Vecchi e giovani. Bilancio di un anno di governo Conte

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Ricapitoliamo. A fronte di una sinistra risucchiata senza residui in un europeismo divenuto negli anni articolazione continentale dei monopoli e della finanza globale, la difesa dalle sperequazioni derivanti da una lotta di classe vinta ininterrottamente dal capitale, si è concentrata tutta nel campo della destra nella forma grottesca di una confluenza di sovranismo e populismo in cui, abbandonati a se stessi, si sono riconosciuti operai, pensionati, ceti medi declassati, ma anche il minuto capitale della piccola e media impresa, ancora legata ai processi industriali. Emblema di questa deforme lotta di classe è divenuto il governo pentaleghista, insediatosi nel maggio 2018, entro il quale però si è svolta una parallela lotta intestina, per dividersi le briciole cadute dal banchetto del grande capitale monopolistico-finanziario. Di qui, oltre alla manfrina intorno alla flat tax, il varo del reddito di cittadinanza e della quota cento, che rispondono anche a una logica territoriale, essendo il primo diretto alla platea meridionale, il secondo a quella settentrionale. Questo governo aveva fatto anche grandi proclami di bloccare le grandi opere e di risanare situazioni industriali incancrenite, nonché di uscire dall’euro e di rivedere le alleanze internazionali. A distanza di un anno, si può ora tentare un bilancio. In politica estera, ognuno è andato per la sua strada, la Lega a tentare equilibrismi tra Trump e Putin, i cinquestelle a tentare di interloquire con la Cina, oltreché ad abbozzare un’autonomia altermondialista. Da queste spinte contrapposte, per forza d’inerzia sono venuti fuori il non allineamento sul Venezuela e un dialogo più serio con la Cina, che Renzi e Gentiloni avevano derubricato a meta di gite turistiche1. C’è stato anche il tentativo dei pentastellati di connettere la questione immigratoria alle dinamiche finanziarie post-coloniali, (questione del franco francese come moneta di riferimento delle ex-colonie transalpine), ma si è rivelato velleitario tanto quanto quello della Lega di vivificare l’identità europea collegandola all’ortodossia di Santa Madre Russia con una pipeline di gasolio da cui prelevare una percentuale del quattro per cento di finanziamento elettorale. Velleità, dunque, come quella di spiegare il debito pubblico non con il peccato di prodigalità, ma con i meccanismi finanziari varati in Italia negli anni Ottanta del secolo scorso, che privarono il Tesoro del controllo sulla Banca d’Italia. Un tema su cui non si è andati al di là di uno spot televisivo, senza alcuna capacità di proseguire e imporre il discorso, contro le prevedibili reazioni furibonde degli europeisti. Ma laddove il governo ha mostrato tutta la sua artificiosità è stato sulla riforma economica. Il programma grillino era di denunciare le grandi opere, il TAV in primis, e di ripensare l’ILVA. Nel disegno originario, la Lega si sarebbe dovuta accodare. E non si capisce perché. Era chiaro come il sole, infatti, che la Lega, specie ora la Lega di Salvini, è il terminale del produttivismo nazionale, che ormai è produttivismo del Nord. Il suo sovranismo è benvenuto nella misura in cui consente alla macchina economica di scorrere senza scartamenti sui binari in cui da sempre è incardinata. E se a questo serve la cripto-secessione di Lombardia, Veneto ed Emilia, ben venga l’autonomia. I cinquestelle su questo punto hanno fatto un po’ di melina, ma TAV va avanti, e sull’ILVA si è registrata solo la battuta di Beppe Grillo, che auspicava la trasformazione dell’insediamento industriale in un Eden ambientale. Una questione seria, divenuta materia di avanspettacolo. A un anno dal suo insediamento, il bilancio di questo governo è dunque negativo, a dimostrazione che la lotta di classe non la si può combattere con i simulacri. Questi ultimi sono buoni a promuovere ammucchiate elettorali, che al momento delle scelte producono la paralisi e il ritorno in grande stile della controparte. Nonostante questo fallimento, il governo tuttavia, nel rimescolamento dei rapporti di forza al suo interno tra Lega e M5S, continua a godere di grande sostegno nei sondaggi. La spiegazione sta nel fatto che nessun nodo è stato portato in chiara luce, nessuna nuova consapevolezza ha prodotto fronti nuovi e contrapposti. Così, la massa raccoltasi attorno a Lega e M5S si specchia autoglorificandosi nel governo che non decide. Se sulla base di un pensiero nuovo il governo decidesse, mettiamo, di dare il controllo dell’ILVA agli operai che vi lavorano e alle loro famiglie che ne pagano il costo ambientale, tale massa molle e gelatinosa dovrebbe scindersi e al suo interno affrontare dei conflitti autentici. Ma i conflitti autentici fanno paura, così c’è uno spostamento su conflitti immaginari – immigrati, ong, Carola Rakete, l’attacco alla famiglia e quant’altro. Gestita da giovani rampanti, è una deriva senile di cui non si vede il fondo.

