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L’austerità tra fascismo e neoliberismo. Su una recente ricostruzione storica

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«Incomincia adesso la vera storia del capitalismo»
(B. Mussolini, Primo discorso alla Camera, 21 giugno 1921)

 

Il 23 aprile 2024 il Parlamento europeo ha approvato il nuovo Patto di stabilità, che fissa i nuovi meccanismi di riduzione del disavanzo e del debito degli Stati membri. I paesi con un debito superiore tra il 60% e il 90% del PIL dovranno ridurlo dello 0,5% annuo, quelli il cui debito è superiore al 90% saranno tenuti a ridurlo in media dell’1 % all’anno1. Al di là dei tecnicismi, ciò significa che le norme di bilancio dell’UE, sospese per far fronte alla pandemia di COVID-19, sono state riprese e rafforzate. Con il ritorno in scena del debito, però, si riconosce implicitamente che esso è una costruzione artificiale del tutto avulsa dal buon andamento economico. Un evento straordinario come la pandemia ha mostrato, infatti, che si possono violare i vincoli di bilancio senza per questo terremotare l’economia. L’ideologia del debito con i suoi tecnicismi ha un nome ben conosciuto, l’austerità, e i suoi propugnatori appena hanno potuto ne hanno subito rilanciato i dettami, invocando «sacrifici» al prezzo anche di «spargimenti di sangue»2. Questo aspetto sanguinario è un elemento nuovo su cui torneremo alla fine, ma ora dobbiamo chiederci perché questa ideologia, nonostante il suo evidente distacco dai bisogni concreti della vita quotidiana, persista così ostinatamente e a quali interessi risponde. Di aiuto in tal senso è la recente indagine di Clara Mattei sull’origine storica dell’austerità, che mostra l’intreccio di teoria economica, apparati governativi e politiche economiche che l’hanno forgiata3. Mattei ricostruisce in particolare due contesti, quello britannico e quello italiano, nel periodo immediatamente successivo alla fine della Grande Guerra, il biennio 1919-1920, quando sembrò che il sistema capitalistico dovesse crollare da un momento all’altro. L’austerità fu la risposta a questo pericolo mortale e ciò spiega la sua persistenza oltre quella contingenza, poiché l’assetto all’epoca escogitato è nei suoi tratti essenziali quello a cui il capitalismo è ricorso quando lo stesso pericolo si è ripresentato negli anni Settanta del secolo scorso. Dalla fine di quel decennio, l’austerità è tornata in auge e dura ancora oggi. È questo il nesso su cui soprattutto nelle conclusioni ci soffermeremo, scegliendo nell’ampia e articolata ricostruzione storica operata da Clara Mattei gli elementi utili a tal fine, anche per colmare qualche lacuna in essa presente.

