egemonia

Egemonia, debito pubblico, Europa

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Ormai comincia ad essere storicamente acclarato che il debito pubblico che grava sull’Italia non dipende dalla presunta spesa pubblica esplosa, nel secolo scorso, durante i crepuscolari anni Ottanta della Prima Repubblica, ma è stato il risultato della scelta politica, operata all’inizio di quel decennio, di rimanere ancorati all’allora Sistema monetario europeo (SME), cosa che comportava per l’Italia di adeguare i propri tassi di interesse a quelli vigenti nei mercati europei (soprattutto tedeschi), e di ridurre il differenziale inflazionistico tra l’Italia e gli altri paesi europei. D’altra parte, il differenziale inflazionistico era causato, anche qui, non dalla monetizzazione del debito, che tale scelta rendeva non più fittizio ma reale, bensì da fattori precedenti, quali lo shock petrolifero del 1973, da un lato, e, dall’altro, da ciò che pudicamente gli storici dell’economia chiamano il «duro scontro distributivo in corso nel paese»1. Detto in chiaro, la dura lotta di classe, che in quel periodo faceva pendere la bilancia dal lato del salario, anziché del profitto. La scelta di restare nello SME, e poi nell’euro, fu dunque sin dall’inizio una brutale operazione interna di compressione salariale, come vide lucidamente Luciano Barca, padre del non meno lucido ma non sempre altrettanto efficace Fabrizio, all’epoca fra i principali collaboratori di Berlinguer. L’Europa perciò fu il nome seducente di una guerra che il capitale condusse contro il lavoro, al prezzo di un debito pubblico che, da allora, non potendosi rimuovere la causa scatenante, non fa che crescere. Ma, bisogna essere onesti: c’erano alternative? L’acuta analisi di Barca conteneva una alternativa politica? No, l’alternativa all’Europa del grande gioco capitalistico, i cui costi sarebbero stati pagati dal lavoro, era una lenta agonia inflazionistica, i cui costi anch’essi sarebbero stati pagati dal lavoro. Insomma, i ceti subalterni non avevano scampo, e l’unica zattera loro offerta fu un chimerico “nuovo modello di sviluppo” che l’allora sinistra, il cui nerbo era costituito da un sempre più stanco PCI, concretizzò in una serie di sterili documenti. La sinistra togliattiana, insomma, che dal dopoguerra perseguiva il progetto egemonico di una via italiana al socialismo, giunta all’appuntamento decisivo, si accorse di avere perso le chiavi di una lotta di classe nazionale-popolare, in grado cioè di unire alle lotte del lavoro la salvezza della nazione. Fu un facile gioco, allora, per le élites capitalistiche del tempo, denunciare la “deriva argentina” e far rilucere il miraggio di un’Europa dalla cui virtù tutti avrebbero guadagnato.

Il grande gioco capitalistico europeo, però, come un motore affannato dagli anni, batte ora in testa, con il duo franco-tedesco sempre più incapace di garantire un dividendo ai vari settori capitalistici nazionali confederati nel  progetto dell’UE. È insomma la volta del capitale a non essere più egemone, a non sapere più declinare il nesso nazionale-popolare che, nel progetto europeo, è il nesso tra i molteplici settori nazionali capitalistici, i quali portano in dote ciascuno l’egemonia sui ceti subalterni di propria spettanza. È dalla crisi di questa doppia articolazione del nesso nazionale-popolare, esemplificato dal declino del partito popolare e del partito socialista europei, che nasce la fiammata populista e sovranista, una disperata ritirata del capitale europeo nei singoli ridotti nazionali, dove si ingegna come può ad “ascoltare il popolo”, a cercare di rinsaldare, cioè, una egemonia perduta, con provvedimenti che, come i salassi di un tempo, non fanno che debilitare ulteriormente il malato. Con i redditi di cittadinanza, le flat tax e le quote cento, infatti, il debito pubblico non fa che crescere ulteriormente, e si inasprisce perciò lo scontro intercapitalistico tra gli “spendaccioni” che vogliono partecipare comunque al grande banchetto europeo, e i “rigoristi” che non intendono fare regali a frazioni del capitale che non sanno competere secondo le “regole”. È, insomma, la storica debolezza del capitalismo italiano che grava su tutta la società italiana, ma che, ancor più che negli anni Settanta ed Ottanta del secolo scorso, non innesca l’alternativa di una “riforma economica”, capace di far pendere dal lato dei subalterni il nesso nazionale-popolare. E, allora, domanda: è questa gracilità del capitalismo italiano che, rendendo asfittica la dialettica di capitale e lavoro, deprime politicamente gli stessi ceti subalterni, oppure c’è intrinsecamente nei ceti subalterni italiani una insufficienza complessivamente “culturale” che impedisce loro di trovarsi pronti agli appuntamenti storici? La penosa vicenda del M5S, con tutti i suoi velleitarismi, e con tutte le sue ambiguità, non mostra infatti in maniera eclatante tale insufficienza? E, d’altra parte, il capitale, con la Lega Nord divenuta Lega Italia, dando voce alla paura securitaria, alla xenofobia e al razzismo che nei subalterni riemerge quando la loro coscienza di classe è distrutta, il capitale, dicevamo, mostra tutta la sua ferocia, ma anche tutta la sua astuzia poiché, volgendo in senso populistico il concetto di Stato-nazione, arriva a proporsi come il baluardo della sovranità. Una partita, anche questa, però, condotta confusamente, dibattendosi convulsamente tra Russia, America e Cina, nel tentativo di sottrarsi alla pressione delle frazioni “rigoriste” del capitale europeo, da cui per altro dipende, così come stanno le cose, la possibilità per l’Europa di competere con gli altri continenti-mondi. Una competizione che appare, se non persa in partenza, sicuramente assai incerta, quando invece, per l’Europa, com’è ormai chiaro da un secolo a questa parte, la salvezza sarebbe, non di rinserrarsi nel suo fascismo perenne, così come fa ogni qualvolta è all’ordine del giorno la fuoriuscita dalla sua cupa alienazione capitalistica, ma di valorizzare finalmente quella critica dell’economia politica che, accendendo tante speranze nel mondo, l’ha resa unica ed universale.