  1. A. Bradanini, Oltre la grande muraglia, Milano, Egea, 2018, pp. 200-1, 203-4, 212 []

Il progresso non è finito

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Una volta, l’operaio poteva intervenire nella produzione, apportando quelle piccole modifiche dettate dal mestiere che rendevano più efficiente il progetto iniziale. E questo è forse ancora possibile nella piccola manifattura odierna. Ma nella costruzione di un aereo a reazione, cosa può apportare l’operaio, se non limitarsi ad avvitare viti e saldare schede? Così, accade che gli aerei cadano come foglie, perché tutto è imprigionato nella presunta onniscienza del software, e ci vuole il tributo di vittime ignare per procedere, quasi malvolentieri, a correzioni cui sono autorizzate caste produttive ben felici del potere che deriva dall’esclusività delle loro pratiche. Con la robotica, questa divaricazione tra intelligenza viva e intelligenza morta, tra competenza ed esecuzione, non potrà che allargarsi, perché gli adattamenti saranno sempre più adattamenti derivanti da razionalizzazioni del progetto, e non da aggiustamenti dettati dalla pratica produttiva immediata. La società robotizzata sarà così non solo una società dove una massa di schiavi informatici mantiene uno strato di oziosi, ma anche una società dove il feticcio del progetto divora la pratica empirica. In generale, i rapporti produttivi si irrigidiranno, perché gli oziosi saranno una ristretta cerchia che dominerà la massa di semi-lavoratori polverizzati dell’economia digitale, i cui bisogni massificati saranno soddisfatti da robot costruiti da piccole enclaves di semi-schiavi confinati, come già accade oggi per le produzioni griffate di scarpe e magliette, in punti del pianeta resi socialmente invisibili. La sparizione del lavoro, cioè la divaricazione sempre più grande tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra sapere contemplativo e sapere produttivo, tra tempo di vita e tempo di lavoro, non sarà dunque la liberazione dalla maledizione biblica, ma una specificazione ed ossificazione degli attuali rapporti di dominio. Se la genesi della libertà è da rintracciare nella lotta dell’uomo contro la natura, attraverso la mediazione delle diverse forme di società succedutesi nella storia, non ci si può illudere che, tecnologizzando l’ultima di queste forme, la società capitalistica in essere, si arrivi alla libertà piena che deriverebbe da un totale controllo della natura assicurato da tale tecnologizzazione. La scorciatoia non funziona, perché non è intensificando tramite la tecnologia lo sfruttamento capitalistico del rapporto uomo-natura, che si può assicurare al genere umano il benessere e la libertà. Lo dimostra l’acuirsi della questione ecologica, dove appare chiaro che tale sfruttamento capitalistico si ritorce sia contro la natura, limiti ecologici dello sviluppo, sia contro l’uomo sfruttato dall’uomo, crescita esponenziale delle diseguaglianze economiche e di potere che, come abbiamo visto, la società robotizzata promette sinistramente di approfondire e intensificare. La chiave perciò consiste nel riconnettere l’uomo alla natura, liberato però dai rapporti capitalistici che attualmente mediano tale rapporto. In altri termini, la lotta per la libertà si è sempre svolta su due fronti, contro le forze della natura, e contro le forze sviluppatesi all’interno delle forme sociali che storicamente hanno mediato il rapporto uomo-natura. I modi di produzione sono lo strumento che la specie umana ha escogitato per dominare la natura e ottenere la libertà. Ogni qual volta tale strumento si è rivelato insufficiente, e ciò accadeva perché il precedente modo di produzione intensificava tutti i fattori, ivi compreso quello demografico, si è passati storicamente ad una forma diversa e più efficiente di società. Questione ecologica e questione capitalistica dunque coincidono, perché è solo modificando il vecchio strumento capitalistico, che si può arrivare ad un rapporto più efficiente per l’uomo nel suo rapporto con le forze della natura, attualmente invece compromesso dall’inefficiente mediazione capitalistica. Perciò, non è preferendo il treno agli aerei, o le auto elettriche a quelle diesel, che faremo pace con la natura. Greta Tunberg e Carola Rakete, che promuovono tale ricetta, assumono sulle loro scelte individuali tutto il peso di una questione collettiva. La loro è una testimonianza morale, come accade sempre quando i comportamenti individuali sono schiacciati da una vecchia etica. Sorge allora un romanticismo che trasforma le questioni produttive in questioni sentimentali, e gli individui diventano degli eroi, in quanto tali ammirati o avversati, ma comunque impotenti a modificare i comportamenti collettivi. È invece l’etica che bisogna modificare, cioè la dimensione collettiva della morale, ma ciò è possibile solo modificando i rapporti produttivi del modo di produzione in essere, quel capitalismo che avvinghia a sé distruggendoli sia la natura, che l’uomo. Oggi, la lotta per la modifica di tali rapporti è in stallo. Domina perciò il pessimismo, l’idea cioè che non vi è progresso, ma rispetto al pessimismo ottocentesco, che vedeva nella natura una forza indifferente alla vita umana, si afferma la visione simmetricamente opposta della natura violata dalla prepotenza dell’uomo. Di qui, utopie regressive come la decrescita felice, un misto appunto di pessimismo e romanticismo. Ma la natura non è violata da una generica ed astorica prepotenza umana, ma dall’inefficiente mediazione capitalistica del rapporto uomo-natura. Il progresso quindi non si è fermato. Piuttosto, la sua via è ostruita da chi ha interesse a mantenere in vita quell’inefficiente mediazione. Riprendere la lotta anticapitalistica non è un progetto donchisciottesco, ma uno scopo che ha una base oggettiva, la ricerca di un nuovo modo di produzione che, rendendo più efficiente il rapporto uomo-natura, abolisca lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo richiesto da quella vecchia mediazione.

