La coscienza di classe a cent’anni da Storia e coscienza di classe

Download PDF

Per una celebrazione non puramente celebrativa del centenario di Storia e coscienza di classe un gruppo di tesi sulla natura della società capitalistica rinvenibile in essa può essere adoperato per chiarire il significato di due rivendicazioni avanzate da odierni esponenti della classe capitalistica, quella dell’uomo d’affari Warren Buffett circa il fatto che nei decenni successivi alla caduta del Muro di Berlino la lotta di classe l’avrebbero vinta i capitalisti, e quella dell’ideologo Francis Fukuyama secondo cui in seguito a quell’evento la storia è finita nel senso che con la vittoria del liberalismo sul comunismo essa avrebbe raggiunto il suo culmine. Le tesi utili a chiarire tali rivendicazioni possono essere così sinteticamente riassunte. La prima sostiene che nella società capitalistica l’essere sociale è lo stesso sia per la borghesia che per il proletariato, nel senso che per entrambe esso è immediatamente economico. La seconda pone che tale immediatezza comporta l’artificiale separazione e isolamento degli oggetti dalla totalità delle loro determinazioni reali al fine della loro quantificazione economica quali valori di merci. La terza afferma che, sotto la spinta degli interessi di classe, mentre la classe borghese dimora nell’immediatezza occultando la tensione dialettica tra gli oggetti e la totalità delle loro determinazioni con categorie astratte come appunto la quantificazione, il proletariato deve oltrepassarla perché solo ripristinando la totalità delle determinazioni reali degli oggetti può risolvere la propria tensione dialettica in quanto esso stesso oggetto, quale forza lavoro mercificata, del processo produttivo. La quarta stabilisce che la conoscenza della totalità sociale e delle sue leggi di sviluppo storico prodotta dalla presa di coscienza di tale tensione dialettica da parte del proletariato pone le premesse rivoluzionarie per la fine dello sfruttamento capitalistico e per il passaggio a una forma superiore di organizzazione sociale1.

Alla luce di questo insieme di tesi, la rivendicazione della vittoria capitalistica nella lotta di classe e l’affermazione che la storia è finita con il trionfo del liberalismo sul comunismo che abbiamo citato sopra, significano che la classe borghese non solo ha trovato il modo di impedire al proletariato di andare oltre l’immediatezza economica neutralizzando così la sua funzione rivoluzionaria, ma ha anche imposto tale immediatezza come modo d’essere esclusivo dell’essere sociale. In altri termini, rivendicare la vittoria capitalistica nella lotta di classe significa dichiarare apertis verbis la dittatura capitalistica, trasformando così il portato spontaneo del processo storico in un contenuto esplicito della coscienza di classe borghese. E poiché ciò avviene non nell’involucro di una aperta dittatura politica, come accadde negli anni Trenta del secolo scorso, ma sotto il regime trionfante della democrazia liberale, ciò equivale a esplicitare il contenuto politicamente dittatoriale di tale regime pur continuando a proclamarlo come il regime della libertà universale.

Di fronte a tale pretesa, non è ozioso allora ritornare ai fondamenti teorici della dialettica storica della coscienza di classe, non solo in riferimento alle prese di posizione sopra discusse ma anche ad ambiziosi sistemi teorici, eretti ancor prima che il trionfo del liberalismo venisse dichiarato, volti a universalizzare la posizione di classe borghese. Al fine di un loro esame, necessariamente limitato agli aspetti essenziali, partiamo da una definizione neutralmente “scientifica” di coscienza sociale, secondo la quale essa è la visione idealmente razionale che i membri di una classe sono in grado di assumere riguardo all’intera struttura sociale al fine di determinare corsi di azione che siano universalmente accettabili dall’intera società. All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso una tale ricostruzione “universale” della coscienza sociale, proposta dal punto di vista liberale, è stata avanzata nei termini di un “velo d’ignoranza” inteso come posizione originaria assunta da individui desiderosi di dar vita a istituzioni giuste, spogliandosi da ogni condizionamento particolare, primo fra tutti il condizionamento di classe2. Ne è risultata una imparzialità astratta con cui statuire sulla distribuzione della ricchezza e del potere, non a caso denominati “beni primari”, in base al principio secondo il quale è legittimo che alcuni possano godere di una maggior quota di essi se il modo in cui li ottengono migliora la condizione di coloro che ne possono godere di meno3. A ben rifletterci, forse è in base a tale “diseguaglianza benefica” che oggi sembra accettabile che un manager possa guadagnare non quaranta volte, come nel 1970, bensì seicentocinquanta volte più di un operaio, a patto che il sistema complessivo consenta al governante di turno di concedere all’operaio un bonus fiscale di trenta euro in più al mese in busta paga.

