aspetti polemici, dall’analisi del carattere capitalistico dell’URSS alla denuncia dell’equivoco dell’antifascismo, ma alla delineazione di un marxismo anti-produttivistico quale critica di un capitalismo tanto più popolare e affluente, quanto più oligarchico e immiserente. Ma, ripetiamolo, ciò non era più azione politica, se non nella forma di una critica “metafisica” della realtà sociale capitalistica, di cui solo oggi si può cominciare ad apprezzare l’attualità. Più insidiosa era invece l’azione di Gramsci, il cui concretismo rimandava all’infinito lo scontro armato nel frattempo che, combinando azione strutturale e sovrastrutturale, aveva l’ambizione di trasformare l’intero organismo sociale. Era una guerra di movimento travestita da guerra di trincea. Egli andava dunque fermato, imputandogli proprio ciò che rifiutava, ovvero l’azione bruta volta a sovvertire violentemente i poteri dello Stato. L’ultimo suo atto politico è l’indicazione dell’Assemblea costituente, in linea con la sua trasfigurazione della forza militare in capacità di assimilazione della controparte per il conseguimento del proprio fine rivoluzionario. La sua morte e i cambiamenti intervenuti con la Seconda guerra mondiale determinano il secondo tempo di questo concretismo, alla cui testa si pone Togliatti. Ma i cambiamenti che egli apporta sono decisivi. Anzitutto viene depotenziata la concezione radicalmente immanentistica con cui salvaguardare la purezza del fine rivoluzionario. In secondo luogo, il parlamentarismo da strumento tattico diviene il terreno d’elezione in cui produrre il cambiamento di potere nella struttura. In terzo luogo, il partito diviene una massa organizzata la cui azione rivoluzionaria si scarica però nel gioco elettorale. Di qui il sorgere di formule politiche quali l’attuazione del contenuto “avanzato” della Costituzione, la democrazia progressiva, le riforme di struttura, il dialogo con i cattolici democratici. L’illusione è di poter erodere progressivamente la controparte ma di fatto ci si impantana in un immobilismo in cui è la controparte che erode progressivamente il partito. Giungiamo così agli anni Settanta, quando Berlinguer tenta in due modi di divincolarsi dalle ristrettezze del concretismo che ha ereditato. Anzitutto propone il “compromesso storico” quale rivitalizzazione delle formule politiche togliattiane. Il successo elettorale del 1976 acuisce però la contraddizione politica, poiché rende ancora più sospettosa la controparte del pericolo di essere assimilata e subordinata al fine, per altro perseguito in maniera sempre più nebulosa, del cambio di potere nella struttura. La chiusura di questa prospettiva, simboleggiata dalla torbida uccisione di Aldo Moro, induce Berlinguer a una cauta e sfumata ripresa dell’astrattismo originario, puntando sulla “diversità comunista” che, rinnovando il legame con i lavoratori (vicinanza agli operai della Fiat, referendum sulla scala mobile), ingloba fenomeni nuovi come il femminismo, l’ecologismo e, sotto le spoglie della “questione morale”, un antipartitismo che non giunge mai al rifiuto del parlamentarismo ma è utile a marcare le distanze tra il partito che comunque dà a vedere di essere ancora il vero erede della rivoluzione e gli altri partiti ormai non più borghesi ma comunque corrotti. La morte improvvisa non consente a Berlinguer di sviluppare questo “ritorno alle origini” e, abbandonata ogni ipotesi di “terza via”, prende invece il sopravvento, favorito dal crollo internazionale del movimento operaio in tutte le sue componenti, un concretismo politicistico ammantato di realismo che fa piazza pulita di ogni residuo rivoluzionario e si concentra sull’esito più scontato del parlamentarismo, ovvero la conquista del governo con cui gestire le compatibilità di un sistema fissate altrove e di cui, nella migliore delle ipotesi, ci si illude di lenire gli effetti socialmente più insostenibili. Cessato così il PCI, la sinistra è da trent’anni un edificio disabitato che rissosi eredi non riescono a spartirsi. Ma il fatto che il PCI abbia occupato in passato gli spazi maggiori di tale edificio non dà alcun titolo alle sigle succedutesi sulla sua salma, Pds, Ds, PD, di pretendere di essere la sinistra. Tali divenienze da un’essenza ormai essiccata sono invece degli ingombri che da un lato forniscono agli avversari l’alibi per confrontarsi con una sinistra che tacciano di “comunismo” quando fa loro comodo, dall’altro impediscono il riformarsi di una sinistra che riprenda il nucleo scientifico del suo programma storico, cioè la critica del valore e di tutte le categorie economiche e sociali che da esso derivano. Certo, nella situazione odierna appare titanico il compito di forgiare conseguentemente il partito come un’organizzazione che non è determinata ma determina il suo riferimento sociale, ma davvero troppo insulsa si è dimostrata l’idea di un partito permeato dalla società civile per non desiderare di andare in qualche modo nella direzione opposta di un minimo di delimitazione, anche perché sembra essere il solo modo per tradurre in pratica una scelta ideologica che, nell’incipiente disfarsi degli attuali equilibri internazionali, appare non più rinviabile, ovvero che fare tra l’irreversibile declino del decrepito mondo cristiano-capitalistico-borghese e l’incedere apparentemente inarrestabile dell’ambiguo mondo confuciano sino-asiatico. Le formulette sull’Europa sono buone per scaldarsi il cuore davanti al camino spento di casa e d’altra parte non si vedono all’orizzonte giganti in grado di caricarsi sulle spalle l’impresa di un compimento della rivoluzione in Occidente. Ma questa che prima è stata un’incerta previsione storica e poi è divenuta uno spettro da combattere con ogni mezzo appare ogni giorno che passa come la sola via per sottrarre non solo l’Occidente ma gli stessi popoli d’Oriente a lunghi decenni avvenire di una nuova e più opprimente “libera schiavitù”.