Chi è Salvini?

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Chi è Salvini? Salvini è un po’ Stenterello, la maschera fiorentina della commedia dell’arte. È vero, Stenterello era mingherlino e secco, mentre Salvini tende alla pinguedine, ma come Stenterello è un gran chiacchierone e anche un po’ pauroso, bastava vedere la sua faccia quando i gabbiani gli planavano sulla testa, mentre faceva la diretta facebook dalla terrazza del Viminale. Lì Salvini, però, da bravo Stenterello, era anche furbo, furbissimo. Come strillava contro la Raggi, che non pulisce le strade dalla spazzatura! Alleato dei cinquestelle, certo, ma calci negli stinchi appena può. Stenterello è il politico perenne che crede di saperla lunga. Se una proposta ardita viene da un competitore interno o esterno al partito, egli la fa subito propria perché così ritiene di poterla smontare e disinnescarne la carica. Quante sono state le giravolte di Salvini? La più grande di tutte, da comunista padano a fascista cristiano. Salvini, la cui suprema furbizia consiste nell’occupare la casella sulla quale presumibilmente si collocheranno gli altri politici e il gioco si svolge in una gran confusione, tutti adottano la stessa tattica e le stesse prospettive. Poi sarà la furbizia pretesa di Salvini-Stenterello ad avere la meglio sugli altri contendenti, condannati alla sconfitta perché ritenuti non si sa perché sprovvisti del dono prezioso dell’astuzia che abbonda nella sua testa. Costruttore infaticabile di trappole, Stenterello però spesso resta vittima delle sue stesse diavolerie. È da un anno infatti che Salvini prepara trappole per i grillini, e fa intravvedere un giorno sì e l’altro pure che domani ci sarà la crisi di governo. Ma non si decide. Forse si crede un Fabio Massimo Temporeggiatore, ma è solo uno Stenterello che cadrà nelle sue stesse macchinazioni: la crisi di governo la faranno gli altri, e a quel punto i suoi amici Putin e Trump lo sfanculeranno.