Comunque sia, al fine di mitigare diseguaglianze simili, dall’attiguo campo liberale cosmopolitico si è levata la richiesta che nella competizione per i “beni primari” la perequazione non sia affidata solo alla tardiva comparsa di misure per “bisogni speciali”, ad esempio quelli di individui affetti da evidenti minorazioni come la cecità, ma che tali misure, anche per impedimenti come il maggior rischio di ammalarsi o vari gradi e tipi di patologie fisiche o mentali socialmente determinate, siano inserite sin da subito alla base dell’architettura istituzionale “giusta”, in modo da consentire che la complessiva dotazione umana degli individui (“funzionamenti”) possa essere messa in opera (“capacitazioni”) per il raggiungimento di una vita degna di essere vissuta (“vita fiorente”)4. Di questa richiesta già in sé limitata si direbbe che nella pratica neanche la parte concernente la perequazione delle minorazioni più evidenti sia stata pienamente accolta, ma ciò che qui importa osservare è che, con grande anticipo circa le pretese di imparzialità della “giustizia come equità” e le limitate richieste ad essa rivolte di un’imparzialità più “aperta”, dal campo teorico alternativo del proletariato proprio in Storia e coscienza di classe erano state avanzate lungimiranti concezioni critiche.

Si è mostrato anzitutto che i cosiddetti “beni primari” non sono oggetti in sé conclusi di cui soggetti isolati gli uni dagli altri possono appropriarsi in una gara in cui può rilucere la loro competenza morale, innata quanto quella linguistica5, ma appartengono invece, come abbiamo accennato già sopra, a un universo reificato in cui gli oggetti, in realtà merci, risultano da un isolamento artificiale dal complesso delle loro determinazioni reali, ad opera delle operazioni produttive del soggetto capitalistico che per i suoi interessi di classe non può andare oltre l’immediatezza economica e deve pertanto tramite teorie ad hoc occultarne il fondamento parziale6. Questa reificazione in cui tale soggetto è irretito si manifesta in una molteplicità di contraddizioni, dalla contraddizione storica, a quella sociologica, a quella ideologica, a quella infine epistemologica7. Ai nostri fini, quest’ultima è quella che qui ci interessa maggiormente. Essa mostra infatti che, essendo il capitalismo l’ordinamento produttivo in cui l’economia assimila l’intera società, la coscienza borghese dovrebbe razionalmente possedere la conoscenza della totalità del processo di produzione, ma a causa dei suoi interessi di classe ciò le è precluso, divenendo così impossibile la gestione teorica e pratica dei problemi incessantemente posti dallo sviluppo capitalistico8. Ora, l’ambiziosa e influente teoria morale della “giustizia come equità”, enunciata ben dopo il quadro critico cui abbiamo accennato, appare oggettivamente ricadere in tale contraddizione, poiché se da un lato con il “velo d’ignoranza” vuole ottenere la conoscenza razionale derivante dall’assimilazione economica capitalistica dell’intera società, dall’altro basa l’assetto morale “giusto” che con tale “velo d’ignoranza” vuole instaurare sull’ontologia economica parziale degli interessi capitalistici, come dimostra la giustificazione teorica delle crescenti sperequazioni derivanti dall’applicazione di principi come quello della “diseguaglianza benefica”.

Tuttavia, poiché contrariamente a quanto si possa pensare il campo teorico del proletariato è tutt’altro che monolitico ma anzi vi dominano contrapposizioni anche sin troppo vivaci, la concezione critica espressa in Storia e coscienza di classe, nonostante i cospicui risultati con essa ottenibili, è stata variamente contestata e rigettata. In particolare, la critica della società borghese da essa sostenuta servendosi della categoria della “contraddizione” è stata giudicata “ideologica”, cioè non “scientifica”, perché determinata dall’ideologia filosofica della contraddizione e dall’ideologia morale dell’uomo onnilateralmente sviluppato9. La nozione di coscienza di classe, inoltre, poiché privilegia la coscienza rispetto all’essere, è stata giudicata di natura idealistica e, con riferimento al proletariato, si è proposto di sostituirla con quella materialisticamente più tangibile di istinto di classe10, per la cui indagine si ritiene necessario indagare non solo i rapporti di produzione e quelli politici ma anche quelli ideologici, che sarebbero costituiti da sistemi di idee-rappresentazioni e sistemi pratici di attitudini-comportamenti (costumi)11.

Qui si può già osservare che più che al funzionamento dei rapporti sociali ideologici si è interessati a una classificazione dei loro contenuti, uno slittamento che, come vedremo, non può non avere conseguenze negative nella teoria e nella pratica. Ma andiamo avanti. In questa visione “scientifica” della coscienza di classe, si afferma che una rivoluzione deve agire non solo a livello delle idee ma anche dei costumi, siano essi politici, tecnici, burocratici, e ciò tramite forme organizzative specifiche12. Ora, posto che in rapporto ai differenti livelli di ogni formazione sociale devono esistere differenti organizzazioni della lotta di classe, al livello economico il sindacato, al livello politico il partito, al livello ideologico l’organismo di controllo ideologico, si richiama il fatto che, storicamente, mentre nella Rivoluzione sovietica Lenin propose di far corrispondere al livello ideologico un organismo emanazione del partito denominato “Ispezione operaia e contadina” che, nell’inedita situazione della dittatura del proletariato, traduzione statuale dell’egemonia del proletariato, doveva regolare i rapporti tra Stato e Partito, nella Rivoluzione Culturale cinese degli anni Sessanta del secolo scorso l’organo di controllo dei rapporti tra Partito e Stato fu individuato in un’organizzazione espressione autonoma delle masse con il compito di denunciare e criticare i dirigenti che, attenendosi ancora ai vecchi costumi, si distaccavano dalle esigenze della nuova vita rivoluzionaria. In questo modo si sarebbe realizzato un avanzamento teorico e pratico, poiché partito, Stato e organizzazione di controllo ideologico risultavano distinti13. Resta il fatto però che, permanendo la concezione dei rapporti ideologici non come ruoli da modificare ma come contenuti da sanzionare, l’azione di controllo di questo platonico Consiglio notturno14 si scaricava sull’esteriorità del comportamento e non sulla matrice soggiacente che lo produceva e riproduceva, sboccando così, com’è storicamente accaduto, nella repressione e nell’autoritarismo anche se esercitati dalle masse.