L’austerità britannica

Alla fine della Grande Guerra il paesaggio economico era completamente mutato. Si era entrati in guerra convinti da sempre che economia fosse sinonimo di laissez-faire. Se ne usciva constatando che lo Stato era l’imprenditore universale che controllava fabbriche, miniere, terreni. Non solo. All’inizio della guerra si pensava che le leggi della domanda e dell’offerta avrebbero assicurato l’approvvigionamento di quanto era necessario per sostenere il conflitto, ma di fronte all’inefficienza dei privati si dovettero approntare misure che di fatto sospendevano tali leggi e sottoponevano la produzione di ogni genere di merci, compresa la merce lavoro, a un piano centralizzato controllato dallo Stato e dal suo apparato nel frattempo enormemente accresciutosi. Certo, ciò non avveniva per un’improvvisa vocazione dello Stato per il bene comune, ma attraverso patti sia con i capitalisti privati sia con i lavoratori in subbuglio, che assicuravano agli uni (grandi) profitti, agli altri (esigue) concessioni salariali. Nel complesso, però, l’economia non solo marciava, ma si sviluppava attirando risorse sin allora impensabili. Era insomma la dimostrazione lampante che il laissez-faire con i suoi dogmi della proprietà privata e dei rapporti salariali, in cui lo Stato aveva solamente il compito di garantire la convertibilità della moneta e il pareggio di bilancio, non era un dato di natura e che era possibile sostituirlo con un’economia di piano redditizia, finalizzata alla soddisfazione dei bisogni sociali collettivi. Il fatto è che queste convinzioni non erano solo dei lavoratori che, dopo lo sforzo bellico, scorgevano la meta di un maggior ruolo politico, ma si facevano strada anche nel pensiero economico e nelle alte sfere governative. Di fronte al pericolo che si imponesse una nefasta “economia collettivistica” in grado di scalzare le condizioni “normali” dell’accumulazione capitalistica, bisognava allora reagire in fretta e su più fronti, il fronte teorico, quello sociale, quello politico. Nel ristretto circolo governativo del Tesoro, dove confluivano asettici saperi accademici (Ralph G. Hawtrey) e competenze ministeriali sottratte al controllo politico (Basil Blackett, Otto Niemeyer), il punto di coagulo fu individuato nell’inflazione vista come minaccia mortale del sistema economico, che andava stabilizzato attraverso una costante gestione monetaria da parte di un’istituzione centrale, la Banca d’Inghilterra, che, come accadrà poi nell’attuale Unione Europea con la Banca Centrale, guardiana anch’essa dell’inflazione, doveva essere per suo statuto indipendente dal potere politico e finalizzata a disciplinare il consumatore. Ecco, dunque, che dalla considerazione di un’astratta struttura economica si perveniva a una concreta figura sociale e, come l’araba fenice, il laissez-faire risorgeva dalle sue ceneri basandosi su una concezione della società e della natura umana in cui non erano più contemplate le classi e i loro conflitti ma solo individui in sé conclusi che, in base alla loro costituzione morale, si aggregavano attorno ai ruoli economici del risparmiatore/investitore e del consumatore/lavoratore. Il primo con il suo sacrificio precostituiva le condizioni dell’investimento che dava vita al capitale, il secondo dilapidava le sue risorse nel consumo immediato. Per perseguire l’interesse nazionale, concetto in cui le contrapposizioni di classe scomparivano e veniva elevato a interesse di tutti quello particolare dell’accumulazione capitalistica, la teoria aveva allora due compiti, insegnare l’astinenza e imporla attraverso politiche costrittive. Il primo compito venne affidato alla pedagogia sociale del sacrificio, che con una serrata campagna propagandistica predicava di non sprecare nulla e di non dilapidare le risorse in consumi voluttuari. Per inciso, notiamo che l’austerità odierna con la “pedagogia” della pubblicità fomenta i consumi voluttuari, ma al contempo comprime i salari e precarizza gli impieghi. Il secondo compito della teoria prescriveva allo Stato di astenersi dal promuovere politiche di spesa per casa, scuola, sanità, ma gli richiedeva di usare i suoi poteri per tenere a bada i lavoratori (limitazione del diritto di sciopero, di organizzazione, ecc.), in modo che essi si trovassero a dipendere dalle leggi impersonali della domanda e dell’offerta, le uniche ritenute in grado di allocare razionalmente le risorse scarse di cui disponeva la società. Come si vede, la privatizzazione dell’economia fu lo strumento per ricreare la condizione “naturale” della lotta per la sopravvivenza in cui contano non i legami di classe ma la propria dotazione morale che porta, a seconda che si posseggano o meno determinate virtù, o al consumo improduttivo immediato o all’astinenza che preserva le basi della produzione. Sorgeva così la teoria, ancora oggi in auge, secondo la quale essere poveri è una colpa morale. E l’accumulazione capitalistica tornava a essere un fatto “oggettivo”.

