Per capire la Corea bisogna guardare al Vietnam. Nel Vietnam, l’élite “ideologica”, insediata al Nord, lottò per l’indipendenza nazionale, riuscendo a sconfiggere l’aggressore esterno (prima i francesi, poi gli americani) e a sottomettere l’élite “speculativa”, insediata al Sud. Assicuratasi l’autonomia, essa concesse delle aperture all’elité “speculativa”, mantenendo il controllo politico. Nacque così, negli stessi anni in cui Deng in Cina varava le sue modernizzazioni, l’ircocervo di un socialismo nazionale capitalistico, che bisognerà vedere quanto potrà durare, tanto in Cina quanto in Vietnam.
In Corea, questa mistione non è riuscita, perché la classe dirigente di quel paese nel suo complesso si è divisa, senza che nessuna delle due frazioni riuscisse ad avere il sopravvento. Perché questa divisione sia avvenuta, bisognerebbe spiegarlo con la storia pregressa della penisola coreana. Divisioni di classe troppo profonde? Classi dominanti propense alla forza e incapaci di ottenere il consenso dei dominati? Resta il fatto che, in mancanza del fattore di base dell’autonomia nazionale, gli scambi tra le due élite non sono stati possibili, e quando, nel 1989, lo scontro di classe internazionale è stato vinto dal capitalismo occidentale capitanato dagli Stati Uniti, la Corea si è come ibernata: al Nord si continua a praticare l’ideologia, cioè la juche più il prozac dell’atomica, al Sud, gli interessi, cioè un sistema produttivo di stampo capitalistico occidentale ammantato di una democrazia elettorale largamente corrotta. In entrambi i casi, naturalmente, c’è la pretesa di essere i veri depositari dell’identità nazionale coreana, ma in realtà senza molte possibilità di definire in positivo tale identità, proprio per la mancanza del pilastro centrale su cui basarsi, cioè l’autonomia che mischia e fonde nella classe dirigente ideologia e interessi, struttura e sovrastruttura. Nord e Sud finiscono così per alienarsi nel confronto geopolitico di Cina e Stati Uniti, e agli occhi del mondo rischiano di trasformare la Corea nella Serbia del 1914, una piccola nazione la cui aspirazione irredentistica incendiò un mondo che non aspettava altro che di essere incendiato.
In questa situazione, che ha fatto riaffiorare dalla sicumera di un malfermo mondo unipolare la paura di uno scontro atomico, l’unico lampo di saggezza è venuto da Cavallo Pazzo Trump, quando ha riconosciuto che Kim Jong-Un non deve essere poi un imbelle pupazzo, se alla sua giovane età si è saputo imporre su dirigenti più anziani che volevano metterlo palesemente sotto tutela, e ha fatto intravedere l’intenzione di andargli a parlare. Ma, ammesso che la confusa lotta per il potere nell’establishment americano glielo consenta, cosa può dire Trump a Kim Jong-Un? E che cosa Kim Jong-Un è disposto a sentirsi dire? Quale può essere la formula che può porre fine, ad un tempo, alla guerra nazionalistica esterna e alla guerra di classe interna, preludendo all’unificazione della penisola? Una simile formula richiederebbe ovviamente che anche la Cina interloquisse, ma una Cina che peschi nel suo armamentario qualche elemento socialista. Il neo-maoismo di Xi Jingping si può spingere a tanto? E, inoltre, la fine della lotta di classe interna non metterebbe certo al sicuro la famiglia Kim, divenuta in tutto questo tempo un’escrescenza nepotistica che le forze subalterne del Sud, abituate alla dura lotta sindacale democratica, non hanno certo motivo di amare. La situazione è a dir poco ingarbugliata, e l’unica nota positiva è che la remota Corea, per le questioni oggettive che mette in gioco, sembra essere il punto in cui il ghiacciaio ideologico che ha avvolto il mondo dopo il 1989, può cominciare a sciogliersi, liberando l’umanità dalla regressione degli scontri religiosi.