È qui che può soccorrere l’elaborazione successiva a Storia e coscienza di classe, sia dello stesso Lukács con la proposta di una democratizzazione della vita quotidiana, sia di Gramsci di una nuova egemonia come superamento del rapporto di subalternità. È evidente che il perseguimento di tali scopi comporta un processo di apprendimento che deve potersi riprodurre da sé inserendo nella sua struttura di base il principio cui corrisponde il senso etico-politico che si vuole far acquisire. Ma questo residuo “educativo” si scioglie nel fatto che non viene instillato un contenuto bensì una forma, la forma compiutamente razionale della reciprocità cooperatoria la cui più vivida descrizione, per una volta, si può rinvenire in una fonte del tutto indipendente dai dibattiti marxisti, quella dell’onesta critica conservatrice del modo di produzione capitalistico:

 

quando un governo ha preso possesso di tutti i mezzi di produzione e del controllo di tutte le imprese non può distribuire in salari e servizi pubblici più di quanto l’industria, così organizzata, sarà in grado di produrre; probabilmente, e forse beneficamente, produrrà piuttosto meno di quanto prima è stato prodotto da capitalisti privati e rivali, dal momento che ci sarà meno ardimento nel correre rischi e minore ansia di ottenere salari più alti. La società sarà forse più felice ma più debole e più rassegnatamente tradizionalista. La febbre del diciannovesimo secolo per l’improvvisa ricchezza e del ventesimo per le meraviglie della meccanica avranno ceduto ad una saggezza classica, ad un nuovo livello industriale della vita. Penso che un tale governo, se razionalmente guidato dalla scienza e dalla storia, potrebbe rivelarsi un custode più sicuro di tutti gl’interessi naturali e quindi moralmente più rappresentativo sia del governo tribale che di quello patriarcale nonché di quello elettivo. I governanti e gli amministratori sarebbero nominati non per mezzo di elezioni popolari, ma per cooptazione tra i membri di ciascun ramo dell’amministrazione, come una sorta di promozione quale quella in uso nell’esercito, nelle banche, nelle università o nelle gerarchie ecclesiastiche15.

 

Solo una lettura superficiale potrebbe scorgere qui il vagheggiamento romantico della “decrescita felice”, quando invece vi è il riconoscimento politico che un piano razionale fondato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e guidato dalla scienza e dalla storia è ciò che può dare luogo al nuovo livello industriale della vita ispirato a una saggezza classica. Per gli apologeti dell’esistente, che da tempo immemorabile spendono le migliori energie per scacciare questo spettro, si tratta di offrire sempre nuovi alimenti alla febbre delle vecchie tendenze secolari. Alle ricchezze improvvise e alle meraviglie della meccanica ora si sono aggiunte le mirabilie della scienza cognitiva, dalle reti neurali alla robotica all’intelligenza artificiale, con tutti i benefici per il corpo e per l’anima che promettono di arrecare. Ma se scatta l’allarme per qualche loro possibile conseguenza indesiderata, allora arruolando Gödel e Aristotele si rassicura che l’intelligenza umana non potrà mai essere assorbita da quella artificiale né logicamente, stando ai teoremi di incompletezza algoritmica, né antropologicamente, data la determinazione affettiva dei ragionamenti umani che l’intelligenza artificiale potrà solo simulare ma mai effettivamente provare16. Ma la mente desiderante, la sola che provando dolore e piacere produrrebbe religioni e ideologie, non la si mette in salvo magnificando le caratteristiche che la natura le avrebbe conferito dall’eternità. Non è la mente umana in astratto che produce religioni e ideologie, ma sono i modi di produzione, con cui i bisogni umani vengono soddisfatti, che estendendosi lungo le ere producono la storia. E i modi di produzione non sono semplici classificazioni ad uso degli storici ma modalità d’esistenza dei rapporti sociali. Bisogna capire allora cosa accade nei rapporti sociali capitalistici se l’esigenza di profitto intrinseca al capitale si afferma sostituendo progressivamente il lavoro vivo manuale e intellettuale con il lavoro artificiale robotico e algoritmico. E la conseguenza principale non può che essere, da un lato, la rarefazione dei rapporti produttivi e, dall’altro, il rigonfiamento di quelli ideologici in cui masse sempre più vaste di piccoli signori, divenuti tali dopo l’espulsione dai rapporti di produzione, soddisfano bisogni sempre più artificiosi comandando legioni di schiavi logico-meccanici per definizione incapaci di quella “presa di coscienza” di cui invece sono state storicamente capaci le masse salariate. Di fronte all’evenienza di un simile parassitismo, anziché adeguarsi alla presunta forza irresistibile dell’“innovazione”, appare invece sempre più necessario perseguire quel nuovo livello industriale della vita il cui governo non più tribale, non più patriarcale, non più elettivo, ma semplicemente “amministrativo” l’onesto critico conservatore del capitalismo addita come il sistema che meglio può garantire tutti gli interessi naturali. Con le sue vittorie e le sue disfatte, con le sue acquisizioni e i suoi errori, sinora l’interprete più coerente di questa prospettiva è stata la coscienza di classe proletaria così profondamente indagata in Storia e coscienza di classe, che nella politica secolare può però allargarsi a coscienza di specie per tradurre finalmente quella prospettiva in una forma di vita universale.