L’austerità italiana

Nel suo primo discorso alla Camera, il 21 giungo 1921, Mussolini afferma che se si vuole salvare lo Stato allora «bisogna abolire lo Stato collettivista così come c’è stato trasmesso per necessità di cose dalla guerra e ritornare allo Stato manchesteriano»4. L’austerità italiana è dunque un’austerità fascista sia nel programma che nei ben noti metodi di quel regime, giudicato dagli ambienti economico-finanziari britannici solo come un’«architettura romana barocca», inammissibile in un normale paese «democratico» ma adatta all’Italia e al popolo italiano5. Fra le molte specificità indotte da quest’indole particolare, la più importante consistette in un differente rapporto tra la teoria economica e la sua gestione politica, che fu assicurata non da esperti della burocrazia ministeriale contigui al sapere universitario d’élite, ma direttamente da teorici di un particolare indirizzo della teoria economica, l’economia pura, che con alcuni loro esponenti assursero a ruoli di governo. L’economia pura, che è il contributo italiano al marginalismo, sorse nel ventennio precedente la Grande Guerra attaccando l’economia politica del valore-lavoro, senza trovare una particolare resistenza né nel pensiero liberale, il che non meraviglia, né in quello socialista. Basterà ricordare qui che Benedetto Croce assegnava giustamente al valore-lavoro di Marx una valenza “altra” rispetto al fatto economico, che però dai primi studi marxisti alle opere storiche della maturità si andrà sempre più precisando solo come una valenza “ideologica”, mentre un esponente del pensiero socialista come Antonio Graziadei, per fare opera di scienza a suo dire impedita dallo scontro ideologico tra marxismo e marginalismo, spostava lo sfruttamento del lavoro e il conseguente sorgere del valore dalla sfera della produzione a quella della circolazione. Quest’ultima interpretazione, però, che assolutizzava il mercato, equivaleva ad aprire le porte al nemico, poiché svaniva del tutto quella valenza “altra” che Croce, preso dai ragionamenti formalistici che tanto Antonio Labriola gli rimproverava, aveva però solo formulato in termini di “paragone ellittico”, mancando così anch’egli quel livello storico-genetico del sistema di merci contro cui invece si indirizzava, ben celato nel tecnicismo della dottrina, l’attacco dell’economia pura6. In realtà, il cambiamento di paradigma interno alla scienza economica era il sintomo di una complessiva reazione sociale, politica e culturale che nella guerra e nella successiva edificazione del regime fascista trovò il suo compimento. Non meraviglia perciò che, nell’austerità italiana imposta dal fascismo, la politica economica, come dicevamo, venisse gestita direttamente da suoi esponenti. Infatti, Alberto De’ Stefani, da iscritto al partito fascista, guida il ministero del Tesoro negli anni cruciali dal 1922 al 1925; Maffeo Pantaleoni, suo antico mentore, collabora strettamente con lui, oltre a essere fra i pochi “eletti” che nelle decisive Conferenze di Bruxelles (1920) e di Genova (1922), alle quali Clara Mattei dedica una nuova e attenta considerazione, elaborano l’austerità sul piano internazionale7; Umberto Ricci sino a tutto il 1925 collabora intensamente all’implementazione legislativa dell’austerità; Luigi Einaudi, infine, che pure si pone nella posizione “olimpica” del liberale d’opposizione, dalle colonne del “Corriere della sera” plaude ai provvedimenti che man mano i suoi sodali teorici producono sul terreno politico. L’unico defilato, anche perché vive in Svizzera ed è già anziano e malato, è l’«eclettico» Vilfredo Pareto, come lo appella Mattei8, la quale però nella sua ricostruzione lo lascia sostanzialmente in ombra, attribuendogli solo una generica influenza ideologica e teoretica sugli economisti sopra nominati9. A colmare questa lacuna della sua trattazione, si può dire qui che, certamente, quando il fascismo va al potere, Pareto è già da tempo passato alla “sociologia scientifica”, che però non è da intendersi come un abbandono dell’economia pura, bensì come la sua contestualizzazione in una più ampia considerazione dei moventi dell’azione sociale in cui risalti, rispetto ad altre figure sociali protese verso fini falsi o irreali, la razionalità dell’homo oeconomicus nella sua duplice veste di risparmiatore e di imprenditore, il primo che si astiene dal consumo per trarre vantaggio nel prestare il proprio risparmio10, il secondo che prende in prestito il risparmio per conseguire lo scopo per il quale opera, ovvero ottenere il più grande guadagno possibile di «numerario»11, termine pudico con cui l’economia pura denomina il profitto. Ora, se, come nota Clara Mattei, De’ Stefani e Ricci, restando sul terreno puramente economico, tendono ad assimilare il risparmiatore e l’imprenditore12, Pareto al contrario, spostandosi sul terreno sociologico, li contrappone trasfigurandoli in “speculatori” e “redditieri” che, alternandosi al comando dell’aggregato sociale, danno il tono a intere epoche storiche13. Non è dunque il conflitto tra capitale e lavoro il motore della società, bensì quello interno all’homo oeconomicus che da un lato accumula, dall’altro viene spogliato dei beni accumulati. Non, dunque, la proprietà è un furto, ma è il furto della proprietà che per via di spoliazione genera un nuovo ciclo di accumulazione. In questa proiezione economica dell’homo homini lupus, paradossale è il posto riservato al lavoro. Avendo la «differenziazione economica», idest la divisione sociale del lavoro, separato l’operaio dall’imprenditore14, la razionalità “tecnica” dell’operaio rispetto alla coordinazione del lavoro assicurata dall’imprenditore è “non logica”, cioè priva di consapevolezza del fine dell’azione (il piano produttivo) che diverrebbe “logica” qualora l’operaio la acquisisse15. Non a caso Maffeo Pantaleoni, maestro e sodale di Pareto, sottolinea che «l’imprenditore non dice all’operaio di lavorare, ma di lavorare in un certo modo: vi sapete organizzare senza di lui? Fate pure»16. Compare qui provocatoriamente l’idea, declinata poi “scientificamente” da Pareto, dell’“istinto delle combinazioni” che solo l’imprenditore possiederebbe in sommo grado17. La richiesta del “controllo” del processo di produzione con cui l’operaio raccoglie la sfida di trasformare in “azione logica” il suo agire “non logico”, avanzata in alternativa all’austerità fascista dal movimento torinese dell’Ordine Nuovo con a capo Gramsci, cui Clara Mattei nella sua ricostruzione dedica opportunamente ampio spazio18, resta così solo una figura virtuale dello schema dell’azione sociale, resa impraticabile anche da una parallela critica “scientifica” delle “illusioni” politiche, cui provvede la complementare teoria  delle “derivazioni”19. Nella sua rarefatta astrattezza, la riformulazione sociologica operata da Pareto della già astratta economia pura, che tanto affascinava Umberto Ricci20, si caratterizza allora – potremmo dire, rifacendoci al Lukács di Storia e coscienza di classe – come la neutralizzazione di quel conato di “azione logica” che è la “presa di coscienza” dell’intero capitalistico da parte della classe operaia, protesa dialetticamente verso una forma superiore di organizzazione sociale21. Infatti, occultato il rapporto di sfruttamento e di subordinazione dell’operaio al capitalista, Pareto può trasfigurare quest’ultimo nella neutra funzione sociale dell’imprenditore, di cui pure in limine evidenzia lo sfrenato opportunismo sociale22, e può fare assurgere a capitalista proprio l’operaio, in quanto possessore del capitale personale costituito dalle sue capacità umane di cui vende i servizi23. Se nell’economia politica classica il salario si confrontava da potenza a potenza con il profitto e la rendita, nell’economia pura il lavoratore diviene un rex iudaeorum al quale quasi per scherno si riconosce una parvenza di essenza umana.

