Il Paese che non cresce più

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Il rimprovero che Gramsci muove alla storiografia di Croce è di occultare la genesi conflittuale degli equilibri sociali. La storia così coinciderebbe con le fasi di “rivoluzione passiva”, ovvero con la spinta inerziale del momento genetico. Al periodo 1789-1815 seguirebbe così la lunga fase “liberale” che giunge sino al 1870, e al periodo 1917-1922 seguirebbe la “guerra di posizione” di cui il fascismo, con la sua cripto-politica di piano, sarebbe l’emblematico rappresentante ideologico (Q. 10, § 9). Gramsci aggiunge anche che «la libera concorrenza e il libero scambio corrisponderebbero alla guerra di movimento» (ibidem). Senza bisogno di scomodare la longue durée, queste osservazioni sembrano ancora utilissime per comprendere il significato del trentennio successivo al 1980, una vera e propria “guerra di movimento” che il “liberismo” avrebbe condotto su scala mondiale, con momenti di autentica “guerra guerreggiata”, come nell’aurorale golpe cileno del 1973, attuato con la “scientifica” copertura monetaristica dei Chicago Boys. D’altra parte, certe lotte ideologiche che avvennero in Italia all’inizio del XX secolo sono radici viventi di una storia ancora in essere. All’inizio del XX secolo, in Italia, Croce adotta contro il materialismo storico il punto di vista “scientifico” dell’economia “quantitativa”, cui poi contrappone la sua Economia filosofica. E così il materialismo storico “muore” – muore, cioè, l’idea normativa della società come sistema reale di valori economici, linguistici, morali che sorgono spontaneamente dal corso storico. La conseguenza è che l’“economico” può essere ridotto ad un ambito particolare della prassi, il “vitale”, che ottimisticamente – “goethianamente”, direbbe Gramsci – si ritiene possa essere filtrato e addomesticato dalle forme superiori dello spirito. Sono così poste le basi filosofiche di quella scissione che, decenni dopo, produrrà il “miracolo economico italiano”, cioè il marxiano “sfrenato movimento” che progressivamente si sottrae alle pretese delle altre forme dello spirito, sino a farsene apertamente beffe con il berlusconismo, fase suprema dell’economicismo italiano. A un secolo di distanza, dopo che l’economia “quantitativa” ha mostrato tutti i suoi limiti come pretesa scienza esatta dell’economia, la questione può essere ripresa sottolineando proprio quell’idea normativa di società come sistema reale di valori, con la ricaduta pratica di poter finalmente lavorare al passaggio nell’ideologia italiana ad un equilibrio superiore, richiesto dall’impasse odierna che si manifesta nella percezione che tutti abbiamo di “un Paese che non cresce più”.

Troppo

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Non si può non restare ammirati dell’abilità e della prontezza con cui i tedeschi, nel breve volgere degli anni dell’unificazione, hanno edificato, a Berlino, il Deutsches Historisches Museum, cioè il tempio della loro nuova coscienza nazionale. Le omissioni non mancano. Per il periodo 1524-1526, niente sulla guerra dei contadini. Per il periodo 1789-1848, niente su Hegel e neanche su von Kleist. Per il periodo del secondo dopoguerra, niente su Baader-Meinhof. Il primo e l’ultimo sono buchi comprensibili in una memoria il cui percorso è organizzato in modo che spazialmente tocchi il suo apice in Kant e nell’illuminismo tedesco, e poi fluisca sino ai nostri giorni che, e già siamo all’uscita, si concludono con la scrivania in legno chiaro di Erich Honecker, completa di bottoniera stile anni Sessanta, esibita come un trofeo tolto al nemico sconfitto. E se si può capire che non ci sia niente su von Kleist, perché niente su Hegel? Non è forse, altrettando quanto Kant, una grande gloria del pensiero filosofico tedesco? La lettura di un libretto di Costanzo Preve, tanto accademico nel titolo, Storia dell’etica, quanto antiaccademico nel suo contenuto, offre una chiave per il piccolo ma non insignificante enigma. Riconoscersi nell’impostazione filosofica di Hegel, scrive il nostro filosofo, uno degli ultimi, se non l’unico, oggi in Italia, a concepire e praticare la filosofia come un tonificante “campo di battaglia“, «significa cogliere e salvare il punto essenziale, e cioè che l’impostazione kantiana porta alla paralisi dei dilemmi morali insolubili dell’anima bella programmaticamente impotente, mentre invece l’inserimento provocatoriamente “eteronomo” dell’etica nella comunità storicamente costituitasi è il solo modo di produrre un’etica realmente applicabile» (p. 131). Ecco, omettendo Hegel e celebrando Kant, i tedeschi dell’inizio del XXI secolo è come se avessero voluto rifuggire dal pericolo di trovarsi di nuovo invischiati in un’etica comunitaria realmente applicabile, che nei decenni della guerra fredda aveva assunto le fattezze indesiderabili e fallimentari della vecchia DDR. Hanno voluto sottolineare piuttosto il loro bisogno di una morale impossibile che rendesse poi nella pratica tutto possibile, secondo il criterio del prezzo di un’economia ricostruita attorno alla potenza del marco, egemonicamente trasfigurato nell’euro. Per cui, uscito dal Deutsches Historisches Museum, il visitatore che precedentemente ha avuto l’avventura di contemplare nel modesto ma sorprendente Kunst Museum la serissima arte della ex Germania dell’Est, è preso come da una vertigine davanti ai volti e agli atteggiamenti che può osservare al Gourmet Floor di quello che si vanta essere il più grande magazzino dell’Europa continentale, il KaDeWe, ovvero il Kaufhaus des Westens, dove Grosz potrebbe continuare a raffigurare sempre le stesse espressioni suine, come nei mitici anni Venti del secolo scorso quando, come oggi, tutto era “troppo”.

