capitalismo assoluto

L’ineludibile principio. Sul Gramsci di Angelo Rossi

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Habent sua fata libelli, e così il libro di Angelo Rossi su Gramsci1, tutto interno all’interpretazione gramsciana, di cui innova metodi e risultati2, per il momento in cui è uscito sembra divenuto la spiegazione filosofica dell’attualità politica italiana. Può sembrare un’esagerazione, ma all’indomani del 25 maggio, giorno della trionfale vittoria di Renzi alle Europee, Alfredo Reichlin, scrivendo su uno degli ultimi numeri de “l’Unità”, prima della sua chiusura, ha visto nel PD incarnarsi il “partito della nazione” che da tempo la sinistra aspettava3. E, più recentemente, Pierluigi Bersani, riprendendo il discorso, stimolato anche dalle lettere di Togliatti nel frattempo edite con un titolo che suggestivamente evoca, dal ’44 al ’64, l’esistenza di una “guerra di posizione in Italia”4, ha parlato di una sinistra italiana non esattamente sovrapponibile a quella delle socialdemocrazie europee, cui è rimasto in vena il concetto di responsabilità nazionale5. Dopo decenni di rivendicazione del “socialismo europeo”, fa un certo effetto sentir rimarcare il distacco dalle “socialdemocrazie europee”. Forse che non si faceva così nelle vecchie sezioni del PCI? Tanto più che il “partito della nazione”, per essere tale, deve smettere secondo Reichlin di massacrare i diritti dei lavoratori, e deve rompere con l’austerità spacciata per “riforme”. Basterebbe aggiungere che le “riforme”, per esser tali, debbono essere “riforme di struttura”, e Togliatti sarebbe di nuovo tra di noi. Insomma, sono tutte queste risonanze, che come dei motivetti ben conosciuti si fanno facilmente completare, che inducono a dire che il libro di Angelo Rossi sembra apparso apposta per fornire ad esse il loro naturale retroterra filosofico. Il Gramsci che esso ci consegna è, infatti, il Gramsci teorico del moderno, fautore della democrazia, politico riformatore, che ispira una tradizione politica, quella togliattiana, in cui il partito non può tradire la nazione, ma se ne fa carico, perché il progresso della “nazione” coincide con quello delle “classi lavoratrici”.

Apro qui una parentesi, circa la tesi di Rossi sul Gramsci “democratico”. Su questo punto, Rossi si spinge a sostenere che la democrazia di Gramsci non è solo democrazia sostanziale, ma anche rappresentativa. La tesi mi sembra artificiosa, tanto quanto quella di un Gramsci liberale, e sconta una debolezza teorica che storici della democrazia, che un tempo si sarebbero detti “borghesi”, come ad esempio John Dunn, non patiscono. Quest’ultimo infatti riconosce che con la democrazia rappresentativa «non si poteva garantire concretamente la perenne vittoria ai fautori dell’opulenza e della distinzione, ma si poteva stabilire, e in effetti lo si fece, un’arena in cui quella vittoria poteva essere ripetutamente ricercata e raggiunta attraverso i giudizi e le scelte dei cittadini»6. Ciò significa che il problema della democrazia dipende dal fine, che ci si propone o meno, di fuoriuscire dalla “arena dell’opulenza e della distinzione”, determinata da precostruiti culturali ad esse favorevoli, “naturalmente” maggioritari fra chi deve decidere. La democrazia, quindi, riposa su una ontologia sociale che limita a priori i contenuti che si possono “processare” nelle sue forme, e quando questa ontologia viene violata, non necessariamente con la forza, scatta la reazione, questa sì violenta, di coloro che hanno originariamente, in senso sia logico che storico, delimitato i confini dell’“arena” (vedi il caso storico paradigmatico del Cile di Allende, nel 1973). Ora, non c’è dubbio che Gramsci, nella misura in cui si propone di unificare “culturalmente” la società, si propone anche di fuoriuscire da tale arena, anche se, come accenneremo appresso, con lo strumento ambiguo della modernizzazione. Egli si trova, dunque, in un dilemma democratico, ma non si può dire certo che sia un fautore della democrazia rappresentativa. Sostenerlo, come fa Rossi, equivale a privarlo di una sua tipica tensione teorica.