  1. T. Fazi, Signoraggio, “divorzio”, debito pubblico: facciamo chiarezza una volta per tutte, http://www.marx21.it/index.php/italia/economia/29532-signoraggio-qdivorzioq-e-debito-pubblico-facciamo-chiarezza-una-volta-per-tutte []

Le lotte di classe acefale in Francia

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In Francia, da due mesi ormai le lotte di classe, dal cielo del parlamento e del dibattito pubblico sono debordate in strada nell’aperto conflitto con le forze dell’ordine. Ci sono diversi fattori che hanno spinto a questo esito. Anzitutto si è acuita la contraddizione di base di ogni rivoluzione, cioè il contrasto tra le forze produttive moderne e le forme capitalistiche di produzione (Marx). Il conflitto è scoppiato nel settore dei trasporti, dove la tecnologia fa intravvedere la possibilità di mezzi di trasporto meno inquinanti e automatizzati. Ma questo sviluppo di forza produttiva avviene senza che venga modificata la concezione individualistica del trasporto. Anzi, quest’ultima viene rinforzata: perché prendere un autobus affollato, se posso avere una macchina non inquinante e automatizzata? Se poi questa macchina è anche condivisa (car sharing), c’è pure la magia di una forma collettiva di trasporto individuale. La premessa occulta di tutta questa costruzione è che non esistano tecnologie che possano rendere i mezzi di trasporto pubblico non inquinanti, automatizzati e comodi da prendere. Impostata la tecnologia sulla fruizione privata del trasporto, i vincoli che ne discendono (strade fornite di sensori, ecc.) limitano l’innovazione alla ristretta cerchia urbana, contro la più estesa e disagiata campagna. La tecnologia diventa così la base falsamente oggettiva di una inevitabile disuguaglianza, che trasforma in anti-moderni coloro che, subendola, si ribellano. C’è insomma un nesso strutturale, tecnologico e sovrastrutturale che eternizza la vecchia concezione egemonica, legittimando l’appropriazione capitalistica dell’avanzamento tecnologico. Le punte più aperte della filosofia idealistica contemporanea riconoscono l’esistenza delle forme capitalistiche di produzione, ma semplificano quel nesso opponendo la “tecnica” al “capitalismo” (Severino). In realtà, la tecnica è al servizio dell’egemonia, poiché serve a tacitare nuove concezioni, la cui oggettivazione metterebbe in crisi le forme capitalistiche di produzione. La protesta dei gilet gialli si esprime immediatamente come difesa della vecchia macchina diesel, inquinante ed essa stessa portatrice di una concezione individualistica, ancorché rurale, del trasporto. Indirettamente, però, la loro lotta evidenzia il limite di un assetto egemonico la cui permanenza ostacola l’intera totalità sociale, poiché crea diseguaglianze e favorisce la sola concezione che va d’accordo con l’appropriazione capitalistica, quella individualistica. Qui si coglie un significato essenziale del contrasto tra le forze produttive moderne e le forme capitalistiche di produzione che, se inteso economicisticamente, si perde: la lotta di classe avviene sul terreno ampio dell’egemonia, poiché la protesta contro la diseguaglianza e l’ingiustizia non può risolversi in un puro atto redistributivo, ma deve essere in grado di rimettere in questione intere concezioni che reggono la prassi sociale in ogni suo settore.

Le odierne lotte di classe in Francia presentano però un carattere politico specifico che spiega perché stentino a radicarsi sul terreno della lotta egemonica, e ristagnino nella rabbiosa lotta di strada. La Francia, da un buon cinquantennio, controlla la forma capitalistica di produzione grazie al sistema politico gollista che, in nome dell’ideologia repubblicana antifascista, tiene ai margini la tradizione passatista e risucchia al centro ogni velleità di cambiamento. Questo gioco però si è esaurito con la presidenza Hollande, in cui quel che restava del socialismo, con il suo totale ralliement alle esigenze produttive e al modo di vita imposto dal capitalismo finanziario europeo (austerità + consumo), ha definitivamente dilapidato ogni residua possibilità di condurre vittoriosamente anche solo un barlume di lotta di classe nelle istituzioni esistenti (Engels). Di fronte a questa immane disillusione a sinistra, e al residuo ma sempre più stanco persistere del discrimine antifascista a destra, la sortita di Macron (En marche) si è rivelata quindi, più che un incitamento (en marche!), una marche en solitaire, l’ultima fiammata di un sistema politico in cui minoranze privilegiate tiranneggiano, al netto di forme democratiche sempre più vuote, una maggioranza che si percepisce, quando non è effettivamente, più povera.

Una maggioranza, ecco un terzo fattore dell’esito conflittuale ma scarsamente egemonico delle attuali lotte di classe in Francia, che è tale perché, oltre al fronte proletario, la cui coscienza è stata però distrutta dall’opportunismo delle sue rappresentanze politiche, vi confluisce l’ampio ceto medio sparso in tutto il territorio nazionale, l’erede sociologico di ciò che nella Francia ottocentesca era l’immensa classe contadina, la quale non fu mai capace di nessuna iniziativa conseguentemente rivoluzionaria (Marx). Un po’ per questo suo carattere storico, un po’ per il carattere composito del fronte in cui confluisce, le lotte di classe che essa sta conducendo da due mesi a questa parte, appaiono acefale, un affrontamento che resta accanita lotta di strada, a volte sfociante in episodi truci ma militarmente impari, e sinora senza sbocco politico, poiché la richiesta di dimissioni del presidente della repubblica appare a tutti un salto nel vuoto, dal momento che solo il rabbuiato e paternalistico sparire e riapparire di De Gaulle davanti al maggio ’68 è l’unico modello di via d’uscita dalle crisi sperimentato dalla V repubblica. Vorrà il giovane Macron tentare questa strada? Visibilmente non ne ha la capacità, poiché ogni suo scomparire e ricomparire viene interpretato come l’arroganza di un debole Luigi XVI. E d’altra parte, le sue dimissioni aprirebbero la strada ad una lotta confusa tra raggruppamenti politici che da tempo indulgono in una più o meno aperta negazione di una netta demarcazione tra destra e sinistra, le quali non sono specie naturali, ma categorie che vanno difese e coltivate al fine di una corretta prassi politica. È insomma l’interregno “populista”, il lungo e caotico periodo intermedio tra egemonia in atto e nuova egemonia, che in Francia dilaga nello scontro di strada senza sbocco, e in Italia nel “contratto di governo” che prelude alla ciclica stabilizzazione moderata. In mancanza di un adeguato canale egemonico, culturale ed organizzativo, un’enorme energia rivoluzionaria viene così dissipata, senza che possa tornare utile ad incardinare la “riforma economica” (Gramsci), da cui trarrebbero vantaggio non solo le classi oppresse, ma l’intero assetto europeo contemporaneo, che ristagna invece in un plumbeo clima penitenziale, reso ancora più stridente dall’obbligo di godere in tutti i luoghi di consumo di cui quotidianamente abbisogna l’austerità per autoalimentarsi.

