elezioni Presidente della repubblica 2022

Una storia piccola

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Due fatti fra i tanti accaduti nel mondo hanno assunto un significato emblematico mentre andava in scena l’elezione del Presidente della Repubblica, il primo, la morte di uno studente schiacciato da una putrella l’ultimo giorno del suo periodo di obbligo scolastico al lavoro introdotto da una delle più recenti “riforme” della scuola, il secondo, il crollo di un lungo ponte su un orrido burrone in Pennsylvania poco prima dell’arrivo del Presidente Biden venuto ad annunciarne il rifacimento nell’ambito del suo piano infrastrutture da mille miliardi di dollari. Evidentemente, è destino di Biden di arrivare sempre in ritardo sull’urgenza dei problemi, ma il punto essenziale sono le illusioni che il piano infrastrutture ha suscitato circa la reincarnazione del grande Roosevelt nelle sembianze di Sleepy Joe. Alla vista di così tanti dollari di spesa pubblica, i keynesiani hanno provato un tuffo al cuore e la sinistra riformista tutta ha cantato in coro un peana per il tanto atteso ritorno dello Stato in economia. Illusioni, appunto, perché Mario Draghi, candidato ieri oggi e domani alla Presidenza della Repubblica, ha spiegato per tempo che, nell’ambito della dottrina liberista, teoria egemone del tardo capitalismo morente, esiste a seconda del ciclo il debito buono e quello cattivo. Oggi, nel ciclo economico che detta dottrina concepisce sotto le forme quasi-eterne dei cicli naturali è il momento del debito buono, e così non solo l’Amico di Orfeo potrà restaurare i ponti che si adagiano mollemente sul fondo di un burrone qualche ora prima del suo arrivo ma, nel nostro piccolo, anche Julien Mario Sorel con il modesto ma non disprezzabile gruzzolo del Pnrr potrà procedere, anzi, potrà “mettere a terra” i tanti piani di spesa che le varie amministrazioni del principato stanno alacremente predisponendo. È questa la ragione in chiaro per cui, alla fine del rodeo, Lega, Cinque Stelle e fazioni varie del PD lo hanno rinchiuso per ora nello scomodo palazzo di Largo Chigi, un operatore dei conti che faccia da scudo internazionale per l’implementazione dei loro contrastanti appetiti. La ragione occulta è che, tra ambizioni crepuscolari berlusconiane e velleità sovraniste e populiste di nuovo conio, c’è stata un’opposizione di una qualche efficacia che per ora ha scongiurato il potere totalitario della fazione “introiezionista”, quella che trae la propria legittimità anticipando il comando euro-atlantista prima che l’elefantiaca eurocrazia e lo sclerotico atlantismo lo impongano. Una mezza vittoria dei “provinciali” antichi e più recenti, al costo però di gravi perdite che nel tempo peseranno e che nell’immediato vede la vecchia carcassa dello Stato ancora più malconcia di una settimana fa. Ma veniamo all’altro fatto, l’“incidente sul lavoro” che ha avuto stavolta come protagonista non il solito operaio ma uno studente obbligato al lavoro di fabbrica per potere accedere all’esame finale del suo corso di studi. È la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” prevista dalla riforma denominata della “buona scuola” introdotta dal governo presieduto da uno dei più frenetici manovratori tra vecchio e nuovo all’opera nelle appena concluse elezioni presidenziali. Grazie a uno dei rari momenti di televisione-verità, prontamente sfruttato dall’astuto senatore, abbiamo potuto assistere in diretta al fittissimo fuoco di sbarramento da costui rabbiosamente indirizzato contro il tentativo di portare alla Presidenza un nome che potesse dare una qualche soddisfazione al magmatico mondo venuto fuori dall’inopinato spurgo elettorale del 2018. Una missione a costui evidentemente affidata, come si era capito all’epoca del varo rispettivamente del Conte I e II e del Draghi I, da centrali facilmente intuibili e di cui presto dovremmo poter