Cina

Marxismo e transizione

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Nel suo opuscolo L’uomo e la democrazia1, pregevole come tutti i suoi scritti, Lukács, nella foga di mostrare come Stalin non solo manipolasse il marxismo allo scopo di giustificare i suoi metodi di governo ma anche tacitasse il dibattito con le sue minacce poliziesche, si lancia in una critica della concezione della legge del valore, avanzata da Stalin nella sua opera della vecchiaia I problemi economici del socialismo nell’Unione sovietica (1952), che sbocca alla fine in un curioso ribaltamento di posizioni. Nel suo scritto, Stalin, quali che fossero le sue finalità politiche che qui non discuteremo, sostiene l’idea che la legge del valore, ovvero il tempo di lavoro che i fattori produttivi variano incessantemente così determinando il valore di scambio dei prodotti del lavoro, è legata all’esistenza della produzione mercantile, scomparsa la quale, spariranno sia il valore con le sue forme, che la legge del valore. È una veduta che forse in maniera troppo rozza e tranchant traduce il modo più indiretto e sfumato con cui Marx sostiene la stessa idea nel Capitale. Lukács invece sostiene che Stalin incorra qui in una “papera”2 e spiega per più pagine, riferendosi ad un brano finale del primo capitolo del Capitale dedicato al feticismo della merce, che in realtà secondo Marx la legge del valore rimane valida anche nel socialismo, mentre invece Marx in quel brano semplicemente suppone di far funzionare il socialismo come un modo di produzione retto ancora dal tempo di lavoro, allo scopo di spiegare a chi è mentalmente prigioniero delle categorie dell’economia politica borghese come in realtà funzionano produzione e distribuzione in un modo di produzione retto non più dalla spontaneità del mercato ma da un piano sociale fissato consapevolmente dai produttori3. La supposizione non è di poco conto. Se la legge del valore continuasse a essere in vigore anche nel socialismo e ancor più nel comunismo, non si avrebbe quella trasparenza dei rapporti tra gli uomini, tanto nella produzione quanto nella distribuzione, che invece manca nel capitalismo, dove invece la merce è quel feticcio misterioso che Marx descrive lungo tutto il capitolo in questione. È davvero sorprendente che proprio Lukács, che del feticismo e dell’alienazione di merce fu nel 1923 il riscopritore con la sua opera Storia e coscienza di classe, oscuri questo punto sostenendo che nel socialismo e nel comunismo la legge del valore, o tempo di lavoro, si estende e approfondisce perché in tali nuovi assetti sociali sempre più il lavoro diventa il primo bisogno della vita. È evidente infatti che qui vengono fusi due significati distinti di lavoro, ovvero lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana e lavoro come quantità sociale astratta, il primo significato attinente al comunismo, il secondo al capitalismo. Se si ripristina questa distinzione, si vede che la posizione di Stalin, benché meno sofisticata teoricamente, è paradossalmente più libertaria di quella di Lukács, poiché non pretende che una costrizione, la costrizione collettiva ancora vigente nel socialismo in costruzione a contribuire al lavoro come quantità sociale astratta, diventi un’auto-costrizione liberante, per giunta nemmeno operata autonomamente dall’individuo, ma effetto dello sviluppo delle forze produttive. Lukács, invece, con un kantismo implicito, il cui fulcro non è più la persona ma la specie che nei suoi avanzamenti produttivi impone alla persona una paradossale “libera necessità”, arriva a sostenere di fatto una tesi finalistica iperbolica poiché, opponendo la costante diminuzione tendenziale del lavoro socialmente necessario per la riproduzione della vita alla crescita tendenzialmente altrettanto costante del pluslavoro, e rinviando a un nebuloso domani in cui tale pluslavoro «può anche servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità»4, finisce per eternizzare uno sviluppo delle forze produttive determinato dalla reificazione di merce qualunque sia il regime di proprietà dei mezzi di produzione. Ora, Lukács è pensatore troppo sagace per essere sospettato di essere incorso lui in una “papera”. È probabile invece che nel momento in cui con il suo opuscolo apriva al ruolo dell’opinione pubblica e del dibattito nel processo di democratizzazione delle allora società socialiste sovietiche, egli volesse consolidare la base economica entro cui tale processo doveva svolgersi, il cui finalismo dal lavoro come quantità sociale astratta al lavoro come realizzazione onnilaterale dell’essenza umana doveva essere stimolato da un rinnovato ruolo guida del partito e dello Stato. Se si pone mente a tutto ciò, si vede che la confutazione all’incontrario di Stalin da parte di Lukács non è affatto un curioso capitolo dell’esegesi marxista di un’epoca ormai tramontata ma riverbera ancora oggi, illuminandolo, sullo stato di cose presenti. Non è forse questo infatti il dilemma della Cina odierna, dove la crescita impetuosa delle forze produttive determina un socialismo dove il pluslavoro è più quantità sociale astratta che strumento di sviluppo onnilaterale dell’essenza umana? E non è un problema della Cina odierna quello di un partito-Stato che si legittima perseguendo la crescita costante del pluslavoro, rinviando però sempre a un indeterminato domani il giorno in cui tale pluslavoro potrà servire allo scopo sociale generale dello sviluppo della personalità?