I giorni bui dell’egemonia

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A che punto è l’egemonia nell’epoca della lotta di classe sghemba? I quadranti su cui osservarla sono molteplici, nazionali, continentali, mondiali. Singoli paesi che spiccano per i contraccolpi che subiscono, e gruppi di nazioni dentro cui si rimescolano antichi rapporti di forza, in una storia che sembra non finire mai. Si prenda il Brasile dove, a differenza del Venezuela, è emersa l’incapacità del Partito dei lavoratori di trasformare dieci anni di governo in un “blocco storico”, cioè in un nuovo “ordine spirituale” da tramutare in regole che facessero da antemurale al prevedibile ritorno della Vandea bianca, il “popolo” degli ex-immigrati colonizzatori, per buona parte italiani, che ancora solo cinquant’anni fa, la domenica, dopo essere andati a messa, uscivano a caccia di “negri” come si va a caccia di cinghiali. Invece, sono stati i vecchi ordinamenti giuridici dell’egemonia in atto, in cui lo stesso magistrato fa le indagini ed emette il giudizio, a consentire la revanche, nella forma del più classico parlamentarismo: il giudice che ha condotto l’operazione Lava Jato immediatamente cooptato nel nuovo governo, con gli incarichi dell’Interno e della Giustizia. Non c’è qui neanche bisogno di aprire i sacri testi, da Pareto a Lenin, per scorgere all’opera lo Stato come macchina speciale di repressione che, nell’alternanza della spoliazione, premia i suoi fedeli servitori con cariche e promozioni. Tutto naturalmente in nome dell’onestà, la stessa che in Italia il “popolo” ha invocato nelle piazze e cercato nelle urne, premiando i pentastelluti. Ma non bisogna farsi fuorviare dalle parole, perché qui la domanda di onestà esprimeva non il ritorno di una Vandea, ma la lotta di classe tipicamente italiana del popolo “minuto” contro il popolo “grasso”, una lotta tutta interna all’immenso ceto proprietario cresciuto come l’adipe negli anni, in cui l’esile strato borghese, che come una schiuma galleggia su quel torbido mare, cerca la salvezza in un cosmopolitismo di belle pose e mosse accorte. Per contraccolpo, si fa avanti un sovranismo sbuffante di insofferenza verso l’Europa a trazione germanica, senza calcolare che se cade l’Europa, si spezza anche l’Italia. O davvero i gialloverdi pensano di tenere unita l’Italia con il prezzemolino del “reddito di cittadinanza”, per farne una piattaforma da vendere al miglior offerente, Putin o Trump che sia? Sul “reddito di cittadinanza” bisognerebbe pur dire che in realtà è un “obbligo di lavoro”, ma proseguendo nella panoramica sull’egemonia nell’epoca della lotta di classe storta, negli USA Trump simboleggia il ritorno dell’egemonia in atto che, rinsaldata la dittatura nella struttura, subordina a sé nella soprastruttura il “popolo”, cioè tutti quei ceti ricacciati dalla “crisi” nel sottosuolo dell’indigenza, ma che continuano a credere nel “sogno americano”. Una perfetta miscela che consente ai ricchi di diventare più ricchi con l’applauso dei poveri. In ciò, l’Europa è più seria, perché impone un capitalismo penitenziale che serve a salvaguardare le storiche distanze tra élite e masse, queste ultime private di qualsiasi impulso contro-egemonico. Scomparsa la coscienza di classe, è rimasta solo la lotta di classe che la parte vincente conduce con un accanimento persecutorio, ciò che fa dell’egemonia la crosta sottile di un immenso inferno ribollente di rancore. E qui si impone un chiarimento. L’egemonia è nello Stato e fuori dallo Stato. È pubblica ed è privata. È nello Stato, e quindi è pubblica, perché è uno dei due momenti dello Stato, il consenso, complementare al momento della forza. Ma è fuori dallo Stato, quindi è privata, perché l’egemonia è assicurata dagli apparati egemonici della società civile – impresa, famiglia, media, social, Chiesa, movimenti, partiti, ecc. I populisti, con il pretesto di ripulirlo dalle pretese lordure, vanno all’attacco dello Stato, lo svuotano, lo occupano, proclamano di volerlo riportare alla sua originaria funzione pubblica, ma poiché il loro intento non è di spezzare nella struttura l’appropriazione privata del plusvalore, ma di sostituire in tale compito i “grassi” con i “magri”, di fatto lo sottomettono alla privatezza della società civile. La società civile così si statalizza, nel senso che gli apparati egemonici diventano, come lo Stato, fortezze da cui partono continuamente raid che annientano e polverizzano coloro che si battono per la contro-egemonia, cioè per la fine del ciclo spoliatorio. Se prima trincee e casematte erano edifici e vie risplendenti di fascinose insegne, utili ad assicurare consenso verso la fortezza madre, lo Stato, ora sono gironi e bolge che rigurgitano di ogni sorta di dannati – consumismo obbligatorio, gioco d’azzardo compulsivo, pornografia reiterata. Ai più questo magma dà l’impressione di una società “liquida”, ma in realtà è più solida che mai, addirittura pietrificata in un ordine strutturale tanto più iniquo quanto più immutabile.

Egemonia, migrazioni, natalità, nuova etica sessuale in Gramsci

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Il principio della condizione borghese ossia della società civile è il godimento, la capacità di fruire.

(Marx)

Occorre insistere sul fatto che nel campo sessuale il fattore ideologico più depravante e «regressivo» è la concezione illuministica e libertaria propria delle classi non legate strettamente al lavoro produttivo, e che da queste classi viene contagiata alle classi lavoratrici.