  1. http://www.fondazionebordiga.org/testi/intervista.html []

Democrazia e benessere

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Mentre continua la sfrenata concorrenza tra Pfizer, il cui vaccino anti-Covid è magnificato dai mezzi di disinformazione di massa, e Astrazeneca, il cui vaccino è denigrato forse perché, secondo il sospetto di molti, non costa abbastanza caro, lo Sputnik russo e i vaccini cinesi, per non parlare di quelli cubani in fase di avanzata sperimentazione, ridicolizzano la famelica voracità di codeste compagnie delle buone opere cui è affidato il benessere delle democrazie occidentali e del mondo intero. Benessere è il valore che, nel nuovo corso di Biden, deve legittimare la democrazia nella sua sfida alle autocrazie, il nuovo campo avverso che nella politica estera statunitense ha preso il posto dei fantasmi del passato. L’assunto di base è che il mondo ha ormai un’unica costituzione economica, il cui sviluppo ininterrotto deve essere assicurato dal gioco di cooperazione e competizione le cui redini siano tenute saldamente in mano dall’Occidente e dalla sua spina dorsale, l’America, che, dopo la sbandata trumpiana, è finalmente ritornata in forze1. Il conflitto riguarda quindi solo la sfera politica, mentre tutto il resto è fissato per sempre. Quanto sia illusoria questa tesi è dimostrato anzitutto dall’incapacità di tale costituzione economica di assicurare, nel pieno della più grande epidemia della storia moderna, non tanto il benessere ma anche solo la salute della popolazione dell’Occidente capitalistico, per non parlare di quella mondiale. La sfrenata concorrenza tra i monopoli farmaceutici cui si accennava all’inizio impedisce, infatti, l’ottimale produzione e distribuzione di farmaci e vaccini, e anzi dà luogo ad accaparramenti che evidenziano ancor più le rivalità e le divisioni interne del fronte occidentale. In secondo luogo, la forma tutta politica del conflitto è resa al momento possibile da una dittatura finanziaria mondiale necessaria alla riproduzione del capitale, la cui conseguenza è la crescita dei conflitti intercapitalistici, la polverizzazione del lavoro e la distruzione di quel ceto medio che il nuovo corso di Biden intenderebbe ricreare. Una situazione tecnicamente “fascista”, che non si tramuta come negli anni Trenta del secolo scorso in aperta dittatura politica solo perché il fascismo, sfrondato dei suoi storici addobbi simbolici, permea occultamente con la sua essenza autoritaria un gioco parlamentare asfittico e corrotto, come dimostra il caso italiano, dove nella recente crisi di governo pur di non andare alle urne si è preferita una maggioranza ancora più eterogenea della precedente, sicuro viatico di paralisi e fallimento. Il risultato di queste sottrazioni di volontà popolare, di un popolo per altro annebbiato nelle sue capacità di scelta da decenni di ottundimento del conflitto sociale, è che la democrazia si tramuta in un’anarchia plutocratica, aggravata dal fatto assai urticante per i democratici che, in determinati momenti, come la attuale pandemia, le autocrazie non solo si rivelano più efficienti nell’assicurare quanto meno la salute alle loro popolazioni, ma sono più convenienti della democrazia per le nazioni ai margini dello sviluppo capitalistico, che oggi si rivolgono a loro nella lotta contro la pandemia, e domani, chissà, anche per il modello di organizzazione sociale. Così, la legittimità della democrazia frana e le autocrazie possono proporsi al mondo come nuove e benigne potenze egemoni. Purtroppo, per il loro passato che ha ripreso il sopravvento su negazioni troppo “illuministiche”, questa nuova egemonia non potrà che realizzarsi come una “feudalizzazione” economica, poco importa che prenda il sembiante di un insieme di “mondi a parte” o di una “armonia” mondiale. Perciò, per evitare un tale “nuovo medioevo”, l’Occidente, contrariamente a ciò che ritengono i democratici alla Biden, deve tornare a parlare al mondo non restaurando un benessere già sperimentato nella forma di una ormai insostenibile vita affluente incarnata dalla sua defunta classe media, ma in nome di una critica finalmente pratica di quella struttura economica capitalistica che le autocrazie non esitano a far propria in maniera reazionaria e che imprigiona l’Occidente stesso rendendolo debole e inviso.

 

  1. Cfr. il discorso di Biden alla Conferenza di Monaco sulla sicurezza (https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2021/02/19/remarks-by-president-biden-at-the-2021-virtual-munich-security-conference/), che appare in linea con il senso delle proposte di un recente rapporto Carnegie (https://carnegieendowment.org/2020/09/23/making-u.s.-foreign-policy-work-better-for-middle-class-pub-82728). []