Nel suo opuscolo, e qui veniamo ai dolori dell’Occidente, Lukács più volte richiamandosi a Lenin fa riferimento all’abitudine quale categoria sociologica generale. Lenin concepiva il comunismo come lo stato di cose morali in cui la morale predicata da millenni viene finalmente a poco a poco per abitudine praticata da tutti. Lukács accetta questa concezione ma al tempo stesso, con il suo tipico modo esegetico di argomentare, sottolinea come Lenin avesse in mente qualcosa di più di una semplice generalità sociologica astratta e pensasse invece a una dialettica dell’abitudine per la quale le istituzioni dello Stato mirassero ad abituare gli uomini a quei comportamenti spontanei ma per tanto tempo rimasti solo puramente verbali. Ora, si chiede Lukács, qual è nella società capitalistica la dialettica dell’abitudine? La dialettica dell’abitudine è quella di consolidare, attraverso istituzioni quali ad esempio il diritto, l’egoismo dell’uomo quotidiano, abituandolo a considerare il prossimo solo come limite dell’esistenza e della prassi proprie. Perché tale egoismo economico venga superato c’è bisogno allora di qualcosa che nella realtà sociale non sorge spontaneamente ma derivi da un rivoluzionamento non solo dell’ideologia ma anche dell’essere e dell’operare materiale della vita quotidiana5. Lungo tutto il suo scritto, Lukács individua due forze capaci di operare una tale trasformazione. La prima l’abbiamo già vista ed è l’azione sistematica dello Stato e di tutte le sue istituzioni per formare negli uomini delle nuove abitudini morali. Ciò vale però nei periodi storici di “pausa”. Ci sono invece periodi di movimento in cui tale forza è costituita dall’entusiasmo rivoluzionario delle masse che fa sì che le questioni della vita quotidiana si colleghino organicamente con le grandi prospettive politiche. Già quando Lukács abbozzava questa dialettica dell’abitudine egli stesso però denunciava l’apatia e l’indifferenza delle masse rispetto alla fase rivoluzionaria del primo ventennio del secolo XX e con uno sforzo volontaristico egli allora tornava ad affidarsi al ruolo dello Stato. Nel tempo intercorso dal suo scritto a oggi, non solo tale indifferenza, all’Est come all’Ovest, si è approfondita ma lo Stato, quello borghese rimasto in piedi, è fortemente deperito e le abitudini sono dettate sempre più dai condizionamenti del mercato. Ma è inutile prodursi in geremiadi contro tale stato di cose. Piuttosto va osservato come una forza che non è lo Stato né l’afflato rivoluzionario, ovvero il coronavirus, abbia prodotto un cambiamento di abitudini che nessuno prima poteva mai immaginare. Prima della pandemia era considerato naturale fare lunghi viaggi in auto o con i mezzi pubblici per raggiungere ogni giorno il proprio posto di lavoro. Oggi si registrano forti resistenze a tornare a quelle abitudini di cui si è potuto constatare repentinamente l’alienante artificiosità. E così si potrebbe continuare con esempi simili restando sempre nella cornice quotidiana dell’uomo economicamente egoistico. Ma in generale il coronavirus ha realizzato bruscamente quella “decrescita” materiale e quella “transizione” ideologica che tanti si industriavano a realizzare con dibattiti e provvedimenti normativi. Cosa sono infatti quelle cifre che segnalano l’arretramento catastrofico del Prodotto interno lordo rispetto all’ultimo anno prima della pandemia? È vero, la pubblicità come un disco rotto ha continuato a girare, ma interi settori produttivi si sono contratti per milioni di ore di lavoro la cui inutilità è apparsa all’improvviso lampante. Purtroppo il coronavirus, sia nato a Fort Detrick o a Wuhan, è solo negazione che in questo anno abbondante di pandemia nessuno si è curato di riempire con un piano di vita alternativo. Quando si prospetta una qualche coordinazione, l’uomo egoistico leva subito le sue proteste contro la “pedagogia sociale”, così le vecchie abitudini riconquistano facilmente il terreno perduto, e resta solo la lezione che per indurre i cambiamenti di cui si avverte sempre più l’esigenza c’è bisogno di un potere la cui assolutezza sia pari alla gravità dei problemi da risolvere.