Salvini però è anche un po’ Don Rodrigo, il quale come si sa, si può considerare un don Giovanni mancato: desideroso di possedere Lucia, deve ricorrere alla violenza, perché incapace di usare la seduzione. Qui non c’è Lucia, e il matrimonio che non s’ha da fare è con l’immigrazione. E l’immigrazione, con quei bei corpi maschili e femminili, per quanto provati, che porta con sé, suscita un desiderio di possesso che, in chi è incapace di seduzione, può essere soddisfatto con la violenza, violenza indiretta, sfruttamento emarginazione prostituzione, o diretta: respinti, lasciati in mare sotto il sole cocente, bombardati, come chiede Giorgia Meloni, una Monaca di Monza che, spinta dalla sua concezione dell’amore come vassallaggio, dopo aver scartato l’ormai spento Egidio-Berlusconi, la spara grossa per ingraziarsi Salvini-Stenterello che, di sondaggio in sondaggio, di elezione in elezione, sta diventando il signorotto di quel grosso borgo rurale che è ormai l’Italia penta-leghista.

Ma Salvini è anche un po’ Franti, il cattivo sottoproletario che trema davanti ai ragazzi più grandi e se la prende con quelli più deboli di lui. E che alla fine viene prima espulso dalla scuola e poi mandato in prigione dopo una rissa con Stardi. E chi potrebbe essere Stardi? Beh, Stardi potrebbe essere Maurizio Landini. Tozzo e incazzoso, considerato all’inizio duro di comprendonio, supererà le sue difficoltà grazie all’impegno nello studio, e a fine anno risulterà uno dei migliori della classe. Classe operaia, naturalmente. Stardi ha un fratello più piccolo, Nicola Zingaretti, al quale vuole un gran bene, come si vedrà quando lo difenderà da Franti, in una rissa che finirà con la sua vittoria. È vero che per Umberto Eco, Enrico, il pallido protagonista di Cuore, rappresenta l’Italia mediocre e perbenista destinata a sfociare nel fascismo, mentre il cattivo Franti, con i suo bacioni sarcastici, rappresenta la sovversione dell’ordine sociale vigente. Ma queste sono le lucciole per lanterne prese da una certa sinistra quando c’era la grande bonaccia. La noia era tale, che i cattivi venivano scambiati per rivoluzionari. Quando è arrivata la tempesta, le cose si sono chiarite, e ora sarebbe davvero grottesco descrivere Salvini-Franti come un sovvertitore dell’ordine sociale vigente. Se c’è una cosa che Salvini vuole, è non solo non sovvertire, ma addirittura restaurare l’ordine sociale vigente. Certo, non quello ipocrita e mieloso delle democrazie liberali, che egli disprezza profondamente, ma quello solido della “tradizione”, il Dio, sangue e suolo dove il capitale, piccolo e grande, può scorrere feroce perché ben protetto da “sani principi morali”.

Alla fine, dunque, Salvini è una maschera di maschere. Una specie di uno, nessuno e centomila, ma senza la gravità tragica dell’uomo senza qualità del Novecento, piuttosto con la meccanicità rotonda dei robot odierni, il cui algoritmo lo scrivono gente di cui Stenterello-Don Rodrigo-Franti, alias Matteo Salvini, manco sospetta l’esistenza. Salvini, una maschera di maschere, progettata al computer e indossata da un robot.

