L‘Europa odierna è un cumulo di paradossi. Si prenda il suo deficit di consenso popolare e il suo contrastato rapporto con la Russia. Con la tremenda terminologia informazionale, si potrebbe dire che, dal punto di vista ideologico, l’UE è il risultato di una programmazione top-down, analoga alle “rivoluzioni passive” che portarono all’unificazione dell’Italia o della Germania nel secolo XIX, o alla risurrezione della Polonia dopo la prima guerra mondiale. Uno degli ultimi atti di questa programazione è stato il progetto Barroso del 2014 di una “nuova narrazione europea”. Sono stati mobilitati artisti, scrittori e scienziati, per creare con pubblicazioni, dibattiti, siti internet, un movimento nazionale popolare. Peccato però che questa narrazione non sia riuscita minimamente a diventare popolare. I dibattiti legati a quell’iniziativa sono rimasti pura chiacchiera di alto bordo, e il sito internet dedicato ai giovani, per farli interloquire con l’Europa, è ancora presente ma non sembra essere stato recentemente aggiornato. Dunque, per quanto ci si sforzi, l’Europa resta un’idea che piomba dall’alto su “mondi vitali” ai quali chiede di fare harakiri in nome di una isterica costellazione di valori, mercato, concorrenza, cosmopolitismo, sviluppo, razionalità, che finisce per esacerbare il problema che vuole risolvere, ovvero la contrapposizione tra città e campagna, tra urbanesimo e ruralismo, tra modernità e tradizione.
In tutto questo, con la sua ideologia eurasiatistica, la Russia ha buon gioco a proporsi come paladina della tradizione, della campagna, della ruralità. E se questa ideologia non passa in Polonia o in Ucraina, dove domina il secolare nazionalismo anti-russo, più facilmente passa in Ungheria o in Serbia, ma anche nell’Europa meridionale, dove diventa lo sfondo per un approccio simpatetico strumentalmente “commerciale”, esemplificato dal detto secondo il quale i russi sono i napoletani del nord. La minaccia russa è dunque creata dall’Europa stessa, che non solo si aliena da sé nel mercato e nella modernità, ma offre alla Russia il pretesto per permanere nella propria stasi, dove può prosperare la sfacciata oligarchia che, sorta con la dissoluzione dell’URSS, arriva al punto di assoldare per i propri affari un ex-cancelliere tedesco.
Su questo dettaglio si potrebbe ulteriormente ricamare, trattandosi di un ex-cancelliere socialdemocratico. Nel nome del petrolio, i nipotini di Lenin si sono dunque rappacificati con i nipotini del rinnegato Kautsky. Ma veniamo ad un altro paradosso europeo, che ci porta oltre la Manica e al di là dell’Atlantico. Per i conservatori britannici e americani, l’UE è un’istituzione di sinistra, mentre per tanta parte del pensiero progressista e di sinistra, nonostante le sue funzioni di redistribuzione (fondi europei) e il suo sostegno allo stato sociale (per altro sempre più blando), è parte del problema neoliberista, poiché con le sue normative uniformi e le leggi sulla concorrenza rende impossibile l’implementazione pratica delle idee di sinistra. Insomma, se ci fosse una leadership europea pro-lavoro, anziché una pro-finanzcapitalismo, un paese come la Gran Bretagna, dove Jeremy Corbin ha fatto il miracolo di riportare alla vittoria il Labour Party, potrebbe non avere più alcuna ragione di lasciare le istituzioni europee. E questo sta a dimostrare cosa potrebbe essere un’Europa non solo federale, con il suo bravo ministro del bilancio, richiesto con petulante insistenza dai finanzfederalcapitalisti, ma un’Europa anche socialista, con un suo forte e incisivo ministro del lavoro. A questo sarebbe dovuta servire la “dittatura federale” di cui scrivevano Rossi, Spinelli e Colorni nel loro Manifesto di Ventotene. Ma nell’odierna UE, dove si dovrebbe insediare questa dittatura? Esiste già la dittatura della Commissione, guardiana di una democrazia burocratica che ogni giorno che passa mostra sempre più il suo volto ipocondriaco di regime della ricchezza privata. Forse, allora, nel Parlamento europeo? Non certo così com’è. Alcuni, e Habermas fra questi, pensano che bisognerebbe varare delle liste transnazionali, in modo da favorire la formazione di un sistema di partiti europeo, in mancanza del quale il Parlamento di Strasburgo non diverrà mai il luogo degli interessi sociali. E per una tale fondamentale riforma, Habermas addita con debordante entusiasmo il genio politico di Emmanuel Macron1. Ma Macron non è colui che ha assorbito in sé destra e sinistra, proponendosi come l’ennesimo campione della programmazione top-down? Si può davvero pensare che dalla reiterazione di una tale rivoluzione dall’alto possa discendere uno spostamento dell’asse dell’UE dal capitale al lavoro? Ci sarebbe bisogno, dunque, della ripresa dal basso di un salutare conflitto di classe, di cui poi i partiti transnazionali sarebbero la naturale nomenclatura. Ma un tale conflitto è oggi impaniato in un altro dei paradossi europei, il paradosso del “panico demografico”.
Un argomento popolare vuole che un’Europa invecchiata abbia bisogno di immigrati, ma da un lato l’Europa invecchia perché il suo modello economico scoraggia i giovani europei dal produrre e riprodursi, e dall’altro l’accento sull’Europa che invecchia finisce per rafforzare un senso crescente di melanconia esistenziale. Una sinistra ideologicamente rigida fa finta di non vedere, ma ci sarà qualcuno che leggerà la poesia italiana, francese, tedesca o bulgara, fra cento anni? Gli immigrati finiscono dunque per apparire come i becchini dell’Europa, un’annuncio non di vita, ma di morte. E che dire del cosmopolitismo, di cui Schengen è l’emblema frontaliero? Gli urban men e le urban women si sentono a proprio agio nel viaggiare, vivere e lavorare in tutto il continente. Ma coloro che non possono o non vivono all’estero, hanno dei sospetti nei confronti di chi ha il cuore a Parigi o a Londra, il denaro a New York o a Cipro, e la fedeltà a Bruxelles.
Impigliata in queste contraddizioni, che ne sarà dell’Europa? Qualcuno che la sa lunga, paragona l’Europa e gli Stati Uniti con le metà occidentali e orientali dell’antico Impero Romano. L’Occidente implodeva, nel dramma, nella violenza, tra pazzi Cesari; l’Oriente bizantino rimase attivo, burocratico, stanco e prevedibile, per molti secoli. È questa nuova Bisanzio che l’Europa vuole diventare?
- J. Habermas, Si può ancora fare politica contro le false idee sull’Europa, “la Repubblica”, 28.10.2017, pp. 48-49 [↩]