 

  1. G. Lukács, L’uomo e la democrazia (1968), trad. it. Roma, Lucarini 1987 []
  2. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 92 []
  3. K. Marx, Il Capitale (1867), trad. it. a cura di A. Macchioro e B. Maffi, Torino, UTET 1974, libro I, sezione I, cap. I, p. 157 []
  4. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 93 []
  5. G. Lukács, L’uomo e la democrazia, cit., p. 68 []

I giorni bui dell’egemonia (2)

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Solo la forza politica, fondata sull’espansione economica,
può essere la base per un’espansione culturale
                                              (Gramsci, Q. 8, § 106, p. 1004)

 

Di summit in summit, si precisa il progetto di Nuova Via della Seta che la Cina propone al mondo. Ultimamente, infatti, Xi Jinping ha proclamato che essa deve basarsi sulla trasparenza delle condizioni degli investimenti e sulla sostenibilità ambientale1. Nessun accenno, però, non solo ai diritti civili, il che non meraviglia, ma anche ai diritti sociali dei lavoratori del suo paese e dei paesi in cui dovrebbero avvenire gli investimenti previsti dalla One Belt One Road. Tutto sacrificato, dunque, in nome dello sviluppo delle forze produttive, che evidentemente i governanti cinesi ritengono sia possibile protrarre ulteriormente solo promuovendolo anche nel resto del mondo. Questa nuova base economica mondiale in via di edificazione dovrebbe portare con sé una diffusione altrettanto planetaria del chinese way of life. Un modello che, per quanto attaccato dallo sviluppo economico stesso, si basa ancora oggi sull’armonia tra individuo, famiglia e società, in cui fondamentali sono i legami di parentela. Vi sono concorrenti su questo terreno egemonico con i quali il chinese way of life dovrà confrontarsi? Ed esiste un terreno egemonico alternativo a quello a guida cinese che si prospetta per i prossimi decenni?

Oggi, la struttura del capitalismo è caratterizzata dal predominio del capitale finanziario sul capitale industriale, dal sovrapporsi della banca alla fabbrica, della borsa alla produzione di merce, del monopolio al capitano d’industria, e anche quando appaiono nuovi capitani d’industria in nuovi settori produttivi, essi subito si tramutano in monopolisti. Per indicare la pervasività di questo sistema, che riconduce il resto della società alla sua misura “aziendale”, si è escogitata l’espressione di capitalismo assoluto. Ma il capitalismo assoluto è anche il disordine che da tale assolutezza deriva. L’assolutismo monarchico dei secoli XVI-XVII era progressivo, poiché fondava l’ordine degli stati nazionali, dentro cui veniva disciplinata la vita economica della borghesia in ascesa. L’assolutismo capitalistico di fine XX, inizio XXI secolo, disgrega tale ordine, svuota lo stato nazionale e, in diverse guise, si costituisce in potere mondiale autonomo, dai più risalenti monopoli della produzione industriale, con i loro tipici intrecci finanziari, ai più recenti monopoli della produzione informatica, con il loro esibito anarco-capitalismo.