Ma torniamo al filo del discorso. Dicevamo Gramsci teorico del moderno, fautore della democrazia, politico riformatore, che ispira la tradizione politica togliattiana, con il suo principio di responsabilità nazionale. La domanda, allora, è quanto dura una tradizione politica? Quando arriva il momento in cui si deve ammettere che si è esaurita? La guerra di posizione in Italia è finita o continua, come sostiene il senatore bersaniano Alfredo D’Attorre, anche lui richiamandosi al libro togliattiano prima citato7? Siamo ancora, non solo dentro, ma addirittura all’apice di quella tradizione politica, come pure le affermazioni di Reichlin, Bersani e D’Attorre farebbero pensare, oppure siamo non all’epilogo, ma addirittura ben al di là di esso? Molti anni fa, ormai una trentina, un filosofo conservatore cattolico, Augusto Del Noce, avanzò di Gramsci una interpretazione che è l’opposto complementare di quella odierna di Rossi8. Anche per Del Noce Gramsci era un teorico della modernità, il fautore di un “nuovo conformismo” dove gli interessi dei lavoratori coincidevano con quelli della nazione, un politico non dottrinario ma portatore di un robusto programma riformatore, di cui la scuola, esattamente come sostiene Rossi9, sebbene ex contraria parte, era il fulcro per costruire la nuova egemonia10. Ma se Rossi si limita solo a stigmatizzare velatamente chi non ha avuto cura e fede nel partito11, sospendendo ogni giudizio su una tradizione politica che pure gli fornisce non poche suggestioni per ricostruire quei Quaderni da cui fa discendere quella stessa tradizione12, la conclusione di Del Noce già trent’anni fa era invece infausta. Gramsci aveva vinto, ma fallendo, nel senso che aveva portato “la rivoluzone al suicidio”. Aveva torto o ragione Del Noce? Qui dobbiamo un attimo addentrarci dentro la sua tesi, prendendo in considerazione i due punti che mi sembrano essenziali, cioè l’ideologia antifascista e il passaggio completo dello “spirito borghese” allo stadio calcolistico-strumentale. Di che si tratta?

Secondo Del Noce, la funzione dell’ideologia antifascista è ben evidenziata da una critica dell’antico avversario di Gramsci, Amadeo Bordiga che, nella sua ultima intervista, ancora ribadiva che l’antifascismo aveva dato «vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezziborghesi, intellettuali e laici»13. Quanto al pieno raggiungimento dello stadio calcolistico-strumentale dello “spirito borghese”, Del Noce riprende la tesi di Max Horkheimer circa l’esistenza di due stadi in tale processo, un primo stadio di compromesso, in cui valori non borghesi come onore, responsabilità e onestà vengono conservati e resi funzionali allo sviluppo capitalistico, consentendo ai centri della loro diffusione, come la famiglia cristianamente intesa, di continuare ad operare; un secondo stadio, infine, in cui tali valori entrano definitivamente in conflitto con lo sviluppo capitalistico. Si impone allora il loro superamento, che può venire spacciato come superamento del capitalismo stesso, mentre invece si tratta del suo pieno dispiegamento, fondato sull’abolizione del mistero e della qualità, e sulla loro sostituzione con dati misurabili e quantitativi. Ora, secondo Del Noce, all’affermazione di questo stadio finale del capitalismo, la strategia gramsciana della modernizzazione fornisce un involontario supporto per realizzarsi allo stato puro, venendo così a trovarsi completamente assorbita nella transizione che, dal capitalismo al socialismo quale doveva essere, è invece solo dalla vecchia alla nuova forma totalitaria del capitalismo, quella in cui non si censurano tanto le risposte con la forza, ma si rendono impossibili le domande per via pedagogica14.

