Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.
- http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml [↩]