scorgere la ricompensa politica. In quest’ultima occasione in cui questo capitano di ventura si è scagliato con ogni forza contro la dirigente dell’intelligence nostrana sul punto di ascendere al soglio massimo, gli italiani hanno potuto consolidare la loro impressione, sicuramente sbagliata, che i servizi segreti non agiscono in base a leggi e regolamenti per quanto flessibili ma devono essere un pericoloso covo di bande al servizio di questo o di quello. Ma è il sacrificio del giovane studente che qui importa, poiché più di qualsiasi confutazione teorica dà il senso di ciò che la scuola deve essere per la dottrina liberista di cui sopra, un avviamento al lavoro nelle forme tipicamente penitenziali che il lavoro ha assunto in questa fase putrida del capitalismo morente che i boy scout del profitto e i Julien Mario Sorel dei trilioni di dollari del debito buono si immaginano trionfante nel tempo eterno delle galassie. Com’è ormai consuetudine, la polizia ha accolto con democratiche manganellate le proteste degli studenti rimasti ancora in vita, e nessuno della Lega o dei Cinque Stelle, così tanto impegnati a promuovere il futuro sub specie di una rispettabilissima Capa dei Servizi a Presidentessa del Principato, ha trovato da ridire. Della Lega che, unico punto su cui è d’accordo con quel “partito provvisorio” che è Fratelli d’Italia, sparerebbe ai barconi di migranti, non c’è da meravigliarsi; i Cinque Stelle invece confermano la loro funzione di pezzi di ricambio di un meccanismo arrugginito che spera di sopravvivere con la “transizione ecologica”, mettendo cioè dei pannelli solari sui tetti di case in cui la forma di vita capitalistica potrà continuare a scorrere in modi sempre più profondamente alienati. I problemi però non mancano. La Lega ha il motore nella contea lombarda ma aspira a prendersi tutto il principato e, nelle confabulazioni tra Salvini e Giorgetti, il carrello dell’egemonia non scorre fluidamente dall’interesse corporativo a quello nazionale, provocando le paurose oscillazioni che si sono viste nella vicenda dell’elezione del Presidente della Repubblica. E quanto ai Cinque Stelle, il cui Grillo parlante non conta più neanche quando canta di notte una serenata alla validissima Elisabetta Belloni, se la devono vedere con i soliti fantasmi meridionali, da un lato la risorgenza dell’eterno notabilato politico, cui vuole dare nuovo lustro il giovane Di Maio avviato ormai alla carriera di un nuovo Andreotti senza (per ora) i cardinali, dall’altro le fumose aspirazioni trasformatrici-di-non-so-che affidate all’eloquio moroteo di Giuseppe Conte, nominato d’ufficio dal PD avvocato del popolo per fornire un alibi alle residue truppe di sinistra che, acquattate in quel partito, presidiano il deserto chiamato “campo largo” di cui Bettini è il fervido coltivatore indiretto. E a proposito del PD, dietro i larghi occhiali del pencolante corazziere Enrico Letta, esso si caratterizza ormai orgogliosamente come l’antemurale di tutto ciò che presto sarà travolto dalla corrente impetuosa di un futuro che, chi con gioia, chi con timore, sente urgere con forza crescente. Atlantismo, europeismo, liberismo, tutti vecchi schemi che, come un treno quando sbaglia lo scambio, sprizzano scintille terrificanti a contatto con la realtà, come dimostra il pericolo di guerra che incombe sulla vicenda ucraina. Sono le famose “contraddizioni” di cui per fortuna la storia è ricca, e non sarà certo un vecchio e rispettabile signore che per settimane ha recitato convintamente la parte del servitore dello Stato di ritorno dopo l’onorato servizio al suo modesto alloggio privato, a lenirle nell’anno elettorale in cui il principato, salvo ulteriori fantasiosi impedimenti, sta per precipitare. Una storia piccola che i suoi piccoli protagonisti si rifiutano di pantografare sulla storia grande che altrove senza aspettare i loro comodi sta prendendo forma.