Ci si può chiedere se questo sfrenato disordine sia un vizio del capitalismo odierno, o se è invece la sua normalità2. La storia mostra che si tratta della sua normalità, poiché questo disordine non si presenta oggi per la prima volta. Era già apparso all’epoca della prima grande crisi degli stati europei, sboccata nella guerra del ’15-’18. La fase successiva, iniziata nel 1945, e durata sino a tutti gli anni Settanta del XX secolo, vide il tentativo da parte degli stati europeo-occidentali, in cui grande peso avevano i movimenti dei lavoratori, di imbrigliare tale tendenza tramite la “coalizione antifascista” che, nel corso della seconda guerra mondiale, aveva prevalso sulla soluzione alternativa, portata avanti dal nazifascismo, di un ordine corporativo fondato sul suolo, sul sangue e sulla tradizione. Dopo la dissoluzione dell’URSS e la drastica riduzione del campo degli stati socialisti, tale coalizione è stata definitivamente accantonata negli anni Dieci del XXI secolo, quando il potere finanziario è passato all’attacco delle Costituzioni antifasciste3, avvertite come un vincolo ormai ingiustificato dagli attuali rapporti di forza.

Quali sono i contraccolpi nel campo ideologico di questo capitalismo del disordine? Una reazione caratteristica soprattutto dei vecchi stati nazionali dell’Occidente è il sovranismo. Tali stati, di fronte all’esaurirsi della “coalizione antifascista”, tentano ora la soluzione del suolo, del sangue e della tradizione, sconfitta e scartata all’epoca della seconda guerra mondiale. Il sovranismo, perciò, in tutte le variegate forme in cui si presenta, ivi comprese quelle che cercano di porre rimedio al fallimento degli stati nazionali socialisti, vedi la Russia di Putin, è l’erede storico del nazifascismo, cui allude più o meno esplicitamente, mondandolo ovviamente dei suoi tratti più truci.

Ma si oppongono al capitalismo assoluto anche gli stati periferici che, sorti dalla disgregazione del sistema coloniale, e basandosi su una forza economica variamente conseguita, dal possesso di fonti energetiche, allo sfruttamento di immense riserve di forza lavoro a buon mercato, si richiamano a tradizioni differenti. L’Islam, perciò, non come religione, ma come ideologia politica degli stati petroliferi del Medio Oriente, combatte il capitalismo assoluto altrettanto quanto il sovranismo, ma con più determinazione e ferocia, anche perché così facendo cerca di unificare una tradizione dispersa in più quadranti territoriali e politici. E altrettanto lo combatte la Cina neo-confuciana, non negandolo violentemente, ma cercando di assimilarlo in un nuovo ordine mondiale di cui essa si propone come il pilastro portante.

Il chinese way of life è dunque solo una delle potenze ideologiche che si contendono la scena. Ma si chiarisce qui che, assieme al sovranismo e all’islamismo, il confucianismo, a dispetto del suo richiamo al comunismo e alla dottrina marxista, appartiene al novero delle potenze ideologiche regressive. Esso infatti fa dipendere lo sviluppo delle forze produttive da una “armonia” il cui centro propulsore non è l’individuo arricchito da liberi e infiniti rapporti sociali, ma l’“occhio sociale” che, grazie ai nuovi strumenti informatici, riconduce tutto ad un ordine burocratico e poliziesco di cui lo stato-partito è garante4. Ecco perché, allora, in nome della priorità dello sviluppo della base economica, vengono sacrificati senza tanti scrupoli le conquiste sociali del Novecento, cui lo stesso maoismo diede un essenziale contributo. Ed ecco perché lo sviluppo delle forze produttive può essere affidato ad accordi fra governi, indipendentemente del loro orientamento sociale. Ciò che conta non è modificare i rapporti di produzione, ma far scorrere il capitale. Dell’internazionalismo socialista resta così solo un simulacro, che ben si accorda con il globalismo, di cui però si progetta di imbrigliare l’intrinseco disordine con l’armonia burocratico-poliziesca assurta a modello mondiale.