 

  1. G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Sugar Editore, Milano 1967, p. 214 ss. []
  2. J. Rawls, Una teoria della giustizia (1971), trad. it. Feltrinelli, Milano 20083, p. 142 []
  3. Ivi, p. 104 []
  4. A. Sen, L’idea di giustizia (2009), trad. it. Mondadori, Milano 2011, p. 240 ss., p. 270 []
  5. J. Rawls, Una teoria della giustizia, cit., p. 64 []
  6. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, cit., p. 85, p. 216 []
  7. Ivi, pp. 80-83 []
  8. Ivi, p. 83 []
  9. L. Althusser, Socialisme idéologique et socialisme scientifique (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, Puf, Paris 2022, pp. 67-68 e p. 97 []
  10. Ivi, p. 99 e nota 2 []
  11. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., pp. 302-03; Id., Sur l’idéologie. Fragment inédit de «Sur la révolution Culturelle» (1966), in Id., Socialisme idéologique et socialisme scientifique et autres écrits, cit., p. 320 []
  12. L. Althusser, Sur la révolution culturelle (1966), cit., pp. 303-04 []
  13. Ivi, p. 307 []
  14. Platone, Leggi, XII, 960-966 (Tutte le Opere, Sansoni, Firenze 1974, p. 1389 ss.). []
  15. G. Santayana, Dominazioni e Poteri (1951), trad. it. a cura di G. Buttà, in corso di pubblicazione, pp. 555-556 []
  16. F. Lo Piparo, Rassicurazioni utili per i catastrofisti e gli apocalittici. Tranquilli, l’intelligenza artificiale non soppianterà mai quella umana, «Il Foglio», 19 maggio 2023, p. 2 []