La trattativa

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L’imminente elezione del Presidente della Repubblica, per le speciali circostanze in cui si sta per celebrare, richiede un ripasso della natura dello Stato in Italia. Lo Stato italiano è una democrazia parlamentare retta da una Costituzione antifascista all’interno del quale sin da subito si è installato uno Stato occulto anticomunista. L’anticomunismo ha avuto la sua base nella teoria socio-economica della modernizzazione portata avanti lungo tutta la cosiddetta Prima Repubblica e, sin dalla strage in Sicilia di Portella della Ginestra, nel 1947, aveva come corollario politico la strategia della tensione come strumento di stabilizzazione repressiva rispetto a domande di emancipazione dal basso. Un momento di svolta di tale assetto fu il 1992, in cui sotto i colpi di Tangentopoli la teoria della modernizzazione fu sostituita dalle privatizzazioni. Mentre nella modernizzazione, che pure implicava il mantenimento del divario tra Nord e Sud, era consentito un certo trasferimento di risorse verso il Sud, con le privatizzazioni il Sud è destinato a essere completamente abbandonato a se stesso e il Nord si integra sempre più in un’area esportadora sub-germanica. Si passa dal capitalismo clientelare o di Stato al liberismo dei parametri di Maastricht incardinato nella incipiente Unione Europea. Naturalmente ciò non avviene meccanicamente ma comporta anzi un violento scontro fra le diverse fazioni riunite nello Stato anticomunista occulto. Qui se ne possono schematicamente indicare due, l’élite che fonda il suo nuovo potere anticipando i diktat che provengono dal nuovo potere sovra-statuale eurocratico, e una frazione più numerosa, chiassosa e “provinciale” che intende continuare a praticare il capitalismo clientelare, non sino al punto però da essere emarginati dal nuovo gioco euro-atlantico globale. La “trattativa” che i giudici indagano da anni con i loro scarni strumenti giudiziari, e forse anche con una certa dose di paranoia politica, non è il rapporto illecito tra lo Stato e l’Anti-Stato, ma la lotta tra le diverse fazioni dello Stato anticomunista occulto, in particolare quelle che sommariamente abbiamo sopra descritto. Il precario equilibrio sorto da tale scontro e puntellato presumibilmente in modo indipendente dalla sovrastruttura pubblicitario-televisiva, tra dismissioni dell’immenso apparato economico creato durante il periodo della modernizzazione e mance più o meno generose a un Sud sempre più depresso e derelitto, è sopravvissuto alla crisi economico-finanziaria del 2008 sbalzando di sella la frazione “provinciale” o simil-sovrana scelta da un corpo elettorale ristretto in un bipolarismo artificioso, e portando al governo, grazie ai buoni servigi di una sinistra completamente subalterna alle logiche sin qui descritte, l’élite degli “introiezionisti”, di coloro cioè che derivano la loro legittimità nazionale dall’introiezione del comando prima che esso venga imposto da forze esterne. Non siamo mica la Grecia! Sulla nave che aveva preso ad andare è impattata nel 2020 la pandemia – sia detto per inciso, non semplice incidente di percorso ma limite “esterno” dello sfruttamento della natura insito nell’attuale modo di produzione; tale impatto ha rimesso in discussione l’equilibrio faticosamente raggiunto tra le diverse fazioni dello Stato anticomunista occulto, il quale ora prova a uscire dalle sue crescenti difficoltà con ulteriori forzature della Costituzione formale antifascista. In particolare, ma non da ora, i punti di tensione sono il sistema giudiziario e la forma di governo parlamentare, ritenuti lacci troppo stretti per la ricostituzione del margine di un saggio di profitto in caduta libera. Il sistema giudiziario è già stato oggetto di particolari attenzioni da parte del governo in carica ma, per quanto esso cerchi di guadagnare meriti con occhiute repressioni dei movimenti anti-modernizzatori, dovrà essere ulteriormente “fluidificato” nella sua pretesa di essere il guardiano di uno Stato di diritto tanto astratto, quanto compromesso da poco commendevoli pratiche carrieristiche. Una condizione essenziale perché ciò avvenga è che l’elezione del Presidente della Repubblica segni sia nelle modalità politico-istituzionali che nella figura stessa dei suoi protagonisti un cambio di forma di governo, con il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella presidenziale. Tale passaggio potrà essere più o meno radicale, e questo dipenderà se a vincere sarà l’uno o l’altro dei candidati che sin qui si stanno contendendo la scena, se a vincere cioè sarà o l’élite eurocratica o quella simil-sovrana. L’elezione del prossimo Presidente della Repubblica è insomma una “trattativa” in chiaro, senza (si spera) scoppi di mortaretti, anche se qualcuno, non si sa bene se incauto o ben informato, ha già evocato i generali. È evidente che rispetto a tutto ciò, riformismo, populismo e sovranismo sono strumenti del tutto inadeguati alla sfida in corso da ormai un trentennio in Italia, e che una soluzione alternativa di ricomposizione dello Stato dovrebbe essere quella che, nel quadro di una attenta analisi delle nuove opportunità offerte dalle trasformazioni del quadro politico internazionale, mirasse a riconquistare, su una nuova base economica a tale scopo finalizzata, quell’indipendenza nazionale tragicamente perduta nell’avventura della Seconda guerra mondiale.