Non è difficile prevedere che il capitalismo assoluto si faccia beffe di tali briglie fabbricate con la stessa materia di cui esso è composto. Ma la domanda da porsi è se nell’ora in cui le forze progressive vivono la loro più grave crisi, è possibile imporre un terreno egemonico alternativo a quello che si contendono le tre fiere ideologiche sopra individuate. Le democrazie liberali sono oggi deboli e vacillanti come, trenta anni fa, gli stati socialisti alla vigilia del loro crollo. Gli stati socialisti si sono ridotti a Cuba e al Venezuela, che subiscono l’embargo insensato da parte delle stesse democrazie liberali, le quali invece di ritirare l’appoggio incondizionato a quel capitalismo assoluto che le ha corrose dall’interno, e convergere con quei due stati socialisti per avanzare assieme verso nuovi modelli sociali, agiscono ciecamente con i vecchi riflessi della guerra fredda, come dimostrano le inerzie e le viltà verificatesi nei confronti del Venezuela, un paese pacifico in cerca del suo modello sociale che viene stritolato dalla logica pregiudiziale di schieramenti non solo obsoleti, ma incapaci di opporsi a quelle tendenze ideologiche, il sovranismo, l’islamismo, il confucianismo, che sono le vere minacce per le democrazie liberali.

Domina perciò non tanto il “pensiero unico”, ma il vecchio pensiero, e tarda ad affermarsi una riflessione spregiudicata sulle conseguenze nefaste della contrapposizione tra liberalesimo e socialismo che ha contrassegnato il Novecento, e che ancora oggi perdura nel momento del massimo pericolo. Tale contrapposizione ha minato l’egemonia dell’Occidente, rendendo gretto il liberalesimo e primitivo il socialismo. Si tratta di una frattura da ricomporre, ma non certo nella forma di una santa alleanza difensiva. Al contrario, la ricomposizione non può che essere offensiva, volta ad affermare il principio di una libertà non più individualistica, e di un’uguaglianza non più economicistica. Una sintesi che, quando e se avverrà, deve avvenire sul terreno politico della reciprocità:

Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone, sia pure «astrattamente», nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito della capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine (Gramsci, Q. 12, § 2, p. 1547).


 

  1. https://www.repubblica.it/esteri/2019/04/26/news/cina_xi_corregge_la_via_della_seta_zero_corruzione_e_piu_sostenibilita_-224874211/ []
  2. A. Gramsci, La relazione Tasca e il congresso camerale di Torino, in Id., L’Ordine Nuovo 1919-1920, Torino, Einaudi, 1975, p. 130. []
  3. https://www.wallstreetitalia.com/jp-morgan-all-eurozona-sbarazzatevi-delle-costituzioni-antifasciste/ []
  4. S. Pieranni, Le vite a punti dei cinesi all’ombra del partito, “il manifesto”, 23.9.2018, p. 8. []

La guardia rossa va a cavallo

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In una corrispondenza da Pechino, Guido Santevecchi, sul “Corriere della Sera” del 1° maggio 2016, pag. 17, dà la parola ad un ex guardia rossa, riciclatosi come allevatore di cavalli per i nuovi ricchi cinesi, facendogli raccontare il suo spaventoso crimine “politico”, cioè aver ucciso a bastonate un sedicenne suo coetaneo durante uno scontro tra bande di giovinastri riverniciati di militanza politica. Il povero ragazzo morto era figlio di operai, e la polizia – dunque, apprendiamo che all’epoca in Cina c’era anche una polizia – arrestò il futuro allevatore di cavalli qualche settimana dopo, anche se poi l’ardimentoso fu rilasciato perché il padre del sedicenne ucciso lo perdonò. Insomma, un minimo episodio di teppismo giovanile finito male, dati i tempi politici turbolenti, la cui colpa naturalmente, per Guido Santevecchi ricade sull’odioso Mao. Ecco, infatti, il cappelletto “storico” che egli premette al racconto, che occupa un’intera pagina del quotidiano solferinico:

