Con onestà pari all’ostinazione con cui prevede che il mondo finirà inghiottito nel buco nero della tecnica, Emanuele Severino riconosce che «proporsi l’unità politica dell’Europa è comunque mirare a una politica che garantisca la gestione unitaria, dunque efficiente, del capitalismo europeo»1. Guido Rossi trova giustamente stimolante quest’analisi, e alla potenza della tecnica oppone giudiziosamente quella dell’idea. Peccato però che l’idea alla quale si appella, sia quella di un’Europa politica federalista, la quale secondo Rossi addirittura «potrà ristabilire l’ordine mondiale, dopo la fine della pax Britannica e il declino della pax Americana»2. In questi voli pindarici, Rossi è in buona compagnia. La pensa così Habermas, e la pensa così Scalfari, per citarne solo alcuni. Scalfari, in particolare, nei suoi articoli domenicali prospetta un mondo globalizzato governato da un direttorio composto da USA, UE, Russia, India e Cina. È una prospettiva che si ammanta di realistica saggezza, ma che in realtà occulta dati di fatto essenziali. Un tale direttorio, infatti, è tutt’altro che una meta di stabilità, per fatti logici e storici. Il fatto logico è che il federalismo non è portatore né di reciprocità tra governanti e governati, né di pace tra le nazioni. Il federalismo comporta una verticalizzazione del potere, e dà luogo a Stati che perseguno in vario modo la potenza. Basta ripassarsi la storia degli Stati Uniti, ma anche solo della Confederazione elvetica, per avere molte conferme storiche. Si dirà, ma come, la pacifica Svizzera persegue la potenza? A parte che la pacifica Svizzera è fra i paesi con la più alta diffusione di armi da fuoco, che fanno la loro comparsa nelle non infrequenti esplosioni psicotiche che rodono quel paradiso terrestre. Ma questa è una violenza interna. Ciò che conta è che con la potenza finanziaria dei suoi gnomi, la Svizzera ha prefigurato ciò che oggi sta diventando l’Europa con l’euro, il quale è la sublimazione finanziaria di ciò che un tempo fu la potenza militare. La sublimazione è un processo difficilmente controllabile, così a Rossi con le migliori intenzioni scappa di dire che l’Europa finalmente federale ristabilirà l’ordine mondiale. Come volevasi dimostrare. Un altro fatto che Scalfari occulta con la sua prospettiva di un direttorio mondiale composto dai cinque “grandi”, è che Russia, India e Cina non sono né Stati né nazioni, ma solo “grandi spazi”. In Russia, c’è chi, come Aleksandr Dugin, ascoltato consigliere di Putin, rivendica questo fatto, parlando di “grande spazio eurasiatico”. Ora, il “grande spazio” è stabile come un castello di carte. Non è un caso che la millenaria Cina è colta dal terrore davanti alla fermezza con cui un uomo solo come Liu Xiaobo rivendica, sebbene, come lui stesso riconosce, con l’antiquato linguaggio della scienza politica occidentale, la “democratizzazione” della Cina, cioè la scomposizione ed emancipazione delle molte etnie che formano il suo spazio imperiale, di cui ciò che fu il glorioso Partito comunista cinese si è ridotto ad essere l’ultimo, ringhioso cane da guardia. Lo stesso si può dire dell’India, dove la presenza in superfice di istituzioni rappresentative rende solo più flessibili le oscillazioni profonde del castello di carte. Un mondo retto da un direttorio di tal fatta è dunque un mondo in cui popoli e nazioni saranno governati con il bastone del lavoro servile e con la carota di qualche lustrino consumistico. Non meraviglia che Scalfari non veda tutto ciò, essendo egli fermatosi nella sua analisi del capitalismo alla nozione puramente polemica di “razza padrona”. Severino, invece, nella sua analisi delle prospettive europee e mondiali, non ha nessuna remora a ricollegarsi alle analisi di Marx sul denaro, anche se la redazione del Corriere gli fa i brutti scherzi, come Landini al Marchionne di Maurizio Crozza. In una didascalia che dovrebbe spiegare all’inclita chi è Karl Marx, di cui si riproduce la classica icona del Carlo barbuto, il redattore scrive infatti che costui «nel suo famoso libro Il Capitale elaborò un’analisi dell’economia industriale moderna che oggi appare superata». Come mai allora il Corriere pubblica un articolo che si rifà alle tesi di tale “superato” filosofo? Tornando alle cose serie, il capitalismo di cui Severino con tanta spregiudicatezza vede lo stato di crisi terminale, è lo stesso sistema che, specie in questa fase di capitalismo assoluto, non ammette né pace, né reciprocità tra governanti e governati, ovvero le due cose di cui più ha bisogno il mondo di domani. Se c’è dunque un contributo che l’Europa può dare a tale mondo a venire, è quello di coltivare e sviluppare le differenze, ma in modo tale che ogni differenza sia una lingua universale in cui tutte le altre possano essere comprese e tradotte. È quello cui aspirarono gli uomini dell’Umanesimo, del Rinascimento e dell’Illuminismo, ma fermandosi per vincoli strutturali davanti all’invalicabile limite delle piccole cerchie intellettuali. La sfida ora è di scrivere quel grande libro passando dall’intelletto individuale alla mente collettiva.