(Gramsci)

A metà degli anni Trenta del secolo scorso, Antonio Gramsci, osservando le tendenze demografiche e migratorie delle principali nazioni occidentali, particolarmente emblematiche negli Stati Uniti, notava come l’aumento medio della vita, con la scarsa natalità e coi bisogni di far funzionare un ricco e complesso apparato produttivo, poneva problemi nuovi di natura sia sovrastrutturale che strutturale. Infatti, all’interno di una stessa nazione, le generazioni vecchie si ponevano in un rapporto culturale sempre più anormale con le generazioni giovani, e le masse lavoratrici si impinguavano di elementi stranieri immigrati che modificavano la divisione del lavoro: mestieri qualificati per gli indigeni, oltre alle funzioni di direzione e organizzazione; mestieri non qualificati per gli immigrati. Gramsci osservava anche che un rapporto simile, ma con rilevanti conseguenze antieconomiche, si poneva in queste stesse nazioni tra le città industriali a bassa natalità e la campagna prolifica: mentre i caratteri urbani acquisiti si tramandavano per ereditarietà o venivano assorbiti nello sviluppo dell’infanzia e dell’adolescenza, la vita nell’industria domandava un tirocinio generale, un processo di adattamento psico‑fisico a determinate condizioni di lavoro, di nutrizione, di abitazione, di costumi, che non era qualcosa di innato, di naturale, ma richiedeva di essere acquisito. La bassa natalità urbana implicava perciò una incessante e imponente spesa per il tirocinio dei sempre nuovi inurbati e portava con sé «un continuo mutarsi della composizione sociale‑politica della città, ponendo continuamente su nuove basi il problema dell’egemonia»1.

Se veniamo all’oggi, le tendenze descritte da Gramsci appaiono confermate e approfondite. L’Italia, dove pure è vivo il desiderio di avere dei figli, è caratterizzata da uno sbilancio sempre più accentuato tra natalità e flussi migratori, e la regressione demografica ormai trentennale tocca anche la “campagna” interna, cioè il Sud. L’Italia intera, quindi, si meridionalizza, e la questione dell’egemonia non riguarda più solo i rapporti tra Nord e Sud, ma dell’intero paese nei confronti del blocco europeo egemonizzato dalla Germania. Quest’ultima, che pure compensa l’invecchiamento della popolazione creando servizi e sostenendo il suo mercantilismo con un’immigrazione di “qualità”, appare politicamente logorata dallo sforzo di controllare le tendenze xenofobe che l’immigrazione scatena. L’Inghilterra, dopo il lungo periodo multiculturalista, con la cosiddetta Brexit ha cominciato ad alzare le paratie, ventilando la proposta che anche in settori come l’industria e la finanza sia d’obbligo il passaporto inglese. E la Francia, unica a non essere in regresso demografico, per stabilizzare la sua egemonia punta su una rigida ideologia repubblicana, che però non fa presa sui figli degli immigrati che negli anni scorsi l’hanno rimpinguata, alimentando così nei nativi il fosco presagio, cui la letteratura dà voce, di un presidente di fede islamica. Nel complesso, l’Europa appare senza risposta alla cruda domanda che ancora Gramsci poneva, su cosa può succedere alla “città”, se cresce non per la sua stessa forza genetica, ma per immigrazione: «potrà compiere la sua funzione dirigente o non sarà sommersa, con tutte le sue esperienze accumulate, dalla conigliera contadina?»2. La soluzione che Gramsci prospettava per questa sfida egemonica, consisteva in «una nuova etica sessuale piú elevata dell’attuale», che le nuove generazioni avrebbero dovuto elaborare3. Divorzio, aborto, contraccezione, certamente sono state tappe che, nel corso di questi decenni, non solo in Italia, ma in tutto l’Occidente, hanno delineato una nuova etica sessuale, ma c’è da chiedersi se esse hanno risposto più alle esigenze produttive immediate, che non a quelle riproduttive, se per riproduzione si intende non tanto il mito rurale della numerosità, come nel fascismo, ma il problema della funzione dirigente della “città”. L’ultimo atto è, ora, il riconoscimento del matrimonio omosessuale, che sembra segnato dallo stesso equivoco. Infatti, le rivendicazioni LGBT sono portate avanti anche in paesi che un tempo si sarebbero detti del Terzo mondo, come nel Venezuela di Chávez e Maduro. Ma mentre lì la nuova etica sessuale rientra nello sforzo di ridefinire il concetto stesso di “città”, che non sia quello imposto dai rapporti imperialistici e coloniali, in Occidente definisce l’identità di strati sociali cosmopoliti, dalla finanza all’economia digitale all’industria culturale e pubblicitaria alla moda, che costituiscono il nerbo dell’odierno capitalismo, cioè di quel sistema che, ancor più di quanto lo fosse già nell’epoca storica del connubio con la borghesia europea, è divenuto non solo un modo di produzione, ma anche un sistema ideologico e un modo di vita universali4. Qual è, allora, il significato della connessione tra la nuova etica sessuale, giunta al riconoscimento delle unioni omossessuali, e il capitalismo come forma di vita planetaria? Una risposta a questa domanda richiede di concepire il capitalismo non solo come un flusso incessante di riproduzione materiale, ma anche come un processo continuo di riproduzione simbolica, laddove il simbolico non è il riflesso ideologico sovrastrutturale, ma la matrice che definisce il rapporto tra struttura e sovrastruttura. Chi ha maggiormente analizzato questo nesso, in modo oggettivamente convergente con le classiche analisi marxiane, è Jacques Lacan, quando ha caratterizzato il capitalismo come il regime in cui il disciplinamento libidico, a causa di un blocco dell’identificazione simbolica inconscia, viene usurpato da un suo simulacro, che anziché disciplinare, sfrutta il desiderio, aprendo così la via al godimento compulsivo, un eccesso di piacere che compensa patologicamente la mancata identificazione inconscia5. Il capitalismo, allora, il capitalismo che Lacan analizza quale regime libidico, è quell’enorme cumulo di merci di cui parla Marx che, a causa di una usurpazione normativa, è anche un’enorme massa di oggetti di godimento.