Il futuro tra passato e presente

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…divagando tra passato e presente se prima il problema in Italia era la mancata nascita dello Stato territoriale ora è l’assenza del partito di classe se prima la domanda era perché nel ‘500 non sorge in Italia la monarchia assoluta dopo la domanda diviene perché nel ‘900 all’inizio degli anni Venti la rivoluzione di classe fallisce e dopo non c’è più alcun tentativo serio di reimpostare la questione intreccio di debolezza della controparte capitalistica che genera una classe disgregata e di mitologia rivoluzionaria astratta il mito sovietico-internazionalista sorta di surrogato del tradizionale cosmopolitismo italiano ideologia di una classe senza consenso nella società l’equivalente della mancanza di territorio per lo Stato durante i lunghi secoli che precedono l’unificazione in Machiavelli il popolo viene incorporato nei governanti come milizia il partito di classe come milizia che però governa il limite del Machiavelli nella sua proposta di una monarchia assoluta borghese popolare antifeudale e anti-ecclesiastica è di avere solo alluso alla “riforma economica” (superamento dei privilegi feudali saldatura di città e campagna integrazione delle classi rurali nella struttura statale) ma oggi come impostare la “riforma economica” se la componente popolare divenuta piccolo ceto medio proprietario senza più la certezza dell’ascesa sociale è in preda a rabbia e frustrazione che alimentano nuovi Stenterelli i furbissimi che ci tengono a far sapere che sono furbissimi Berlusconi Renzi Salvini errore di avere smantellato il partito per farlo sommergere dalla società ipsi dixerunt costituzionalisti politologi teorici della politica e altri consigliori di tal sorta cui sulla sinistra estrema fanno eco i fautori dell’immersione nella società con i presidi sociali del lungo periodo ma come disse il saggio nel lungo periodo saremo tutti morti tornando al passato più recente il mito sovietico diventa un peso non tanto quale portatore di dogmi rivoluzionari ma in quanto vincolo geopolitico quando cioè la rivoluzione viene incapsulata nella guerra fredda per cui la vittoria della rivoluzione è la vittoria dello Stato russo-sovietico nella competizione con gli Stati Uniti e risalendo ad un passato più remoto come nel Cinquecento in Italia la Chiesa che pure possiede un suo territorio e una sua forma statuale non funge da elemento unificatore di tutto il territorio italiano analogamente nel Novecento l’URSS non riesce ad unificare il campo rivoluzionario mondiale l’impedimento ad una Chiesa quale monarchia assoluta estesa a tutto il territorio italiano viene dagli stati europei per il pericolo di una unificazione della penisola sotto le insegne papali ma anche dallo stesso universalismo cattolico analogamente l’internazionalismo rivoluzionario per divenire ideologia unificatrice mondiale avrebbe richiesto un vincolo meno forte al limite nessun vincolo statuale-territoriale con lo Stato russo-sovietico quindi “rivoluzione permanente” ma carattere astratto di questa formula perché non sorretta da una analisi concreta dei vari quadranti in cui tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi tenendo conto degli scarti temporali ecc. di qui l’“egemonia” ma in assenza di un centro unificatore delle varie lotte egemoniche in assenza di una Internazionale egemonista l’egemonia diventa ideologia nazionale via nazionale al socialismo policentrismo eurocomunismo socialismo dai caratteri cinesi ecc. ecc. tutte formule più o meno di successo che però indeboliscono e annebbiano la prospettiva richiedendo ardui atti di fede come nel caso della Cina dove il gigantesco sviluppo delle forze produttive dovrebbe generare una spontanea modificazione dei rapporti di produzione mondiali campa cavallo se oggi Cuba e Venezuela sprigionano ancora una attrazione rivoluzionaria è perché pur nelle difficoltà in cui si dibattono sfruttando le ambiguità e gli interessi della Russia e della stessa Cina riescono ad abbozzare un minimo di coordinazione ma il limite è di non riuscire a venir fuori dalla logica di un confronto Nord-Sud tutto americano e bisogna vedere se una autentica rivoluzione in Venezuela che superi il petro-chavismo non debba fondarsi su un rigoroso anti-estrattivismo lì davvero il socialismo è una questione ecologica per tornare all’Italia bisogna vedere se una possibile riaggregazione nazionale non possa e debba ripartire dal Sud arretrato-disgregato per trasformarlo in una piattaforma da cui muovere verso il Nord difeso da fortezze e casamatte produttive domanda di Gramsci se con il processo unitario risorgimentale non ci sia stata una perdita secca di ciò che rappresentava ciascuna delle entità statuali che vennero inglobate domanda che si ritrova nell’indipendentismo meridionale odierno nelle risorgenze borboniche ecc. ma in queste tendenze manca qualsiasi analisi politico-statuale di classe si tratta di un’ideologia reattiva del piccolo ceto medio meridionale in odio al leghismo nordista che lascia immutata la grande disgregazione la riorganizzazione del Mezzogiorno non può essere l’opera di un presunto potere terzo esterno al di sopra della mischia di classi e fazioni l’Europa ché essa stessa è una fazione ma deve essere l’opera di un potere popolare di parte una moderna milizia di classe che proceda ad unificare l’esistente verso una universalità legittimata dalle tendenze oggettive dello sviluppo storico in questo senso bisogna vedere cosa si può trarre dall’allentarsi di vincoli ed alleanze internazionali sclerotizzate il vincolo americano e Nato per annodare un’alleanza con Russia e Cina venendo incontro al loro bisogno di una proiezione nel Mediterraneo e di un corridoio verso l’Europa continentale una simile prospettiva sebbene piena di ombre e pericoli sarebbe più realistica di un dialogo in nome di una comune presunta mediterraneità con i paesi dell’altra sponda Egitto Libia Tunisia ecc. sconvolti da turbolenze di ogni tipo e sinora incapaci di staccarsi dall’alternativa dispotismo o caos questione meridionale quindi come questione nazionale di nuove alleanze internazionali…