Politica secolare

Download PDF

Nel sesto cerchio dell’Inferno di Dante, la legge del contrappasso condanna gli eresiarchi epicurei che vi sono rinchiusi a non conoscere nulla del presente, mentre vedono oltre un certo limite nel passato e nel futuro. Nell’epoca di transizione in cui viviamo, potremmo paragonare la nostra condizione a quella di questi dannati. Archivi, documenti, ricostruzioni e interpretazioni storiche ci fanno conoscere con una certa approssimazione un passato più o meno remoto, e del futuro più o meno lontano intravediamo anche se vagamente qualche contorno, ma il presente, il passato e il futuro immediati sono immersi in una fitta nebbia che la nostra vista non riesce a penetrare. Parlare quindi di politica secolare, la politica del XXI secolo che giorno dopo giorno prende corpo nella “mala luce” del nostro sguardo offuscato, può avere un senso se almeno fissiamo alcuni criteri che ne elevino l’analisi a qualcosa di più che una vuota convenzione cronologica. Il primo di questi criteri è che obiettivo dell’analisi siano questioni rappresentative delle tendenze mondiali; il secondo, che l’analisi teorica sia ancorata a questioni storiche anch’esse di livello mondiale; il terzo, che le questioni analizzate abbiano un ruolo essenziale nelle modificazioni possibili della realtà avvenire. Con una scelta certamente soggettiva, dovuta a quell’oscura visuale di cui dicevamo prima, le questioni che ci sembrano soddisfare tali criteri sono la guerra mondiale endemica che ancora una volta ha il suo epicentro in Europa, i nuovi centri di potere mondiali che a causa e per effetto della guerra emergono nell’arena internazionale, i nuovi rapporti di classe, infine, che intrecciati con i nuovi rapporti internazionali delineano il corso politico complessivo del secolo. Dunque, l’Europa in guerra, l’egemonismo come fase ulteriore dell’imperialismo, il socialismo come terreno su cui ricercare le soluzioni delle nuove contraddizioni secolari – questi i tre nomi delle questioni che sembrano soddisfare i criteri sopra enunciati. Può sembrare strano che in un periodo in cui si proclama a gran voce la dissoluzione delle classi, si scelga il criterio di classe per l’analisi della politica secolare. In realtà il problema non consiste nelle classi il cui divenire sociologico scorre incessantemente, bensì nella coscienza di classe che fluisce più lenta e richiede la cura continua dei suoi argini. Negli ultimi decenni, l’incuria di chi avrebbe dovuto manutenerli e l’opera interessata di chi voleva arrestarne il corso, l’ha rinsecchita facendola ristagnare in piccole pozze non comunicanti tra di loro. Si prenda il caso delle ondate di emigrati italiani che negli ultimi decenni, circonfusi dalla destinazione glamour, si sono riversati su Londra e altre località inglesi alla ricerca di occupazione. Molti di essi, specie i meno istruiti, dapprima sono approdati nei casermoni di periferia zeppi di “negri” in cui già alle cinque della sera ci si barrica negli appartamenti; in seguito, indirizzati da efficienti uffici dell’offerta verso mansioni spesso rifiutate in patria – camerieri di bar e ristoranti, personale di servizio, baby sitter e dog sitter per la buona borghesia inglese, personale delle pulizie e della reception negli alberghi, ecc., hanno poi avuto accesso alle più sicure case a schiera della vecchia working class indigena e con il prestito iniziale assicurato loro dall’astuto governo inglese hanno messo su l’impresa di pulizie o la pensione per i cani quando i loro padroni vanno a svernare nell’assolata Italia, paese in cui questi lavoratori, quando vi ritornano in visita ai parenti, constatano l’inefficienza dell’avvio al lavoro, la mancanza di una politica della casa, la precarietà e l’arbitrio dell’impiego e della paga, finendo così per sentirsi a casa propria più nella nuova patria, che in quella vecchia di cui diventa inutile persino ricordare le lotte per il lavoro che pure le precedenti generazioni vi hanno combattuto. Ma, nella nuova patria, quando anche i “negri” dei casermoni di periferia hanno cominciato ad affiorare nei quartieri delle case a schiera adattando magari a moschea un umido garage, allora il proletariato indigeno, che già aveva mal tollerato l’intraprendenza degli immigrati bianchi di provenienza UE, ha protestato e ha votato per la Brexit, nel frattempo che in Italia ondate di “negri”, fortunati di non essere annegati nell’attraversamento del Mediterraneo, si accalcavano malvisti nelle periferie delle città, senza neanche la prospettiva delle terraced houses e del gruzzolo iniziale offerti dal più efficiente governo inglese. E tutto questo sommovimento è avvenuto senza che la “sinistra”, né quella inglese né quella italiana, si ponesse più il problema di tenere viva in questo proletariato, inglese italiano o “negro” che fosse, la consapevolezza dei rapporti di produzione in cui era immerso, impegnata com’era ad acquisire rispettabilità presso l’establishment. Questo esempio che, variando nazionalità e destinazioni, si potrebbe riscontrare in altre realtà europee e occidentali, si pensi all’ormai proverbiale idraulico polacco, mostra chiaramente come la coscienza di classe da totalità organica si sia rinsecchita in tanti bracci separati e in conflitto tra di loro, la questione di classe, quella nazionale, quella migratoria, quella razziale, quella religiosa, lasciando sulle mappe politiche il vuoto di un luogo incognito, la cui realtà di sfruttamento addirittura aggravatasi è divenuta invisibile agli stessi sfruttati che la assumono nella sua irreversibile fatticità. E, tuttavia, se all’operaio inglese che ha votato per la Brexit o all’italiano che ha messo su l’impresa di pulizie è cresciuto un figlio gay e al “negro” affiorato nei vecchi quartieri operai o sprofondato nelle periferie urbane o nei casolari dell’agricoltura intensiva è capitata in sorte una figlia ribelle conquistata dai liberi costumi occidentali, allora il silenzio che grava su quel deserto della coscienza di classe sembra sgretolarsi e il clamore con cui vengono rivendicati i diritti civili trascina con sé anche i negletti diritti sociali. Anche perché ricerche sui non-binary workers, cioè i lavoratori che rifiutano di essere classificati in base allo schema binario maschio/femmina, attestano che essi sono più numerosi nelle fasce basse delle retribuzioni – servizi di vendita, agricoltura, che in quelle alte – cultura, spettacolo, giornalismo. Anche questo, però, è solo un dato sociologico che l’irruenza dalla questione sessuale non basta a trasformare in fatto di coscienza. Se è un diritto civile l’unione tra individui dello stesso sesso, se è un diritto civile l’adozione da parte di una coppia omosessuale, sarà anche un diritto incontestabile accedere alla GPA, cioè alla maternità surrogata o, più crudamente, all’utero in affitto? Una pratica, tra l’altro, che viene strumentalmente collegata alla questione omosessuale ma che, come dicono le statistiche, riguarda principalmente le coppie eterosessuali che possono scegliere fra costi diversi. Problemi simili, allora, di ordine morale ma anche economico e sociale, evidenziano un altro e più profondo significato della politica secolare. La forma di vita di merce, infatti, si estende su nuovi territori come quelli della nascita, ma anche quelli della morte, se è vero che in alcuni paesi la “buona morte” è una merce al pari della maternità surrogata. La politica secolare è dunque anche un passaggio di testimone con il secolo scorso sul terreno della mercificazione e dei connessi fenomeni di reificazione e alienazione, in cui emergono nuove contraddizioni per di più in presenza di scelte solo apparentemente alternative. Infatti, nella lotta contro la vecchia morale repressiva, da un lato, sembra imporsi un’etica “libertina” che coronerebbe la società capitalistico-borghese nel suo stadio globale; dall’altro, avanza un’etica “sociale” per la quale le distinzioni di genere sono effetto delle pratiche oppressive di potere messe in atto da quella stessa società. Entrambe però sfociano nella esaltazione della “volontà assoluta” di un individuo che, in assenza di legami con una cerchia più vasta distrutti dalla forma di vita di merce, è alla ricerca spasmodica di una qualche salvezza, la quale però quando è in qualche modo raggiunta ribadisce la base esistenzialmente negativa del volontarismo assoluto. È l’alienazione come effetto e causa dei disequilibri con cui la società in atto alimenta la propria esistenza. La lotta per una rinnovata coscienza di classe, di cui la politica secolare vuole chiarire alcune condizioni di realizzazione, concerne quindi il significato del divenire, se deve permanere come antinomia incomponibile o mirare a una ricomposizione della totalità. Nel primo caso continueranno a succedersi generazioni di homo sapiens la cui brutalità sarà uguale alla presunzione di essere moralmente superiori agli altri esseri viventi; nel secondo caso germinerà un essere sociale nuovo, cavalli sapienti o cervi fatati, dal cui legame razionale però potrà sorgere una società finalmente umana.