Gramsci attribuì l’enorme diffusione della psicanalisi nel primo dopoguerra, alle crisi morbose provocate dall’aumentata coercizione morale, esercitata dall’apparato statale e sociale sui singoli individui (Q. 22, § 1, p. 2140). Ma appare evidente da quanto abbiamo appena detto circa la psicoanalisi lacaniana, che le crisi morbose, ormai non più dei singoli individui, ma dell’intera formazione sociale, dipendono non da un aumento, bensì da una degradazione della coercizione socio-statuale, dal momento che alla norma disciplinare, che Lacan chiama il “discorso del padrone”, subentra un suo simulacro, quello che sempre Lacan chiama il “discorso del capitalista”6. La coercizione, dunque, resta, ma essa non viene più esercitata per assuefare gli istinti ad una nuova forma di lavoro, come accadeva nel fordismo, o ad una transitoria esigenza sociale, come accadeva con la guerra (Q. 22, § 10, p. 2162), bensì per sfrenarli nel consumo del godimento ricorsivo. La creazione di una nuova etica, allora, che nella razionalizzazione fordista assumeva, come Gramsci osservava, l’apparenza di un “puritanesimo”, dal proibizionismo al controllo sui rapporti sessuali dei dipendenti e sulla sistemazione delle loro famiglie (Q. 22, § 3, p. 2150), nell’epoca dell’usurpazione normativa ad opera del capitalismo assoluto assume la forma di una nuova utopia illuministica (divorzio, aborto, unioni omossessuali, abolizione dei ruoli sessuali, procreazione tecnologizzata), che però entra in conflitto con la necessità di una qualche disciplina degli istinti sessuali, richiesta da una razionalizzazione del lavoro che, non solo non viene meno, ma addirittura si approfondisce, sia con un’ulteriore macchinalizzazione del lavoratore industriale (metrica del lavoro), sia con l’estensione dei metodi razionalizzanti all’economia dei servizi (prestazioni di lavoro regolate da algoritmi), e a branche sinora non coinvolte come la ricerca scientifica e accademica (metodologie di valutazione). Un contrasto che, paradossalmente, si risolve in un rafforzamento della famiglia, la cui tradizionale funzione di stabilizzazione dei rapporti sessuali arriva ora a comprendere anche forme nuove, prima facie non riproduttive, come la famiglia omosessuale.

Si direbbe, allora, coscienza morale “libertina” e pratica produttiva “virtuosa”. Ma è una pratica che, come abbiamo osservato, deve far posto al godimento quale essenza della forma di vita capitalistica. Non meraviglia, allora, che non vengano più pagati alti salari, la cui funzione, nel fordismo puritano, era di mantenere l’operaio in efficienza quale prezioso componente umano del meccanismo della fabbrica (Q. 22, § 11, p. 2166); e che i “bassi salari” di oggi servano paradossalmente a sostenere l’imperativo del godimento, dagli oggetti di distinzione (cellulari o vestiario griffato, magari reso abbordabile dal falso brand) alle pratiche compulsive (gioco d’azzardo di massa gestito dallo Stato). Lo Stato, allora, che nel vecchio fordismo era il presidio etico della razionalizzazione produttiva, nel capitalismo assoluto è il tempio sconsacrato di un deforme libertinismo, in cui esigenze produttive sempre più stringenti contrastano con impulsi al godimento totale, rivestiti della forma abbagliante delle relazioni sociali mediate dai social network, in cui è possibile coltivare un “romanticismo” bohémien, o comunque una doppia vita di loisirs illusori, negati dalla dura realtà produttiva.

Si scorge più agevolmente, a questo punto, il significato della connessione tra capitalismo e omosessualità che, alla luce anche del contrasto tra flussi migratori e regresso demografico, risponde all’esigenza di una riformulazione dell’egemonia, basata su una nuova divisione internazionale dell’etica sessuale: matrimoni “sterili”, sia etero che omo, nella “zona” ricca, dediti a finalizzare il sesso allo “stile di vita” improntato al godimento; matrimoni “riproduttivi” nella “zona” povera, finalizzati a riprodurre l’esercito internazionale di riserva di forza-lavoro e di consumatori di “primo livello”. Come sempre, però, l’egemonia deve fare i conti con le spinte contro-egemoniche dei subalterni, se con questo termine si intende in generale la condizione di chi lotta contro le costrizioni che ostacolano l’autodeterminazine degli esseri umani. In questo novero, allora, vanno compresi non solo i “poveri” dell’immensa “conigliera contadina” mondiale, tutt’altro che rassegnati alla loro funzione meramente riproduttiva, ma anche gli omosessuali, gay e lesbiche, che non si accontentano del semplice riconoscimento delle loro unioni come matrimonio “sterile”, funzionale al godimento, ma chiedono di poter praticare anch’essi il matrimonio “riproduttivo”, aprendo così l’ulteriore contraddizione di uno speciale mercato di uteri e spermatozoi. Si può dire, allora, parafrasando quanto aveva denunciato Gramsci, riferendosi alla norma puritana fordista (Q. 22, § 11, p. 2166), che questi “aggiustamenti” dell’egemonia non possono che produrre un equilibrio morale puramente esteriore e meccanico che, in assenza di una interiorizzazione, proposta con mezzi appropriati e originali da una nuova forma di società, si concretizza in tentativi più o meno energici di ripristinare il “discorso del padrone”. Di qui, certe maldestre campagne governative, volte a incentivare con argomenti equivoci, quando non chiaramente arcaici, i livelli di procreazione7. O, come accade nell’odierna Russia della ritrovata ortodossia religiosa, una politica di sostegno alla famiglia certamente efficace, essendo riuscita nell’ultimo quindicennio ad invertire la regressione demografica seguita al crollo dell’URSS8, ma che si accompagna alla riproposizione dell’ideologia omofoba e misogina di un certo autoritarismo patriarcale. Né sembrano poter aiutare ad attingere un nuovo equilibrio interiore le riforme tentate dalla Chiesa di Roma dove, per sottrarsi al “discorso del capitalista”, ben diffuso nel suo stesso organismo, come dimostra la cieca ricorsività della pedofilia, si esorta a rifuggire dal godimento o, nel linguaggio chiesastico, dalla concupiscenza9, si denuncia lo “spirito del mondo” come causa di ogni empietà10, ma poi ci si arresta all’annuncio rituale dell’“avvento del Regno”. Troppo poco, evidentemente, per approdare a quella interiorizzazione che una nuova forma di vita dovrebbe proporre con mezzi appropriati e originali.