Ora, può anche essere che la tesi di Del Noce sia solo un ammasso di sofismi, ma l’unico modo di saperlo è di uscire fuori dalle interpretazioni, e guardare ai fatti. Uno di questi attiene all’ideologia antifascista, e si è prodotto nella primavera del 2013, quando la banca d’affari Morgan Stanley ha messo in circolazione un documento in cui si affermava che le costituzioni antifasciste dei paesi mediterranei (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo) costituiscono un serio ostacolo all’implementazione delle politiche di “libero mercato” già adottate nell’ultimo trentennio in altri paesi, e che sole potrebbero garantire il loro ritorno alla “crescita”15. A pensarci bene, questo documento si può considerare un omaggio postumo ad Amadeo Bordiga il quale, lungi dall’essere quel fossile rivoluzionario che passò per essere in vita, si rivela in realtà un osservatore dalla vista lunga. Infatti, Morgan Stanley è il più tipico esponente di quei “grandi plutocrati” che sotto l’egida dell’antifascismo hanno convissuto per decenni non solo con “mezziborghesi, intellettuali e laici”, ma anche con i movimenti dei lavoratori di ogni paese avanzato. Sicuramente adesso qualcuno salterà sù a dire che questo rigurgito di bordighismo è semplicemente ridicolo. Ma la domanda che dobbiamo porci non è se Bordiga aveva ragione e Gramsci e Togliatti torto, o viceversa, ma perché nella primavera del 2013, dopo trent’anni e passa di martellamento calcolistico-strumentale, e sei di “crisi economica” conclamata, una grande organizzazione “plutocratica” decide di ripudiare l’ideologia antifascista. Le risposte possono essere tante, ma quella che mi sembra non poco plausibile è che, nella sua irrefrenabile espansione totalitaria, il capitalismo assoluto non ha più nulla da guadagnare a tenere in piedi la veneranda coalizione antifascista, anzi, tenerla in vita rischia di attribuire ai residui “movimenti dei lavoratori”, ai “subalterni”, ai “proletari”, un potere di contrattazione non più rispondente al loro effettivo ruolo sociale e peso politico. In altri termini, l’ideologia antifascista è un ostacolo al raggiungimento di quello stadio totalitario della modernizzazione in cui non ci sono più domande da porre, non per forza di censura ma perchè, come il Dio del catechismo, non c’è altra realtà all’infuori di quella capitalistica. Questa “religione della merce”16 può sembrare un’astratta costruzione ideologica, ma anche qui, valgano i fatti. Ecco quanto Jean-Claude Trichet e Mario Draghi scrivevano al governo italiano, il 5 agosto del 2011:

«Nell’attuale situazione, riteniamo essenziali [che il governo italiano adotti ] le seguenti misure: […] È necessaria […] la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala. […] C’é anche l’esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione […] E’ possibile intervenire ulteriormente nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità e riportando l’età del ritiro delle donne nel settore privato rapidamente in linea con quella stabilita per il settore pubblico, così ottenendo dei risparmi già nel 2012. Inoltre, il Governo dovrebbe valutare una riduzione significativa dei costi del pubblico impiego, rafforzando le regole per il turnover (il ricambio, ndr) e, se necessario, riducendo gli stipendi. […] Vista la gravità dell’attuale situazione sui mercati finanziari, consideriamo cruciale che tutte le azioni elencate […] siano prese il prima possibile per decreto legge […] Sarebbe appropriata anche una riforma costituzionale che renda più stringenti le regole di bilancio […] Incoraggiamo inoltre il Governo a prendere immediatamente misure per […] migliorare […] la capacità dell’amministrazione pubblica di assecondare le esigenze delle imprese. […] C’é l’esigenza di un forte impegno ad abolire o a fondere alcuni strati amministrativi intermedi (come le Province)»17.