 

«Erano i tempi della Rivoluzione Culturale, che secondo la storia ufficiale fu lanciata da Mao Zedong il 16 maggio 1966 per purgare il Partito comunista dagli “elementi borghesi infiltrati nel governo e nella società”. In realtà Mao voleva riaccentrare tutti i poteri eliminando gli avversari politici come Deng Xiaoping e Liu Shaoqi. “Bombardate il quartier generale”, disse ai giovani. I ragazzi furono entusiasti di eseguire trasformandosi in carnefici, picchiando e torturando professori, intellettuali, borghesi, revisionisti. Ci furono due milioni di morti in Cina tra il 1966 e il 1976; e figli che denunciarono i genitori; e umiliazioni pubbliche; e gente che si tolse la vita non potendo più sopportare la brutalità».

 

A parte i milioni di morti, calcolati sempre a spanne, ma viene da chiedersi se, morto Mao, Den Xiaoping non ha forse fatto una politica che, dal punto di vista di Mao, cioè del partito di cui era a capo, era borghese e capitalista. Non ha forse Deng Xiaoping avviato la politica che ha fatto della Cina quel paese capitalistico che è, sebbene con caratteristiche tali, da indurre i cinesi a parlare con involontaria ironia di “socialismo con peculiarità cinesi”? Dove starebbe, allora, il crimine di Mao? È stato un crimine aver difeso i principi ideologici comunisti da chi voleva tradirli? Il crimine è stato di Mao, o di chi, volendo tradirli, provocò lo scontro politico che prese il nome di “rivoluzione culturale”? Santevecchi sorvola sul tradimento, comprovato dal comportamento successivo di Deng, che dà ragione a Mao, e invece agile come un gatto salta sull’argomento della pura lotta di potere, per poter squalificare la reazione di Mao, così trasformato in un despota sanguinario. Ma così facendo, Santevecchi dimostra di essere sì, agile, ma non come un gatto, bensì solo come un gattino, uno dei tanti gattini ciechi ammaestrati a ripetere da ogni canto una rappresentazione di parte che, anche contro l’evidenza dei fatti, pretende di essere la verità storica.