Se subalterno diventa un insulto

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«L‘Italia leghista è un rivolgimento profondo, sociale e culturale prima ancora che politico, come testimonia il voto nelle ex regioni rosse. Già in passato le classi subalterne si illusero di trovar tutela nella trincea della nazionalità. Non finì bene». Così ha twittato Gad Lerner, qualche giorno fa, sollevando lo sdegno di tutto l’universo social-mediatico per l’offesa portata, con quel “classi subalterne”, a coloro che alle recenti elezioni europee avevano votato massicciamente Lega. Classi subalterne. Com’è potuto accadere che un termine fra i più importanti del contributo di Gramsci alla marxiana scienza della lotta di classe (copyright, Louis Althusser), sia divenuto un insulto classista? Gramsci fa sempre brutti scherzi. I suoi termini sono a doppio taglio, e si vede che Lerner orecchia. Se avesse letto bene Gramsci, avrebbe compreso che classi subalterne è un concetto, al tempo stesso, descrittivo e normativo. Descrive il fatto sociologico della divisione tra governanti e governati, ma esprime una rivendicazione politica di identità dei governati, al fine del proprio riscatto. Ora, un tempo i subalterni erano orgogliosi di essere tali perché credevano, istruendosi e lottando, di potere battere i dominanti e abolire il dominio per conto di tutto il genere umano. Ma oggi sono rabbiosi e frustrati perché, pur avendo lottato e pur essendosi istruiti, tutto ciò non è accaduto, e la loro condizione è peggiorata. Perciò, sentirsi dare del subalterno non li gratifica, anzi ricorda loro una condizione che rifiutano, e non ammettono che li riguardi. Non sono forse l’infallibile popolo sovrano, come esige da loro il discorso democratico? Ed è forse un caso che “classe dirigente” è invece una locuzione di successo? Tutti aspirano ad entrare nella classe dirigente, tanto è vero che primarie e parlamentarie sono sempre affollatissime. Impegno civile? Può darsi. Ma perché escludere che la legittima voglia di riscatto oggi si traduca semplicemente e brutalmente nella voglia di andare a comandare? Rabbia e frustrazione, dunque, oggi, nei subalterni, ma anche egoismo, perché sono passati dal girone del consumismo e dell’ascesa sociale, le cui conquiste si sono rivelate effimere sotto l’urto della crisi economica. Si sono aperte così fratture, e se il subalterno immigrato reclama i diritti di sopravvivenza, il subalterno nativo rivuole indietro ciò che nel frattempo era diventato, almeno in parte, un privilegio. Ci si interroga su come tornare a parlare agli operai. Con il semplice ma efficace discorso della verità, si potrebbe rispondere con Bertolt Brecht. Ma dai tempi di Brecht, la condizione dei subalterni è molto cambiata, e ricorda quella ambivalente della nevrosi. Prima i subalterni dovevano prendere coscienza. Coscienza della propria condizione di classe. E la presa di coscienza, essendo un’operazione razionale, era relativamente semplice, anche se emotivamente costosa. Oggi l’operazione è più complessa, perché non si tratta più di presa di coscienza, ma di un transfert che ricomponga un vissuto lacerato da rimozioni vecchie e nuove. In parte, questa è l’emotività che vorrebbero recuperare i “fagiolini”, i discepoli di Massimo Fagioli, lo psicanalista eterodosso che praticava l’analisi collettiva anonima. Solo che non ci si può crogiolare nel tempo infinito di una psicoterapia di massa. L’azione politica, che resta pur sempre un conflitto dove si vince o si perde, ha le sue urgenze, e il Moderno Principe cui Gramsci affida le sorti dei subalterni non può diventare il Grande Analista. Al massimo, affinché la politica non si disumanizzi, com’è tragicamente accaduto in passato, si può pensare ad una energica “terapia comportamentale”, che allevii i sintomi più lancinanti di cui soffre la sinistra – mancanza di uomini d’azione, divisione insanabile tra estremisti e moderati, incapacità di scegliere scopi e di adeguarvi i mezzi, verbalismo, narcisismo, opportunismo. Una terapia comportamentale, una “manipolazione buona” che, riportando la nevrosi ad un livello accettabile, renda di nuovo possibile ricostituire un esercito di combattenti, perché di questo infine si tratta, di un combattimento dove la controparte non ha mai disarmato, e mai disarmerà, perché tutta la realtà fattuale sta dalla sua parte. Ed è solo con la lotta che è possibile dimostrare che si tratta di una realtà effettuale sbagliata.