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In un video debordante di marketing istituzionale1, il “vassallo” Stefano Caldoro, “governatore” della Regione Campania, impetra l’“imperatrice” Angela Merkel, Führerin del nuovo Finanzreich tedesco, graziosamente in vacanza a Ischia, di gettare uno sguardo pietoso sulla gioventù derelitta che si accalca nei suburbi partenopei dove, «per ogni giovane tedesco occupato, ce ne sono dieci disoccupati». Tutto ok, in questa Europa neofeudale. Da notare solo che Caldoro, per quanto giovane, ha fatto in tempo ad essere un ex-socialista del XX secolo, smacchiato dalla pluripremiata lavanderia Berlusconi, e Angela Merkel è una scienziata formata dal sistema scolastico di quell’“universo del male” che aveva il suo centro a Mosca, dove ella andava in vacanza, prima di approdare ai più ridenti lidi euromediterranei.

  1. http://video.corrieredelmezzogiorno.corriere.it/caldoro-appello-tedesco-merker/cm-176671 []

Una tipica alchimia

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A proposito di Federico Aldovrandi, il giovane morto a Ferrara, il 25 settembre del 2005, sotto le ginocchia di poliziotti molto zelanti nel loro intento di immobilizzarlo, Antonia Sani, su “il manifesto” di oggi, scrive che quell’«azione ignominiosa» è da spiegarsi con «la mentalità di molta parte dei cittadini ferraresi, mentalità che porta automaticamente al rifiuto di ogni trasgressione. E alla maniera dura per reprimerle». Questa mentalità, non sarebbe il frutto di un fascismo perenne, ma sarebbe da ascriversi a «60 anni di amministrazioni comunali, provinciali, di sinistra (o, come in passato venivano definite, “social-comuniste”). Almeno due generazioni di ferraresi si sono formate sotto queste amministrazioni. Amministrazioni che hanno saputo coltivare nella popolazione un forte senso dell’obbedienza ai superiori e all’ordine tradizionale». La Sani poi ancora scrive: «Nell’estate del 1985 frequentavo la piscina comunale, nella quale si succedevano continui divieti proclamati al microfono; addirittura nella serata di ferragosto l’uso della piscina fu sospeso perché un ragazzo aveva toccato una ragazza nell’acqua, cosa proibita da un comunicato. È di questi giorni la risposta di un taxista al quale chiedevo di lasciarmi in un certo luogo della Stazione: “sì, se non mi fa fare qualcosa che non posso fare”». Mi sembra una puntualizzazione non da poco. Il fascismo è stato anche educazione alla legge e all’ordine, ma era soprattutto guerra di classe. L’autoritarismo degli anni della Repubblica, invece, senza distinzione tra una prima e una seconda, è il costume, anche nelle sue punte puritane, funzionale al consumo capitalistico, una società pacificata dal compromesso keynesiano, dove in ogni ceto, specie negli antichi strati subalterni, la trasgressione è occultamente sollecitata come aspirazione morale, ma spietatamente repressa quando si materializza in un qualche comportamento che, specie se proveniente dai subalterni, possa minacciare l’esistenza della norma autoritaria. Bisogna prendere atto che la “Costituzione più bella del mondo” ha coperto questo verminaio autoritario, che prima aveva le fattezze presentabili e per bene della DC e del PCI, e poi, nell’ora del degrado, ha vestito i panni truci e volgari del leghismo e del berlusconismo. Rispetto a ciò, Grillo è la vischiosità del vecchio impastata con l’urgenza del nuovo, un antiautoritarismo intransigente generato da un autoritarismo parossistico. Una tipica alchimia di una crescita di cui nessuno si è saputo fare carico.

Un attore timido

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All’apice del successo, è come se Grillo si fosse bloccato. È andato al Quirinale, aveva una platea mondiale ai suoi piedi, ma lui zitto, all’entrata e all’uscita, si è fatta solo la solita foto col colombo in mano del provinciale che riesce a mettere piede nel posto esclusivo, e poi è fuggito nel suo triste van piccolo-borghese, infrangendo un bel po’ di regole stradali, e finendo così per scontentare i suoi fan più puristi, che invece dello spirito civico fanno un tratto distintivo del loro impegno cinquestellato. Strategie comunicative o la timidezza improvvisa di chi si trova a recitare una parte più grande di lui?