Caracas

Caracas e le avventure dell’egemonia (2)

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L’insediamento della Assemblea nazionale costituente, al di là delle contestazioni sulla regolarità della sue elezione, sinora rimaste affermazioni e voci non provate, formalizza l’esistenza in Venezuela di due centri di potere, quello della vecchia egemonia, raccoltasi attorno al Parlamento nazionale, e quello della contro-egemonia nata e sviluppatasi con Chavez, e che ora prosegue con Maduro, leader per nulla carismatico, che i media occidentali dipingono come un ignorante e un buffone, ma che si sta rivelando un osso duro per coloro che cercano di rovesciare il corso del socialismo bolivariano.

Il nuovo organismo costituzionale da lui fortemente voluto ha un valore simbolico, da un punto di vista storico, che va evidenziato. Anche nella Russia del 1917, con la Rivoluzione di febbraio si venne a formare un dualismo di potere, quello dei partiti anti-zaristi il cui programma non andava al di là di una rivoluzione democratico-borghese, e quello dei Soviet, che spingeva per completare la rivoluzione politica in rivoluzione economico-sociale. La chiusura di fatto dell’Assemblea costituente, nel gennaio 1918, sancì la soluzione di questo dualismo a favore del potere dei Soviet che, nella logica della rivoluzione, era un potere altrettanto legittimo di quello dei partiti democratico-borghesi anti-zaristi. L’Assemblea costituente fu dunque il polo attorno a cui si raccolsero le forze della controrivoluzione, e dovette essere chiusa per portare a termine la rivoluzione economico-sociale, da cui per altro tutto era iniziato (“pace, pane e terra” da tutti indistintamente promessi nel febbraio 1917).

Nel Venezuela del 2017, le cose stanno esattamente al contrario. L’Assemblea costituente è l’organismo, convocato in stretta osservanza della Costituzione vigente, che può permettere di portare avanti la rivoluzione economico-sociale iniziata con Chavez, alla quale si oppongono le forze controrivoluzionarie della vecchia egemonia che, raccoltesi attorno al Parlamento, tentano di bloccarla, combinando la violenza di piazza e paramilitare con gli istituti della democrazia rappresentativa. La rivoluzione economico-sociale non è però un violento contenuto senza forma, ma avanza essa stessa sotto l’egida di una norma, quella della convocazione costituzionale del potere costituente. È questo, se vogliamo, il di più egemonico che rende tanto caratteristica la situazione venezuelana e il suo tentativo di socialismo bolivariano. Socialismo però che vive una fase estremamente critica. Gli schieramenti in campo, che a quanto pare convivono nello stesso palazzo, divisi solo da un cortile, sono infatti tutt’altro che compatti.

La coalizione cosiddetta “democratica”, un coacervo di forze che si spinge sino all’estrema destra, e che, come già detto, pratica proteste di piazza e forme di lotta paramilitari che non sarebbero tollerate in nessuno dei paesi che si proclamano democratici, è divisa sulla partecipazione o meno alle prossime elezioni regionali e municipali del dicembre prossimo, che l’attuale governo sagacemente ha intenzione di far svolgere regolarmente. Né sembra che granché forza le abbia portato il frettoloso sostegno finale del Vaticano, apparso più una concessione alle alte gerarchie locali, che non una convinta presa di posizione anti-chavista. D’altronde, oggi il Vaticano ha spazi di manovra più limitati che in passato. L’accentuazione dei toni anticapitalistici con cui cerca di recuperare la missione evangelica, lo espone al ricatto sull’etica sessuale negli scorsi decenni abbondantemente violata. Non matura così una nuova dottrina sociale, né le radici della perversione sessuale vengono recise. Francesco si muove su questa impossibilità, che lo porta a ricevere Maduro, ma a non rompere con i cardinali del privilegio e del godimento cieco.

Venendo al fronte chavista, benché all’apparenza più compatto della Mud, la coalizione dei partiti della vecchia egemonia, presenta crepe che, senza un’azione decisa coronata nell’immediato da successo, potrebbero divenire voragini. Per ora, da esso si sono staccate singole personalità, come la procuratrice un tempo fedelissima di Chavez, e ora addirittura rimossa dal suo incarico, come primo atto della nuova Costituente. E poca cosa si è rivelata la presunta rivolta militare nella città di Valencia, in realtà, per bocca dei suoi stessi promotori, la sortita di militari già radiati dall’esercito in combutta con “civili”, probabilmente quei paramilitari cui l’opposizione democratica affida parte delle sue sorti. Ma la divisione principale, non manifesta ma sotterranea, del fronte contro-egemonico è tra coloro che vogliono limitarsi a gestire la situazione presente, con i suoi equilibri e i suoi privilegi, per quanto precari, e coloro invece che vogliono approfondire la natura socialista del chavismo, in modi e forme che debbono essere evidentemente escogitate man mano che il processo avanza. Il piano su cui questo confronto avverrà sarà naturalmente l’economia, dove non solo ci si dovrà sganciare dalla ormai insostenibile petroeconomia redistributiva, ma si dovranno inventare politiche che, senza pregiudicare le “missioni” degli scorsi anni, consentano una ripresa dell’iniziativa economica, se non individuale, certo dal basso. Per riprendere il parallelismo con la Russia del 1917, è l’antico dilemma che condusse Lenin al passo indietro della NEP. Non sappiamo cosa avrebbe escogitato la sua fervida fantasia per poi fare i due passi avanti. I costituenti bolivariani hanno pero cent’anni di storia alla loro spalle per non dover commettere gli stessi errori dei successori di Lenin. E il contesto internazionale potrebbe anche aiutarli. Nonostante faccia la faccia feroce, Trump infatti sembra interessato a tutt’altro che a mettere in riga il Venezuela, così come fece Kissinger con Allende. E anche se volesse farlo, non ha più il rutilante know-how del monetarismo della Scuola di Chicago da mettere a disposizione di un Pinochet venezuelano. L’egemonia si gioca anche, se non soprattutto, con le risorse intellettuali, e oggi il fronte capitalistico appare esausto da questo punto di vista, mentre il fronte contro-egemonico ha accumulato non solo una miriade di pratiche variamente “comunitarie”, il cui limite, comprensibile visti i rapporti di forza, è stato però il rifiuto del livello generale del potere, ma anche una grande massa di conoscenze ed analisi, in primo luogo quelle ecologiche. La partita è dunque aperta, e l’Assemblea nazionale costituente potrà dare il suo contributo, se solo la lotta per il potere, su cui continuamente l’attira il fronte rissoso della vecchia egemonia, non assorbirà tutte le sue energie.