Documenti simili è possibile produrne per ogni altro paese che sia passato per le cure di organismi finanziari internazionali, come il FMI, o di organismi politici cosiddetti “tecnocratici”, come la Commisisone Europea. E fatti che attestino il predominio delle “esigenze specifiche delle aziende”, cioè del feticcio della merce, è possibile produrne per ogni ambito dell’odierna vita sociale. Dire perciò che il capitalismo assoluto, con il pretesto della “crisi economico-finanziaria”, è proteso gagliardamente verso il suo nirvana totalitario, è solo un’affermazione che rispecchia un fatto oggettivo. Allora, aveva ragione Del Noce a dire che Gramsci, con la sua strategia modernizzatrice, in cui gli interessi delle “classi lavoratrici” coincidono con quelli della “nazione”, aveva vinto fallendo, ovvero favorendo l’avvento dello stadio supremo del capitalismo assoluto? Una cosa che tanto Del Noce, quanto Rossi, non sottolineano abbastanza è che, quando Gramsci, sotto il tema dell’“americanismo”, parla di modernizzazione, insiste sempre sull’unificazione “culturale” della società. Ciò vuol dire che la modernizzazione, per Gramsci, è il salto in una nuova ontologia sociale, oltre l’arena dell’opulenza e della distinzione. Il rivoluzionamento della struttura non è perciò un fatto solamente “economico”. Del Noce offusca questo tema con i suoi fumi della desacralizzazione nichilistica cui Gramsci approderebbe con il suo immanentismo18. Qui non vale più la pena di seguirlo. Ma certo da Rossi, che ricostruisce politicamente la riflessione filosofica di Gramsci, ci si sarebbe aspettati una risposta su questo punto, che invece manca del tutto. Lo abbiamo già detto, Rossi si limita a stigmatizzare il fatto che non si sia avuto cura del partito, ma per il resto, non solo non dice nulla sulla politica politicienne di “responsabilità nazionale” che si è finita per trarre dall’impianto gramsciano, ma rimprovera anche assurdamente Togliatti di non avere mai avuto, a differenza di Gramsci, la “bussola” americanista19. Ma, in un certo senso, era proprio l’assenza di tale bussola che consentiva a Togliatti, tramite il “legame di ferro”, di salvaguardare il partito. E lo si è visto nel 1989 quant’era importante questo basamento. La verità è che Rossi si infila in questo ginepraio perchè nella tradizione gramscitogliattiana, all’interno della quale egli legittimamente iscrive la sua interpretazione di Gramsci, permane un elemento di opacità, quando non di rimozione, verso il tema fondamentale dell’alienazione, che è il cuore della “religione della merce”. Senza un’adeguata traduzione politica di questo tema, che bisogna riconoscere è cosa a dir poco ardua, la fondazione filosofica della trasformazione politica della realtà, che giustamente Rossi rintraccia nell’antidogmatica riflessione di Gramsci su Marx, resta esposta a quell’involontaria assimilazione alle operazioni proprie del capitalismo assoluto, rilevata a suo tempo da Del Noce. Allora, il comprensibile cruccio di non sedere a Palazzo Chigi, ma chissà, forse anche la soffocante pervasività di questa “religione della merce”, di cui però non si possiede la chiave, è ciò che, nell’articolo prima richiamato, fa dire all’onesto Bersani che quel concetto gramscitogliattiano di responsabilità nazionale, “ineludibile per un comunista italiano, ci ha fregati”20. In questa ammissione, dove addirittura ricompare il termine “comunista”, c’è come la residua luminescenza di un’ultima domanda che si può ancora porre, prima di ammainare la bandiera di una “guerra di posizione” che gli avversari hanno avuto l’abilità, a lungo sottovalutata, di trasformare, sul proprio stesso territorio, in una dilagante “guerra di movimento”. Non restano, allora, che questi preziosi concetti, che libri come quello di Angelo Rossi restaurano amorevolmente, ma che richiedono, per tornare ad essere strumenti politici attuali, una vita nuova la cui sorgente tutti ignoriamo.


 