Giunti a questo punto, però, la stessa riflessione di Gramsci, che sin ora ci ha fatto da battistrada, sembra spezzarsi. Interrogandosi sulla razionalizzazione fordista, Gramsci infatti si chiedeva se il metodo Ford fosse un fenomeno morboso, da combattere con la forza sindacale e con la legislazione, o se invece fosse un fenomeno “razionale”, che doveva cioè generalizzarsi per ottenere il tipo medio dell’operario moderno (Q. 22, § 13, p. 2173). Fiducioso nell’esperimento sovietico, di cui si compiaceva che fossero stati eliminati inaccettabili disciplinamenti “militaristici” (Q. 22, § 11, p. 2164), egli era favorevole ad enucleare dal fordismo quella “razionalità” insita nella modernità industriale, a patto però che la sua generalizzazione a tutta la società, come fenomeno non più “americanistico”, avvenisse non come reazione dei ceti parassitari, condannati alla rovina dallo stesso sviluppo produttivo, ma in forza dell’autodisciplina degli sfruttati, in grado di trasformare la dolorosa “necessità” dell’oggi nella “libertà” del “nuovo ordine” in costruzione (Q. 22, § 13, p. 2173; Q. 22, § 11, p. 2166; Q. 22, § 15, p. 2179). Ecco, dunque, l’interiorizzazione del comando, quale strumento per giungere alla nuova forma di vita compiutamente moderna, in cui avrebbero dovuto confluire il fordismo e l’industrialismo sovietico. La storia però ha dimostrato, non solo la debolezza dell’industrialismo sovietico, sorta di protestantesimo produttivo che, per parafrasare Marx, liberava il lavoratore dal comando capitalistico esteriore, facendo della produttività capitalistica l’interiorità del lavoratore11, ma anche la non generalizzabilità del metodo Ford e di ogni altro metodo razionalizzante, che anzi, fallendo nel lungo periodo nello scopo di tenere alti i profitti, si restringono, sboccando nel godimento compulsivo associato ai bassi salari, ai tagli pensionistici, alla distruzione del Welfare. La soluzione, quindi, contrariamente a quanto riteneva Gramsci, non può essere la generalizzazione in interiore homine della razionalità insita nel produttivismo industriale, poiché questo produttivismo contiene in sé i germi della propria degradazione.

La riflessione di Gramsci, però, offre ulteriori spunti che, ricombinati alla luce dell’esperienza storica, suggeriscono soluzioni differenti. Da un lato, infatti, Gramsci constata che le «crisi di libertinismo», tipiche di ogni tappa della razionalizzazione produttiva, coinvolgono soprattutto le classi medio-alte, e molto meno le classi lavoratrici, determinando una situazione di «ipocrisia sociale totalitaria», che provoca un «distacco di moralità» tra i gruppi sociali, trasformandoli in caste (Q. 22, § 10, p. 2161; Q. 22, § 11, p. 2169). Dall’altro, egli rileva che, in ogni ramo produttivo, c’è un limite invalicabile alla legge della concorrenza perfetta. Infatti, ogni unità produttiva, in una certa misura più o meno ampia, è «unica», e si forma una sua organizzazione propria: piccoli «segreti» di fabbricazione e di lavoro, «trucchi» che sembrano trascurabili in sé, ma che, ripetuti un’infinità di volte, possono avere una portata produttiva enorme (Q. 22, § 13, p. 2174). Ora, per restare al tema della nuova etica sessuale, non c’è dubbio che i grandi cambiamenti degli ultimi decenni (famiglie ricostituite, unioni omosessuali, declino della fecondità, tecnologie riproduttive), se da un lato hanno contribuito ad indebolire la pesante ipoteca patriarcale, dall’altro hanno trasformato gli individui in singoli senza storia, che quasi originano da se stessi, una sincronia simboleggiata dalla crescente caratterizzazione della parentela come affinità, invece che come consanguineità.12. Ma, per questa stessa condizione, gli individui, quali “segni” di una immensa langue economica, che li fa al tempo stesso differenti e identici gli uni con gli altri, diventano anche quasi intercambiabili, pronti per essere livellati nel grande scambio produttivo. La conseguenza è quella ipocrisia sociale totalitaria che frammenta la società in caste, scatenando crisi di libertinismo e distacchi morali, di cui le irresolvibili dispute bioetiche sono un tipico sintomo13. Posto, allora, che la razionalizzazione infinita dei contenuti della vita si dimostra storicamente fallace, la soluzione alternativa sembra consistere nell’incentivazione della tendenza produttiva opposta, ovvero nell’effettuazione di atti produttivi singoli, unici, irripetibili, così com’era nella produzione artigianale precapitalistica, e così come si ritrova oggi in certe produzioni di “qualità” (moda, design, tecnologie di punta, ecc.). Ma a questo proposito, con una critica precorritrice, Gramsci nota ancora che “qualità” significa volontà di impiegare molto lavoro su poca materia, perfezionando il prodotto all’estremo, cioè la volontà di specializzarsi per un mercato di lusso. Da cui consegue una divisione internazionale del lavoro, in cui la produzione quantitiva diventa qualitativa per la parte emergente della classe consumatrice di prodotti “distinti”. Una semplice ispezione del modo in cui oggi vengono prodotti e consumati gli oggetti di distinzione, nel frattempo divenuti le divinità che presiedono ad ogni aspetto della vita, verifica le premonizioni di Gramsci, che conclude sostenendo che «la politica della qualità determina quasi sempre il suo opposto: una quantità squalificata» (Q. 22, § 8, p. 2159). Una tendenza produttiva effettivamente alternativa, allora, non può che basarsi su quella “finalità senza scopo” che, come nota lo stesso Gramsci, è propria delle opere d’arte individue e non riproducibili (Q. 22, § 8, p. 2159). Ma questo non deve tradursi nell’esaltazione del non logico-spontaneo o del sentimentale-emozionale. L’irrazionale è una vuota istanza formale, derivante dalla lacerazione, ad opera della tendenza razionalizzante, del legame dialettico tra le molteplici potenze che compongono l’organismo sociale. Si diceva all’inizio che in Italia permane ancora vivo il desiderio di avere dei figli, e che la denatalità dipende dalla pressione delle esigenze produttive14. Differente è il caso del Giappone, un paese con un debito pubblico molto più alto di quello dell’Italia, dove il congelamento del desiderio in godimento si traduce in un diffuso feticismo sessuale (fidanzate “virtuali”, bambole sessuali)15. Se a ciò si aggiunge una politica particolarmente restrittiva circa l’immigrazione16, si ha l’idea di un paese in preda ad un sintomo lancinante di “purezza”, che evidentemente denota un “rimosso”. È dal lavoro politico su questa dimensione inconscia che può derivare quella razionalità produttiva senza scopo, di cui dicevamo prima. E tale dimensione inconscia è tutt’altro che una vaga regione socio-psiconalitica. Essa anzi può essere identificata con esattezza in quelle “questioni meridionali” che in ciascun paese si sono formate, al momento della loro attrazione nella cerchia della razionalizzazione capitalistica. Un “rimosso” che condiziona dolorosamente tutta la storia successiva, e che riemerge nei tempi di crisi. Nel caso del Giappone, che da vent’anni è alle prese con una stagnazione di alto livello, anche per gli stessi intellettuali critici, tale questione rimane ancora in larga parte da studiare17. Ma, come è ben noto, nel corso della crisi succeduta alla Grande Guerra, lo stesso Gramsci ha analizzato il “rimosso meridionale” italiano, in uno scritto pioneristico, steso nel 1926, pochi giorni prima del suo arbitrario arresto18. E altrettanto si può dire per gli Stati Uniti d’America, dove il “rimosso meridionale” americano, subito dopo il Grande Crollo del 1929, riemerge nella considerazione di filosofi e scrittori di quel Sud sconfitto nella Guerra Civile di settant’anni prima, punto di passaggio dalla placida Confederazione agraria alla aggressiva Federazione industriale19. Ecco quindi la premessa di un rinnovato lavoro politico: il capitalismo quale forma di vita universale è una omogeneizzazione che poggia sui piedi d’argilla di “rimossi” locali; la sua spinta alienante può essere contrastata se riemergono le molteplici, idiomatiche razionalità, sfigurate dalla corsa unilaterale allo sviluppo produttivo materiale. Le forme di tale lavoro politico sono però incerte e difficili, continuamente insidiate dall’usurpazione delle ricorrenti “rivoluzioni conservatrici”, con il loro equivoco appello alle “origini”, contro cui deve essere fatto valere il principio opposto dello sviluppo onnilaterale della moderna cognizione sociale. Ma ciò rimanda al problema dell’organizzazione e della presa di coscienza, riaperto dai fallimenti del Novecento.