Ricominciare daccapo

Download PDF

Con l’elezione di Elly Schlein alla segreteria del Partito democratico, il secolo in Italia finalmente ha preso il largo. Non che all’orizzonte ci siano chissà quali novità di idee e di metodi. Siamo ancora alle attenuazioni e alle sfumature e, quanto al metodo, al leaderismo più spinto, come non può che essere con le primarie. Ma il fatto è che la Schlein con tutte le storie della sinistra dal 1921 a oggi non c’entra più nulla. Da questo punto di vista, la Meloni è ancora Novecento puro, legata com’è da mille fili al mondo catacombale del Movimento Sociale Italiano e dintorni di cui ha la missione di riscattare l’onore – così si esprimono. E, infatti, da quando è apparsa la Schlein, la Meloni è come invecchiata di colpo e nel ruolo che ha voluto a tutti i costi appare sempre più inadeguata. La Schlein non deve, non può e non vuole riscattare nulla perché da Occhetto a Letta tutto è stato dissipato e la sinistra non esiste più. Questo non vuol dire che la Schlein è post. La Schlein è di sinistra ma in un contenitore vuoto. Sì, certo, transgenderismo, ecologia, pace e salario minimo sono i contenuti che ha mitragliato con l’occhio sbarrato quando è stata interrogata, ma al momento sono pensierini. Se la Schlein vuole durare e non fare la fine di un Veltroni, se vuole davvero prendere il largo e condurre la nave verso una rotta sicura, bisogna che affronti le due questioni che, da quando è nata, fanno della sinistra la sinistra, ovvero la scelta tra sinistra riformista e sinistra rivoluzionaria e la questione del partito. Dicevamo che lei con tutte le storie della sinistra dal 1921 a oggi non c’entra più nulla. E per forza. La sinistra rivoluzionaria negli anni Settanta è finita nella trappola del terrorismo. E, nei decenni successivi, la sinistra riformista si è esaurita nell’ignominia del potere per il potere. Basterà dunque che quale che sia la via che imboccherà non si abbia nessuno dei due esiti. Riforme e rivoluzione dovranno essere parole vecchie con un significato nuovo. L’orizzonte è fosco e molto poco dipenderà da lei. Ma stanno finendo un’epoca e un impero, e le opportunità potranno esserci. Quanto al partito, non esiste una sinistra senza il partito e la prova inconfutabile si ha in questi ultimi anni in cui, avendo teorizzato un partito allegramente penetrato dalla società civile, la sinistra ha smesso di esistere. Certo, il riformismo era così spinto che il partito non serviva. Ma di riformismo spinto si muore, altrettanto quanto di settarismo rivoluzionario. D’altra parte, senza il partito aperto e leggero dei dottor Stranamore la tabula rasa della Schlein non sarebbe arrivata. Ma questo non vuol dire che bisogna continuare su questa strada, anche perché dallo stesso popolo che va a votare alle primarie sale la richiesta di una Assemblea costituente che riunisca tutta la sinistra in un nuovo organismo. Strada asperrima ma indicativa di un’esigenza. Dunque, la missione è chiara, ricominciare tutto daccapo. E perciò può essere che la Schlein, con il suo profilo sghembo e il suo fare dinoccolato, si ritrovi un domani sopra un palco con un berretto in mano ad arringare le masse rivoluzionarie guidate da un grande partito. Così come può essere che senza volerlo si ritrovi a Palazzo Chigi a complimentarsi al telefono con Trump per la sua rielezione. I tempi sono fluidi e l’avventura è bella.

