Ci voleva qualcuno che dicesse le cose come stanno, e alla fine il compito se lo è assunto una persona a modo come Sergio Romano. Il quale, nell’editoriale del Corriere di oggi, domenica 14 febbraio 2016, ha accostato l’assassinio di Giulio Regeni alla «salvaguardia della efficacia del dispositivo di sicurezza con cui l’Egitto si difende dai jihadisti dell’Isis e dalla fazione radicale della Fratellanza musulmana». Romano, inoltre, invita a considerare il fatto che «l’Egitto sta combattendo contro un mostro responsabile, tra l’altro della distruzione di un aereo russo pieno di turisti nel cielo di Sharm el Sheikh il 31 ottobre dell’anno scorso e dei massacri di Parigi nello scorso novembre, e che si sta difendendo da una organizzazione terroristica che considera Roma uno dei suoi prossimi obiettivi». Tutto giusto. Ma che c’entra tutto questo con l’uccisione di Giulio Regeni? Che c’entra con l’uccisione da parte di un poliziotto, un anno fa, di Shaimaa al-Sabbagh, poetessa, militante del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana? Perché la lotta contro i jihadisti dell’Isis e la fazione radicale della Fratellanza musulmana deve comportare la repressione di chi lotta o anche solo studia come vengono sfruttati i lavoratori in Egitto? Lavoratori. Sfruttamento. Non si vorrebbero pronunciare queste parole, per non disturbare il placido sonno dell’ambasciatore Romano, ma egli che è così fine argomentatore, dovrebbe non accomunare, ma distinguere le nozioni, non accomunare, ma distinguere tra “lotte dei lavoratori” e “terrorismo”. Perché l’ambasciatore Romano non procede a questa elementare operazione argomentativa? Forse che il suo giornale e la sua stessa ideologia glielo impediscono? Non si vorrebbe davvero accedere a questo fosco sospetto. Eppure, se l’ambasciatore Romano e il suo giornale si svegliassero dal sonno dogmatico in cui li hanno precipitati dieci secoli di civiltà capitalistica, e trent’anni di capitalismo assoluto, vedrebbero che non solo i jihadisti dell’Isis, ma anche e soprattutto la fazione radicale e quella non radicale della Fratellanza musulmana sono i migliori alleati del generale Al Sisi nel consentirgli di consolidare con il suo potere un assetto in cui, reprimendo i “lavoratori”, si ottiene solo di perpetuare dei rapporti sociali ingiusti che, da un lato, alimentano lo jihadismo e la Fratellanza musulmana, dall’altro ingrassano i ceti capitalistici locali, ammantati di “socialismo di Stato”, della cui subordinazione al capitalismo assoluto globale il generale Al Sisi, molto più dell’infido Morsi, è divenuto, dopo Mubarak, il garante. È comprensibile che questi ghirigori dialettici in cui si dibatte la accaldata realtà egiziana e mediorientale, facciano girare la testa all’aristotelico ambasciatore Romano, ma egli si illude che tale realtà possa essere semplificata dal «giudizio dell’opinione pubblica», come pure conclude con fare ammonitorio il suo ispirato editoriale. Ispirato alla logica del realismo capitalistico, una visione che, come si sa, presume di essere l’unica realtà possibile. L’ambasciatore Romano e il suo democratico giornale, invece, farebbero bene a sottoporsi ad una adeguata terapia psicanalitica, che faccia loro riconoscere la gigantesca rimozione che sta alla base del loro concetto di realtà. Tanto prima decideranno di stendersi sul lettino della storia, tanto prima i concreti fantasmi contro cui lottano, jihadisti, terroristi, fratelli barbuti e non barbuti, dilegueranno, e tanto prima all’umanità intera sarà consentito di procedere oltre una civiltà e un meccanismo produttivo che sta mettendo in serio pericolo la sua sopravvivenza.
Egitto
Brutto carattere
Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.
- http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml [↩]
Egitto
«L’accusa di “fascismo religioso” è il nuovo anatema laico contro gli islamisti in rivolta. L’espressione pronunciata ieri, da un portavoce della provvisoria presidenza della Repubblica, potrebbe avere come inevitabile conseguenza lo scioglimento della Confraternita dei fratelli musulmani, e del partito Libertà e Giustizia, sua espressione politica. Il capo del governo di transizione, Hazem el Berlaui, un economista considerato un liberale, ha precisato che la messa al bando delle associazioni di “terroristi” è già allo studio. L’Egitto è impegnato in una guerra d’usura e quindi tutto deve essere fatto per combattere gli animatori di un complotto contro la nazione. Questo il linguaggio del potere nelle ultime ore» (B. Valli, L’anatema sugli islamisti, “la Repubblica”, p. 1).
I morsi della dialettica
Dal fronte mediorientale, altre danze della dialettica. Dapprima il popolo ha spodestato il despota che da trent’anni lo opprimeva. Ma le forze per quest’impresa non vennero solo dai morsi della fame, come opinavano i soliti materialisti della “base economica”, o dalle magie della rete, come declamavano i dinoccolati semiotici postmoderni, ma anche e forse principalmente dall’energia accumulata in ottant’anni di opposizione dai Fratelli musulmani. Fu un bel vedere, allora, insediarsi un presidente della Fratellanza, dal nome Morsi, ma non di fame, bensì di libertà. La libertà che i Fratelli portarono, però, se liberò dal giogo subalterno di una geopolitica ormai indebolita e screditata, (il bel discorso di Obama al Cairo non fu un proclama a gratis!), si rovesciò ben presto nella minaccia della possibile tirannia di una norma avvertita come troppo costrittiva rispetto ai dolci frutti che, sotto il tallone del despota, il processo economico assicurava ai pochi e faceva intravvedere ai molti. Insomma, la (maldestra) pretesa della Fratellanza, non tanto e non solo di imporre barbe e chador, ma di irreggimentare lo “sfrenato movimento” dei locali animal spirits, si rivelò impopolare, e come un automata delle forze produttive l’esercito tornò allora a dare le carte. Giù Morsi, e di nuovo parola al popolo. Adesso gli egiziani sono, se non all’ultimo, certo di fronte al bivio decisivo: dare corso alla smisuratezza crematistica che, nuova subalternità, inserisca il paese nell’attuale equilibrio mondiale di capitalismo assoluto, (el Baradei è lì pronto a rendere i suoi servigi), oppure scegliere la misura della comunità, che metta la produzione al servizio di una effettiva autonomia politica. Che Allah li illumini.