  1. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a c. di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, voll. 4, Quaderno 22, § 3, p. 2149. D’ora in poi, mi riferirò a quest’opera direttamente nel testo, con la sigla Q., seguita dal numero del Quaderno, del paragrafo e della pagina []
  2. A. Gramsci, Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 19734, p. 281, lettera alla moglie Julka, senza data, ma verosimilmente scritta il 3 giugno 1929 []
  3. Ibidem []
  4. W. Streeck, How to Study Contemporary Capitalism?, «Archives Européennes de Sociologie», tome LIII, 2012, numéro 1, pp. 1-28 []
  5. J. Lacan, Du discours psychanalytique, in G.B. Contri, (a c. di), Lacan in Italia 1953-78, Milano, La Salamandra, 1978, pp. 32-55 (tr. it. pp. 187-201) []
  6. J. Lacan, Du discours psychanalytique, cit. []
  7. Ministero della Salute, Fertlity day. Parliamo di salute, documento consultato on line 10/2016 []
  8. M. Bordoni, Il crollo demografico italiano e l’esempio russo, documento consultato on line 11/2017 []
  9. J. M. Bergoglio, Lo spirito del mondo, in Id., Pastorale sociale, Milano, Jaca Book, 2015, p. 282 []
  10. Ibidem []
  11. K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in K. Marx, F. Engles, Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 19743, p. 65; K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Id., Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 19716, p. 219 []
  12. M. Barbagli, Patriarcato addio. E contano meno i legami di sangue, «Corriere della sera/La Lettura», 17.12.2017, pp. 14-15 []
  13. D. Neri, F. Aqueci, Un’etica senza verità è impotente a prescrivere?, «Segno», a. XXII, n. 171, gennaio 1996, p. 76 []
  14. L. Baratta, “Nessuno in Italia pensa al futuro, tra 40 anni sarà un disastro”, «Linkiesta», 5/12/2015, http://www.linkiesta.it/. []
  15. A. Valdambrini, No sesso, sì bambole. Il Giappone invecchia, «Il Fatto Quotidiano», 8 gennaio 2018, pp. 12-13. []
  16. Ibidem []
  17. «[…] la comparazione tra la questione meridionale italiana e quella degli Stati Uniti d’America […] penso che sia un tema da approfondire, ma ora non posso dire su come sia posta o meno una problematica “meridionalistica” anche in Giappone. Bisogna studiarla» (mail privata del 3 settembre 2016 di Koichi Ohara, già corrispondente dall’Europa, negli anni Settanta del secolo scorso, del quotidiano Daily Akahata, organo del Partito comunista giapponese, traduttore in giapponese di numerose opere di pensatori politici occidentali, responsabile della Tokyo Gramsci Society). []
  18. A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici, ripubblicato da ultimo in L. Sturzo, A. Gramsci, Il Mezzogiorno e l’Italia, Roma, Edizioni Studium, 2013, pp. 161-196. []
  19. Twelve Southerners, (by), I’ll Take My Stand. The South and the Agrarian Tradition, (1930), Baton Rouge and London, Louisiana State University Press, 1977. []

Caracas e le avventure dell’egemonia (2)

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L’insediamento della Assemblea nazionale costituente, al di là delle contestazioni sulla regolarità della sue elezione, sinora rimaste affermazioni e voci non provate, formalizza l’esistenza in Venezuela di due centri di potere, quello della vecchia egemonia, raccoltasi attorno al Parlamento nazionale, e quello della contro-egemonia nata e sviluppatasi con Chavez, e che ora prosegue con Maduro, leader per nulla carismatico, che i media occidentali dipingono come un ignorante e un buffone, ma che si sta rivelando un osso duro per coloro che cercano di rovesciare il corso del socialismo bolivariano.