Il puntiglio della verità

Download PDF

Nella serata di lunedì 2 gennaio, su Rai Tre, è andata in onda ad opera della trasmissione “Report” una lunghissima ricostruzione delle stragi del biennio 1992-1993, quelle in cui, assieme ad altre decine di persone, persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino e furono attaccate chiese e monumenti in varie parti d’Italia. Il motivo di tale ricostruzione è che stanno emergendo nuovi elementi giudiziari a favore dell’ipotesi che individui che presero parte a tali attentati si ritrovano nella precedente stagione stragista e golpista degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. In particolare, una delle figure di collegamento più importanti sarebbe Stefano Delle Chiaie, fondatore di Avanguardia Nazionale, organizzazione neofascista sciolta e più volte risorta dalle sue ceneri come l’araba fenice, operativa pare addirittura sino a tutto il 2018. Stefano Delle Chiaie, passato a miglior vita nel 2019, proviene da quel mondo missino che secondo gli odierni esponenti del movimento smargiasso insediatosi al governo della Nazione avrebbe contribuito all’inserimento degli sconfitti del fascismo nel gioco della rinata democrazia. Si tratta di una affermazione che nel suo cinismo politico, tipico di questo abile manipolo di manipolatori, ha un suo fondamento storico. La Fiamma, infatti, quale dialettica copertura legale di un vasto ambiente illegale – e stiamo parlando di legalità “borghese”, ma evidentemente in determinate situazioni storiche a Monsieur le Capital non basta neppure quella per averla vinta! –, ha contribuito fortemente a far sì che la democrazia italiana si allontanasse quanto più è possibile dall’improvvido disegno costituzionale per assumere quella fisionomia anfibia di doppio Stato non solo consono all’intima essenza nazionale, ma soprattutto funzionale agli equilibri internazionali in cui l’Italia, grazie al ben operare dei nazionalisti in orbace figli della Lupa, dal 1945 si trova felicemente inserita, scilicet asservita. La domanda però non è storica ma urgentemente attuale, e cioè come mai, nel momento in cui lo strato più recondito e ambiguo dell’anticomunismo atlantista comincia a muovere i suoi primi passi di governo, una trasmissione come “Report” possa ripercorrere le stagioni dello stragismo politico in cui tale strato, a voler stare alle sole evidenze giudiziarie, appare profondamente invischiato. Evidentemente, ci sono mondi che si guatano a distanza e, come nel gioco di chi sa che io so che tu sai che io so, si mandano segnali, si lanciano avvertimenti, si misurano la forza. La partita insomma non è chiusa. E, del resto, lo si era capito quando, durante il caos della presidenza Trump, settori importanti del carico della nave erano stati spostati in direzioni inusitate – la Cina, la Russia. Bisogna dirlo, in modo abborracciato, con immaturità, senza alcuna chiara elaborazione politica. Sicché, quando sia pur a fatica il blocco imperiale ha ripreso il controllo, come accade sempre nelle epoche di basso impero è stato facile per i pretoriani della Nazione proporsi quale nuovo ceto di governo. È altrettanto facile prevedere che quanto più aumenteranno le spinte per un sovvertimento presidenzialistico della Costituzione vigente, tanto più si moltiplicheranno questi segnali. E quanto più gli equilibri internazionali si mostreranno deboli e friabili, tanto più il confronto tra questi mondi contrapposti diventerà una lotta accanita per la sopravvivenza. Poiché appare chiaro che il significato effettivo di una possibile riforma presidenzialistica, almeno per quanto riguarda il passato, è la definitiva messa a tacere di una storia inconfessabile, quella per la quale l’ipotesi di una timida, socialdemocratica “repubblica fondata sul lavoro” è stata impedita dalla brutale realtà di una “repubblica basata sulle bombe”. Del resto, già da tempo la Bombocrazia mette in scena nelle più alte cariche le sue tragedie shakespeariane. A favorire l’elezione dell’attuale Presidente della Repubblica fu un certo senatore fiorentino, promotore dell’ultimo sfortunato assalto costituzionale, sulla cui eccellenza nelle arti politiche della corrotta Danimarca, messe al servizio del più devoto atlantismo, non c’è bisogno di spendere altre parole. E oggi, l’attuale Presidente, che in una famosa foto appare mentre prende fra le braccia il fratello ferito a morte nell’attentato opera, a quanto sembra, dell’usuale connection tra mafia, apparati di stato e neofascismo, oggi dicevamo a quel mondo predica come Francesco al lupo di Gubbio la mitezza della Costituzione vigente, suggerendo così oggettivamente l’idea che un’alta carica è forse la migliore pietra tombale sulle esigenze di giustizia. Ma nel paese della commedia dell’arte alle tragedie shakespeariane fanno da contrappunto le baruffe chiozzotte, alla sfocata, drammatica foto del fratello che trae fuori dall’auto il congiunto ucciso dall’ignoto assassino dagli occhi di ghiaccio fa da controcanto la più recente foto “social” delle vestali del rampante movimento smargiasso che, agghindate per il cenone di fine anno, con molle posa fanno gli auguri «anche ai rosiconi che non si ricrederanno mai per puntiglio». Eh, già, perché la verità è un puntiglio…

