Nel suo discorso del 22 febbraio 2013, a piazza San Giovanni, Grillo elencò le “parole guerriere” che riassumevano l’idea della nuova politica dei cinquestelle: comunità, onestà, partecipazione, solidarietà, sostenibilità1. Nel suo discorso del 10 dicembre scorso, all’Accademia Nazionale dei Lincei, Giorgio Napolitano, chiamato a riflettere da politico sulle “patologie” del nostro tempo, ha indicato nell’appartenenza ad una comunità, nei doveri verso i cittadini e nel bene comune, i valori su cui fondare una ripresa delle “ragioni della politica”2. Sono parole molto simili a quelle di Grillo. I due però non si capiscono, anzi, l’uno dà all’altro del Morfeo, del privilegiato e del complice, l’altro gli risponde tacciandolo di essere un eversore dell’antipolitica. Come si spiega questa totale incomprensione? Certo, Grillo è un rivoluzionario, Napolitano un gradualista. Ma cosa indicano queste etichette? Come si intrecciano e si scontrano queste due differenti storie politiche? Il contenuto della rivoluzione di Grillo è “il cittadino che si fa Stato”. Il gradualismo di Napolitano consiste nella “cultura del rispetto”, rispetto della cultura, delle istituzioni e delle persone. Il rispetto è l’esito del suo percorso ideologico, che ha le radici in una lunga storia. Se il gruppo dell’Ordine Nuovo torinese, nel ’19-’20, aveva infuso nella produzione il rigore della morale kantiana del rispetto, Napolitano rappresenta il punto massimo di evaporazione della “morale dei produttori” che da quell’innesto era derivata, e che con la “diversità comunista” e la “terza via” Berlinguer aveva tentato disperatamente di mantenere su un terreno ancora strutturale. Risalendo la corrente, Napolitano invece si sposta sull’antica sovrastruttura, ma quando credeva di aver raggiunto un approdo sicuro, inopinatamente qui incontra la “rivoluzione” di Grillo, che grida, insulta e strepita. Napolitano ne è disgustato, e denuncia allora la “comparsa in Parlamento di metodi ed atti concreti di intimidazione fisica, di minaccia, di rifiuto di ogni regola e autorità”. Grillo, però, non ci sta, e sottolinea ad ogni pie’ sospinto il carattere “non violento” della rivoluzione cinquestellata. Nella sua semplificazione teatrale della politica, con “non violenta” Grillo intende il fatto che con il suo movimento impedisce alla gente di scendere in strada a spaccare le vetrine. Ma il significato autentico di “non violenta” ce lo dà il suo sodale Casaleggio, il quale rassicura tutti, anche con opportune visite al Workshop Ambrosetti, che la rivoluzione cinquestellata non intende sovvertire minimamente i rapporti di produzione. Quello che lui vuole è uno spostamento di qualche grado dell’asse strutturale, dalla grande impresa e dalla finanza alla “piccola e media impresa”. A questa modesta rotazione, Grillo aggiunge l’epica del “cittadino che si fa Stato”, cioè una comunità virtuale dove l’individuo può dare libero sfogo alle proprie robinsonate, dall’elettricità prodotta con gli scarti di casa, alla pistola costruita con la futuribile stampante tridimensionale. L’antipolitica che tanto allarma Napolitano, si rivela allora solo un borborigma del capitale. Da vecchio comunista, Napolitano stesso lo capisce, ma essendo egli sempre stato un comunista “sovrastrutturale”, non va al di là di un rimbrotto, per così dire, “etico-politico”, ed è quando nel suo discorso ai Lincei addita i “giornali tradizionalmente paludati” quali complici dell’onda fangosa rivolta contro la “casta”. Ma se era qualcosa di più dell’eterno contrasto italiano tra “magnati” e “popolani”, sarebbe mai potuto accadere che quei due mattacchioni di Stella e Rizzo cavalcassero quell’onda dalle colonne del “Corriere della sera”? Ecco, allora, la solitudine di Napolitano, ormai lontano dal suo vecchio esercito, alla cui rotta contribuì volendolo sempre alienare in qualcos’altro, ottenendo solo alla fine di ritrovarsi in un empireo che, visto da vicino, è solo il luogo dove maschere, di volta in volta infide, ridanciane o vocianti, recitano lo “spettacolo degli interessi”.