  1. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), Napoli, Guida, 2014. La nota che qui si pubblica su questo libro di Angelo Rossi è libera da copyright. Chi dovesse utilizzarla, è pregato di citarla secondo le normali pratiche bibliografiche: F. Aqueci, L’ineludibile principio. A proposito del Gramsci di Angelo Rossi, http://duemilaventi.net, 15 ottobre 2014. []
  2. Particolarmente rilevante è la tesi di Rossi sul linguaggio allusivo, nel fornire prove convincenti della sua esistenza, come ad esempio nel caso del dibattito su Croce tra Gramsci e Togliatti che, nel 1932, si svolge tramite il canale delle lettere a Tania e di questa a Sraffa (p. 283). La tesi di Rossi restituisce così alle teorizzazioni contenute nelle Lettere e nei Quaderni la loro autonomia, rispetto a tesi più meccaniche, quale quella dei linguaggi coperti e dei codici segreti, da cui Rossi apertamente dissente (p. 23), ed evita il rischio di ridurre quelle teorizzazioni a meri espedienti, ribadendo invece la loro natura di strumento di una politica, le cui condizioni di realizzazione richiedono una trasformazione filosofica della realtà, basata sul ripensamento non dogmatico di Marx. []
  3. A. Reichlin, Con Renzi ha vinto il partito della nazione, “l’Unità”, 29.9.2014. []
  4. P. Togliatti, La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964, a cura di G. Fiocco e M. L. Righi, Torino, Einaudi, 2014. []
  5. P. Bersani, La nostra nuova vocazione nazionale, “Idee controluce”, 22.9.2014, articolo on line. []
  6. Il mito degli uguali. La lunga storia della democrazia, [2005], tr. it. Milano, Università Bocconi Editore, 2006, p. 138 []
  7. F. D’Esposito, Minoranza PD in fuga: “Facciamo la guerra, ma come Togliatti”, “Il Fatto Quotidiano”, 8.10.2014, p. 4. []
  8. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, [1978], Torino, Aragno, 2004, pp. 221 sgg. []
  9. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., pp. 157-8. []
  10. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., pp. 279-80. []
  11. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., p. 348. []
  12. Il “partito nuovo”, il “policentrismo” del memoriale di Yalta, addirittura l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre (p. 216), sono tutti temi che Rossi retrodata in Gramsci, al punto che a volte, come nel caso della rivendicata “scelta democratica” (p. 320), la sua prosa sembra tratta da quei colti documenti politici che si producevano nel buon vecchio PCI. []
  13. A. Bordiga, Una intervista ad Amadeo Bordiga, “Storia conteporanea”, settembre 1975, p. 582, cit. in A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 283. L’intervista di Bordiga è reperibile on line. []
  14. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 279. []
  15. J. P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfway there, 28 maggio 2013, pdf reperibile on line. []
  16. Su questo tema, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, La religione della merce, “Critica marxista”, 3-4, maggio agosto 2014, pp. 83-92. []
  17. Il testo della lettera della BCE al Governo italiano, documento reperibile on line []
  18. A. Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, cit., p. 290 []
  19. A. Rossi, Gramsci in carcere. L’itinerario dei Quaderni (1929-33), cit., p. 256 []
  20. P. Bersani, La nostra nuova vocazione nazionale, cit. []

Fede

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Intervistato oggi da “la Repubblica”, in occasione delle imminenti elezioni del Parlamento europeo, il Ministro degli Esteri polacco, Radolaslaw Sikorski, ha dichiarato. «io spero che la nuova leadership europea, quella che uscirà dalle elezioni, sia all’altezza del grande compito cruciale: rispondere alle sfide resuscitando e restaurando la fede e la fiducia degli europei, dei loro cuori e della loro ragione, nell’Europa». Ecco, la fede. E se al posto di Europa, ci metti 60 x 3 x 5, cioè i parametri di Maastricht, che assicurano la ferrea presa del capitalismo assoluto sul continente, è proprio un auspicio di quella “religione della merce” che proprio in Europa annovera vaste moltitudini di fedeli.

Prediche inutili

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Intervistato sulla Repubblica di oggi, da Federico Rampini, Amartya Sen afferma: «L’austerity contraddice 250 anni di sviluppo economico. I più grandi pensatori dell’economia ci hanno insegnato a ragionare in modo diverso. Per Adam Smith il mercato e il progresso economico consentivano agli individui di conquistare più libertà, e al tempo stesso agli Stati davano risorse per fare meglio il loro mestiere. Oggi l’Unione europea vede gli Stati solo come un costo. David Ricardo ci insegnò l’importanza dei prezzi relativi. Ora l’euro ha imposto la stessa parità di cambio alla Germania e alla Grecia senza preoccuparsi dei rispettivi livelli di prezzo e competitività. Io sono a favore dell’euro. Ma è stato un errore avere una moneta unica senza l’unione del sistema bancario, trascurando il ruolo delle altre istituzioni, e trascurando i prezzi relativi. Infine c’è la lezione di John Maynard Keynes: in periodo di alta disoccupazione e bassa domanda, l’ultima cosa da fare sono i tagli alla spesa pubblica. Non possono che peggiorare la disoccupazione giovanile». Smith, Ricardo, Keynes: come si spiega il ripudio del pensiero liberale da parte del capitalismo assoluto? Non è che il pensiero economico di cui parla Sen è stato un’inutile predica rivolta ad una belva la cui vera natura è stata compresa solo da quel Marx da cui i liberali rifuggono? Non è che, allora, il capitalismo è più marxiano di quanto i liberali possano mai immaginare? Certo, Marx aveva incaricato la classe operaia di liberare la società dall’alienazione capitalistica, ma con una certa dose di keynesismo, iniettato al momento opportuno, il capitalismo ha narcotizzato la classe operaia, dissolvendola poi in un pulviscolo produttivo che l’ha messo al riparo dal rischio di dover fare i conti con la propria anima nera. Così, il patto con il diavolo tiene, e i “giusti” alla Sen hanno voglia di salmodiare sulle pagine interne di un giornale, “la Repubblica”, che si butta a pesce su ogni svolazzo di feticismo della merce.