Mambo italiano

Download PDF

Uno dei personaggi più caratteristici interpretati da Sofia Loren è l’avvenente pescivendola di Pane Amore e…, film di Dino Risi del 1955, soprannominata dal popolo “la Smargiassa” per le molte arie e la prepotenza con cui porta avanti la sua modesta vita in cui si propone di poter continuare ad abitare con un belloccio senza arte né parte, di cui intanto si è innamorata, nella casa che occupa da tempo ma che il proprietario, un vecchio ma piacente maresciallo dei carabinieri in pensione, interpretato da Vittorio De Sica, venuto a dirigere il locale Comando dei Vigili Urbani e assai sensibile al suo fascino femminile, adesso reclama. La Smargiassa non esita a lusingarlo per strappargli la firma di un regolare contratto d’affitto, ballando addirittura sotto gli occhi di tutti un Mambo italiano che ha reso famoso il film in tutto il mondo, ma quando l’innamorato buono a nulla scoprendo che i compaesani se lo additano come cornuto decide di partire emigrato, il suo castello di carte si affloscia nel pianto e ci vuole tutta l’interessata indulgenza del vecchio carabiniere, intanto consolatosi con una zitella in cui arde un più rispondente fuoco nascosto, per rimettere a posto le cose consentendole così di coronare il suo piccolo sogno d’amore. 

A seguito delle elezioni politiche del 25 settembre, annunciata dai prodigiosi sondaggi dei mesi precedenti, nel fatuo firmamento della politica italiana è apparsa una Smargiassa della cui luce marescialli e maresciallesse in servizio e in pensione nei tanti Comandi della ristretta ancorché effervescente vita pubblica italiana si stanno beando. Le arie non le mancano e neanche l’irruenza. Con la mano chiama e ferma gli applausi, scandisce pause teatrali con cui atterra gli avversari, meglio se avversarie, pareggia i fogli degli appunti picchiettandoli minacciosi sul tavolo, protende il busto in avanti e sguardo basso carica le parole scagliandole su chi ascolta, insomma tutte le astuzie sceniche delle fumose assemblee di sezione di un partito catacombale come il fu Movimento Sociale Italiano, quando ci si riuniva per fissare la linea, imporre i chiarimenti, vincere gli scontri da cui sortire dialetticamente più forti che pria. Professionismo politico, rivendicato e seriosamente esibito a salvaguardia di contenuti che la maggioranza degli elettori superstiti ha evidentemente apprezzato – non disturbare chi fa, la pacchia è finita, non tradiremo e non indietreggeremo, ovvero vincere e vinceremo, e poco altro. Se nel film di Risi il vecchio ma piacente maresciallo dei carabinieri in pensione aveva dovuto imbastire un piccolo corteggiamento della Smargiassa pescivendola, qui non ce ne è stato bisogno. Nel suo contenuto capitalistico, la promessa di non disturbare chi fa, chi intraprende insomma e spilla plusvalore come che sia, era già chiara, e l’alleato americano è stato subito rassicurato sulla fedeltà ai patti sottoscritti. E, del resto, perché meravigliarsi di ciò? La fiamma che arde in fondo al logo del partito di maggioranza relativa si riferisce più alla fedeltà atlantica forgiata in decenni di multiformi e non sempre limpidi servizi resi all’anticomunismo militante cuore pulsante dell’atlantismo, che alla fede nel fascismo storico, ormai retaggio folkloristico buono per i musei privati di qualche esponente di quel mondo assurto recentemente ad una delle massime cariche dello Stato. È però al momento della presa di possesso dell’appartamento che qualcosa si è incagliata in questa perfetta messa in scena in cui la servitù viene ammessa alla tavola dei signori. È bastato infatti che l’ex-magistrato Scarpinato, ora senatore, richiamasse in Parlamento quei trascorsi opachi, per giunta evidenziando il loro contenuto capitalistico, il nesso cioè tra l’atlantismo anche nei suoi aspetti criminali e l’eversione politica del dettato economico della Costituzione che il governo appena insediatosi si propone di perpetuare, perché le molte arie, l’irruenza, la sicumera del professionismo politico smargiasso si sgonfiassero di colpo, tanto da dover incorrere con modi spicci (“questo è tutto ciò che ho da dire”) nell’inesattezza e addirittura nel falso. All’ex-magistrato Scarpinato infatti, pareggiando fogli e scagliando parole a sguardo basso, è stato velatamente rimproverato un “teorema giudiziario” circa la strage in cui perse la vita Paolo Borsellino, che egli invece quale Procuratore generale contribuì a smascherare. Come sappiamo, la pescivendola smargiassa finisce in lacrime vittima dei suoi stessi intrighi, e ci vuole l’indulgenza del vecchio carabiniere per rimettere assieme i cocci del suo rapporto con il moroso sul punto di lasciarla. L’alleato americano è vecchio ma francamente è difficile immaginarlo indulgente e ancor meno appagato da un semplice per quanto ammaliante Mambo italiano. Quel che gli si promette lo vuole senza sconti. Più facile, perciò, è che si arrivi a una resa dei conti alla Sergio Leone con gli smargiassi che da decenni gli si strusciano per scroccare uno straccio di contratto d’affitto che, dopo i disastri del Ventennio e il purgatorio dei bassi servizi, li riporti al comando assoluto benché “democratico” della… Nazione. E che Dio protegga il paese Italia.