Grillo, la Cina e Internet

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In un’intervista a Die Zeit, uscita ieri anche su la Repubblica, il futuro Capo della Terza repubblica italiana nata dalla Ret-istenza,dice: «Quello che fa paura a tanti è l’effetto che avrebbe sull’Europa e il resto del mondo il nostro modello di governo. Ho parlato con l’ambasciatore giapponese, francese, e addirittura con l’ambasciatore cinese. È venuto a trovarmi due volte: la prima due ore, la seconda tre. Dalle nostre conversazioni ha tratto questo sunto: in Italia sta succedendo qualcosa di insolito, un movimento dal basso, senza soldi, usa la rete e stravolge la politica italiana e forse anche quella internazionale. Questo movimento preoccupa moltissimo noi cinesi perché potrebbe destabilizzare anche il nostro sistema. Questo ha scritto. Ed è logico che sia preoccupato». In effetti, i cinesi non si stannno limitando a studiare, ma stanno mettendo in pratica vari accorgimenti per evitare che un Grillo con gli occhi a mandorla si materializzi dalle loro parti. Sempre ieri, su il manifesto, in un’oggettiva cronaca da Pechino di Simone Pieranni, si poteva leggere che, secondo le nuove norme, l’autore di un post ritenuto una diceria falsa, che viene visto da 5mila utenti internet o ripubblicato più di 500 volte, rischia fino a tre anni di carcere. Ci si aspetterebbe la rivolta. Invece, Charles Xue, paladino del vessato popolo cinese e star di Internet con 12 milioni di followers, arrestato con un’accusa – guarda un po’ – legata alla prostituzione, è apparso in tv, ammanettato e pronto a confessare i propri errori: «mi sono sentito come un imperatore», ha ammesso. Pan Shiyi, altra webstar cinese, noto per le sue campagne contro l’inquinamento, anche se è uno dei più importanti e ricchi palazzinari cinesi, è apparso impacciato e nervoso, anch’egli in tv, per celebrare le nuove norme contro le «false informazioni» on line. Che s’ha da fa’, pe’ campa’, qualcuno potrebbe dire. Ma Mo Yan, premio Nobel della letteratura, non è affatto scandalizzato da questo giro di vite, e ritiene anzi che la «censura ha stimolato gli scrittori». Va be’, l’opportunismo di MoYan è risaputo. Ma, conclude il nostro onesto cronista, «il suo argomento è comune in Cina, perché non sono pochi gli artisti e gli intellettuali che leggono le misure repressive come uno stimolo alla creatività». E adesso, ce la immaginiamo la faccia di Grillo che, mogio mogio, ammette in tv di essersi sentito un imperatore? Fantascienza. Perché, piaccia o meno, il punto è questo, che in Cina il controllo politico di Internet suscita una sua quota di consenso. Da un lato, non c’è quella “dittatura della maggioranza”, come la chiama Carlo Freccero, ovvero la “dittatura” della cosiddetta “società civile”, che in Italia ha portato prima a Berlusconi, con la tv, e poi, sebbene ancora non pienamente, a Grillo, con la rete; dall’altro, il potere non è così screditato e impotente da limitarsi alle vacue sfide à la Fassino, «Grillo si faccia un partito, e poi vediamo quanti voti prende». La questione bisogna vederla alla luce (gramsciana) della reciprocità tra governanti e governati. In Cina è minima, c’è molto paternalismo, ma il padre-partito non è un vecchio trombone da mandare affanculo nelle manifestazioni convocate alla bisogna da Beppe Grillo. In Italia, è anch’essa minima, ma la classe politica è completamente smidollata, perché da almeno vent’anni, dal punto di vista formale, ma da almeno trenta, dal punto di vista culturale, ha consentito di essere infiltrata da una “società civile” che, di fatto, esercita il potere, ma per scopi del tutto privati o comunque particolari. È vero, con i suoi proclami sulla democrazia diretta, la consutazione permanente della base, la mobilitazione in rete del popolo, l’incorruttibilità, e quant’altro, Grillo si atteggia a restauratore del governo di tutti per tutti. Insomma, sarebbe venuto in terra a reciprocità instaurare – finalmente! Ma questo miracolo che, con il più vieto machiavellismo, si dovrebbe compiere tenendosi il porcellum per abolirlo un minuto dopo, ha il naso lungo quanto i capelli di Casaleggio, un tenebroso Richelieu della Bovisa che, mentre manda flautati segnali a tutti quelli che contano dentro e fuori la Penisola, minaccia continuamente di andarsene se non si fa come dice lui. E non li vediamo alla tv, gli occhi sbarrati dei cittadini-onorevoli del Movimento 5 Stelle, atterriti dall’idea di essere profligati sul suo blog dal padre-padrone, qualora dovessero sbagliare a parlare anche di una sola sillaba? E, allora, siamo onesti, Internet in Italia non potrà dar luogo a nessuna reciprocità tra governanti e governati, ma sta solo conducendo, se solo lo si voglia vedere, ad un autoritarismo ancora più tetragono di quello berlusconiano, dove non ci sarà più neanche la distrazione del burlesque. Mentre in Cina, questo è il paradosso, ma la dialettica della vita se ne infischia dei paradossi, la forza dell’attuale classe politica, se da un lato nell’immediato reprime il libertarismo della rete, dietro cui, non dimentichiamolo, occhieggiano le forze orgogliosamente “capitalistiche” di Google, Facebook, Twitter e via smanettando, dall’altro, lascia intatte le possibilità che si arrivi, penando e soffrendo, certo, come sta penando e soffrendo Liu Xiaobo, ad una effettiva reciprocità.