Oltre

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Un’interessante articolo di Marco Palombi, sul Fattoquotidiano di oggi, pagina 5, ricostruisce il rapporto privilegiato tra il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, descritto come il più attento guardiano dell’austerity, e l’attuale Ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, classe 1950, ex-comunista antikeynesiano, una volta ricercatore di terze vie tra comunismo e capitalismo, poi approdato alle istituzioni economico-finanziarie internazionali promotrici del corso liberista di questi decenni post-Muro, e quindi convinto sostenitore della funzione del dolore nella vita economica1. In questi personaggi, che si sono abilmente adattati allo spirito del tempo, permane una forte matrice di quella “norma autoimposta” che da Gramsci a Togliatti a Berlinguer ha informato la tradizione comunista italiana. Caduto il fine, però, è rimasto solo un acre moralismo, un’ideologia rinsecchita del disciplinamento sociale, da attuarsi con la sofferenza economica da imporre ai popoli per curarli del loro ribelle edonismo, in ciò confluendo perfettamente nel penitenzialismo del capitalismo assoluto. Così come, per altre ragioni, c’è la necessità di andare oltre il keynesismo, e l’illusione che i keynesiani nutrono che si possa restaurare tale e quale, altrettanto c’è la necessità storica di andare oltre la pur nobile tradizione ideale del comunismo italiano.


  1. E. Brancaccio, Una nota sul mio ex professore Gian Carlo Padoan, pubblicato su www.emilianobrancaccio.it []

Emendamento ontologico

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«La sinistra continua a pensare di poter entrare in comunicazione con il suo elettorato facendo leva sull’esperienza quotidiana, sulle necessità materiali delle famiglie. Ma l’esperienza quotidiana è oggi la televisione. Non è casuale che chi detiene i mezzi di comunicazione, li controlla e li sa usare possa imporre il suo discorso anche quando contraddice l’esperienza comune» (C. Freccero, Televisione, Torino, Bollati Boringhieri, 2013, p. 124). Se si pensa che Lukács oppose la vita quotidiana allo stalinismo, si può concludere che la televisione è ciò che ha preso il posto dello stalinismo. Ma lo stalinismo era una dittatura a viso aperto, che alcuni buontemponi hanno voluto far passare per totalitarismo. Se c’è un totalitarismo, invece, questo è la televisione. La televisione è l’ideologia totalitaria del capitalismo assoluto, la vera incarnazione della Grande Fattoria orwelliana. Quello che tutti i bravi critici alla Freccero sembrano suggerire è che la sinistra deve finalmente imparare ad imporre la sua “illusione”, rispetto alla realtà della vita quotidiana, approfittando delle “crepe” che si aprono nella dittatura televisiva. La moltiplicazione digitale delle reti e l’integrazione dei vari media, con l’esplosione di contenuti autoprodotti, potrebbe essere la via, ridando finalmente voce al “pubblico”, che si riavrebbe dalla sua protratta passività. Ma lo stesso Freccero non può mancare di osservare che «tutto questo universo di fan e internauti testimonia un bisogno estremo di immaginario e di narrazione, legato all’attuale spirito del tempo» (p. 130). E l’attuale spirito del tempo non è altro che la prosecuzione con altri mezzi di un’interminabile epoca del mito, con le sue favole pubblicitarie che alimentano e intensificano la divaricazione di vita quotidiana e immaginario. Ci è stato spiegato che “il mezzo è il messaggio”, come se fosse una legge di natura, quando invece è solo una congiuntura storica in cui l’immaginario crea permanentamente le premesse per distaccarsi dalla vita quotidiana. Se la storia è produzione di novità, allora la vera novità non può che consistere nel riportare il mezzo al suo statuto di strumento, e il messaggio al suo statuto di fine. Non è luddismo, ma solo un emendamento ontologico.