Il nuovo organismo costituzionale da lui fortemente voluto ha un valore simbolico, da un punto di vista storico, che va evidenziato. Anche nella Russia del 1917, con la Rivoluzione di febbraio si venne a formare un dualismo di potere, quello dei partiti anti-zaristi il cui programma non andava al di là di una rivoluzione democratico-borghese, e quello dei Soviet, che spingeva per completare la rivoluzione politica in rivoluzione economico-sociale. La chiusura di fatto dell’Assemblea costituente, nel gennaio 1918, sancì la soluzione di questo dualismo a favore del potere dei Soviet che, nella logica della rivoluzione, era un potere altrettanto legittimo di quello dei partiti democratico-borghesi anti-zaristi. L’Assemblea costituente fu dunque il polo attorno a cui si raccolsero le forze della controrivoluzione, e dovette essere chiusa per portare a termine la rivoluzione economico-sociale, da cui per altro tutto era iniziato (“pace, pane e terra” da tutti indistintamente promessi nel febbraio 1917).

Nel Venezuela del 2017, le cose stanno esattamente al contrario. L’Assemblea costituente è l’organismo, convocato in stretta osservanza della Costituzione vigente, che può permettere di portare avanti la rivoluzione economico-sociale iniziata con Chavez, alla quale si oppongono le forze controrivoluzionarie della vecchia egemonia che, raccoltesi attorno al Parlamento, tentano di bloccarla, combinando la violenza di piazza e paramilitare con gli istituti della democrazia rappresentativa. La rivoluzione economico-sociale non è però un violento contenuto senza forma, ma avanza essa stessa sotto l’egida di una norma, quella della convocazione costituzionale del potere costituente. È questo, se vogliamo, il di più egemonico che rende tanto caratteristica la situazione venezuelana e il suo tentativo di socialismo bolivariano. Socialismo però che vive una fase estremamente critica. Gli schieramenti in campo, che a quanto pare convivono nello stesso palazzo, divisi solo da un cortile, sono infatti tutt’altro che compatti.

La coalizione cosiddetta “democratica”, un coacervo di forze che si spinge sino all’estrema destra, e che, come già detto, pratica proteste di piazza e forme di lotta paramilitari che non sarebbero tollerate in nessuno dei paesi che si proclamano democratici, è divisa sulla partecipazione o meno alle prossime elezioni regionali e municipali del dicembre prossimo, che l’attuale governo sagacemente ha intenzione di far svolgere regolarmente. Né sembra che granché forza le abbia portato il frettoloso sostegno finale del Vaticano, apparso più una concessione alle alte gerarchie locali, che non una convinta presa di posizione anti-chavista. D’altronde, oggi il Vaticano ha spazi di manovra più limitati che in passato. L’accentuazione dei toni anticapitalistici con cui cerca di recuperare la missione evangelica, lo espone al ricatto sull’etica sessuale negli scorsi decenni abbondantemente violata. Non matura così una nuova dottrina sociale, né le radici della perversione sessuale vengono recise. Francesco si muove su questa impossibilità, che lo porta a ricevere Maduro, ma a non rompere con i cardinali del privilegio e del godimento cieco.

Venendo al fronte chavista, benché all’apparenza più compatto della Mud, la coalizione dei partiti della vecchia egemonia, presenta crepe che, senza un’azione decisa coronata nell’immediato da successo, potrebbero divenire voragini. Per ora, da esso si sono staccate singole personalità, come la procuratrice un tempo fedelissima di Chavez, e ora addirittura rimossa dal suo incarico, come primo atto della nuova Costituente. E poca cosa si è rivelata la presunta rivolta militare nella città di Valencia, in realtà, per bocca dei suoi stessi promotori, la sortita di militari già radiati dall’esercito in combutta con “civili”, probabilmente quei paramilitari cui l’opposizione democratica affida parte delle sue sorti. Ma la divisione principale, non manifesta ma sotterranea, del fronte contro-egemonico è tra coloro che vogliono limitarsi a gestire la situazione presente, con i suoi equilibri e i suoi privilegi, per quanto precari, e coloro invece che vogliono approfondire la natura socialista del chavismo, in modi e forme che debbono essere evidentemente escogitate man mano che il processo avanza. Il piano su cui questo confronto avverrà sarà naturalmente l’economia, dove non solo ci si dovrà sganciare dalla ormai insostenibile petroeconomia redistributiva, ma si dovranno inventare politiche che, senza pregiudicare le “missioni” degli scorsi anni, consentano una ripresa dell’iniziativa economica, se non individuale, certo dal basso. Per riprendere il parallelismo con la Russia del 1917, è l’antico dilemma che condusse Lenin al passo indietro della NEP. Non sappiamo cosa avrebbe escogitato la sua fervida fantasia per poi fare i due passi avanti. I costituenti bolivariani hanno pero cent’anni di storia alla loro spalle per non dover commettere gli stessi errori dei successori di Lenin. E il contesto internazionale potrebbe anche aiutarli. Nonostante faccia la faccia feroce, Trump infatti sembra interessato a tutt’altro che a mettere in riga il Venezuela, così come fece Kissinger con Allende. E anche se volesse farlo, non ha più il rutilante know-how del monetarismo della Scuola di Chicago da mettere a disposizione di un Pinochet venezuelano. L’egemonia si gioca anche, se non soprattutto, con le risorse intellettuali, e oggi il fronte capitalistico appare esausto da questo punto di vista, mentre il fronte contro-egemonico ha accumulato non solo una miriade di pratiche variamente “comunitarie”, il cui limite, comprensibile visti i rapporti di forza, è stato però il rifiuto del livello generale del potere, ma anche una grande massa di conoscenze ed analisi, in primo luogo quelle ecologiche. La partita è dunque aperta, e l’Assemblea nazionale costituente potrà dare il suo contributo, se solo la lotta per il potere, su cui continuamente l’attira il fronte rissoso della vecchia egemonia, non assorbirà tutte le sue energie.