Caracas e le avventure dell’egemonia

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Compito del dibattito democratico è far deragliare il discorso dal binario morto della chiacchiera. È quanto sta accadendo in Venezuela, purtroppo in forme caotiche e disordinate. La convocazione dell’Assemblea nazionale costituente, in base all’articolo 347 della Costituzione vigente, sarebbe dovuta avvenire molto prima che la situazione degenerasse in scontri di piazza e atti di forza, anche per non lasciare spazio ai “mediatori”, vere volpi nel pollaio, e soprattutto per non caratterizzre la convocazione come un espediente difensivo. Ma la frittata è ormai fatta, e si può solo trarre l’insegnamento che, quando si esita ad usare radicalmente i meccanismi democratici, si finisce sempre in un vicolo cieco. La caduta del prezzo del petrolio avrebbe dovuto essere un’opportunità. Era chiaro che la petroeconomia redistributiva non poteva più essere portata avanti. Se si volevano salvaguardare le misure controegemoniche intanto introdotte nel ventennio precedente, dal “potere popolare” agli “interventi sociali”, e fare piazza pulita delle distorsioni insite nella natura stessa della petroeconomia, dalla corruzione alla “boliborghesia”, bisognava allora procedere prontamente, proprio con un richiamo legittimamente costituzionale del potere costituente, ad una fase nuova, in cui l’economia veniva ulteriormente socializzata, ovvero diversificata, con misure controegemoniche più avanzate, da scrivere nella nuova Costituzione. C’era il rischio di perdere tutto, ma c’era la possibilità di fare un passo avanti. Adesso, il sospetto del dispotismo aleggia su tutta la vicenda, a conferma che la controegemonia è un treno velocissimo che va assecondato attimo per attimo, altrimenti scatta il rosso del giacobinismo. Si può solo sperare che l’inventiva di chi sta ancora azionando le leve, riesca a sincronizzare i movimenti. In questo senso, sarebbe cosa opportuna che, qualora la nuova Assemblea costituente si insediasse e riuscisse a portare avanti felicemente i suoi lavori, i nuovi costituenti non dimenticassero di formalizzare che il contenuto normativo dell’articolo 347 è inviolabile anche per la nuova Costituzione. Infatti, il successivo art. 349 statuisce che «Il Presidente della Repubblica non può opporsi alla nuova Costituzione». Se, perciò, nella Costituente si formasse una maggioranza per eliminare il potere costituente dalla nuova Costituzione, nessuno potrebbe più richiamarsi ad esso in seguito, e ci sarebbe una caduta all’indietro irreparabile, nel binario morto della vecchia chiacchiera egemonica. Altri contenuti, inoltre, non puramente procedurali, andrebbero anche dichiarati come irreversibili, ma questo dipende dai rapporti di forza. Tutto quanto accade a Caracas, comunque, è assai più avanzato di quanto si è visto in quest’ultimo decennio in America latina. Infatti, in Argentina, nonostante lo shock del 2001, e gli elementi di socialità controegemonica da esso sprigionati, non si riesce a venir fuori dal pendolo frustrante tra (residuo) peronismo e ritorni di “reazione borghese”. E, in Brasile, tutta la panoplia dei meccanismi legali dell’egemonia in atto sono serviti a far fuori la presidentessa eletta, con l’unica alternativa di scontri di piazza per fortuna non avveratisi. Il che significa che nel decennio di Lula non si è fatto alcun serio lavoro controegemonico, a cui appigliarsi nel momento della risacca dell’egemonia in atto. C’è la resistenza accanita di Cuba, che stava per cadere nella trappola tesagli da quella volpe di Obama1, e che paradossalmente può ritornare sui propri errori grazie alle nuove “chiusure” di Trump, un presidente “politico” che, non essendo più disposto a leccare il culo alla globalizzazione “a prescindere”, riporta in auge provvidenziali (per la controegemonia) stilemi ideologici del passato. L’egemonia, insomma, vive i suoi bei giorni nell’emisfero americano, mentre in Europa langue, tra la protervia dell’egemonia in atto – il cinismo “socialdemocratico” della Merkel, la decrepita arroganza della May, il neobonapartismo di Macron, il cesarismo plurale di Renzi-Grillo-Berlusconi; e l’impotenza della controegemonia – l’assalto fallito di Corbyn, l’agitarsi teatrale di Mélenchon, il miserevole riallineamento di Syriza, il caos spagnolo, l’inedia italiana.

  1. Federico Rampini, su “la Repubblica” del 16 giugno 2017, spiegava come meglio non si può il senso delle “aperture” obamiane: «oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori» []