Casaleggio
Populismo 2
In risposta a dei precedenti interventi di McCormick e di Del Savio e Mameli sul populismo, Nadia Urbinati rileva l’ambiguità del termine ed esprime tutta la sua apprensione per il pericolo che il populismo fa correre alla democrazia rappresentativa. Che il termine sia ambiguo, c’è poco da fare, lo si usa, e allora bisogna pur vedere che significa, magari osservando cosa fanno coloro che imputano il populismo e coloro che sono accusati di populismo. Preoccuparsi poi per la democrazia rappresentativa è un bene. In mancanza di meglio, è bene tenersela stretta. Ma se la democrazia rappresentativa deve servire a far comandare i pescecani della Morgan Stanley, per i quali le Costituzioni antifasciste dei Paesi dell’Europa mediterranea sono un ostacolo alla completa glorificazione del capitale, beh, questi antipopulisti sono peggio della toppa sul buco. Il problema vero è come determinare un effettivo cambio di potere nella società, ovvero il capitale che non comandi più sul lavoro. Occupy Wall Street ci ha provato, ma è stata sfiancata a manganellate. Il populismo ci può riuscire? Sta nelle sue finalità? Vediamo. Grillo vuole dare addosso alle banche, per far comandare la piccola e media impresa. La piccola e media impresa fa parte dei subalterni o no? Culturalmente, forse sì, spesso sono degli ex operai divenuti padroncini, ma la loro aspirazione è a staccarsi da quella condizione per andare a comandare capitalisticamente. Quindi, Grillo e soprattutto Casaleggio, al quale danno fastidio coloro che sono «ideologicamente connotati», ciò che vogliono è una ridistribuzione del potere dentro l’attuale assetto sociale. Per ottenere questo, a loro basta e avanza un rivolgimento politico, cioè l’azzeramento dell’attuale classe politica e la sostituzione con un’altra più sensibile agli interessi di un segmento meno “nobile”, meno “titolato” del capitale. Formalmente, questo lo intendono ottenere con un po’ meno di democrazia rappresentativa e con un po’ più di democrazia cosiddetta “diretta”, per la quale la rete, con i suoi tempi e modi spontaneamente autoritari, si presta meravigliosamente. A parte il velleitarismo di questo programma, la situazione non cambierà non solo per la vecchia classe operaia residuale, non solo per i nuovi lavoratori del precariato più o meno cognitivo, ma soprattutto per la nuova e sempre più estesa massa di giovani donne e giovani uomini descolarizzati e disoccupati. Per loro ci sarà qualche mancia, come il cosidetto “reddito di cittadinanza”, magari realizzato licenziando un po’ di statali, vil razza dannata. Una prospettiva di indigenza per tutti. Naturalmente, la miseria del populismo non cade dal cielo. È l’espressione di un momento storico, in cui i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono completamente sbilanciati a favore del primo. I subalterni sono perciò un esercito in sfacelo, e non meraviglia che abili capitani di ventura ne ottengano il consenso elettorale da usare per le loro lotte tese a ridistribuire gli interessi dentro l’attuale configurazione di potere. La colpa più grave del populismo non è perciò di attentare alla democrazia rappresentativa, ma di perpetuare la subalternità dei subalterni. Questo è un danno non solo per i subalterni, ma per l’intera società, perché dissipa energie umane che potrebbero rinnovare la condizione di tutti, anche dei pescecani promossi dalla Morgan Stanley, che vanno avanti sniffando cocaina e stuprando bambini delle periferie del mondo.