L’austerità odierna tra implicazioni teoriche e conseguenze politiche

Le discussioni sul significato dei termini che Pareto dissemina nei suoi scritti, adottando dotti neologismi e faticose notazioni, hanno indotto a vedere in lui un precursore del neopositivismo logico24, e la vasta schiera dei suoi apologeti ha ricompreso questa sua inclinazione nella rubrica del “metodo”. Ma in questo “metodo” vi è poco di metodo, poiché Pareto se ne serve per sfuggire “scientificamente” a difficoltà della dottrina. È questo il caso della celebre “ofelimità”, neologismo con cui Pareto statuisce di indicare la soddisfazione soggettiva che, indipendentemente da criteri morali, l’homo oeconomicus, spinto dal bisogno o dal desiderio, trae dal consumo di una qualsiasi cosa25, salvo poi introdurre ex abrupto non meglio specificati «sentimenti altruistici» quando il suddetto homo oeconomicus, riscoprendo la sua socialità, vuole trasferire, ad esempio, con una disposizione testamentaria, questa soddisfazione soggettiva ad altri26. Ma pur ponendosi sul terreno della socialità, forse che questo individuo egoistico non compie ancora una volta un’operazione economica? E dunque, a parte l’incongruità morale di questo entrare e uscire dall’egoismo a piacimento, perché mai si deve concepire l’economia come la soddisfazione soggettiva dell’individuo isolatamente preso e non sin dall’inizio come la coordinazione collettiva di individui volti a conseguire un vantaggio comune? Pareto teoricamente ammette la possibilità di più regimi economici, ma specifica che nella realtà solo la libera concorrenza costringe gli imprenditori ad assolvere alla loro funzione sociale27. Detto altrimenti, solo la “selezione naturale” economica consente all’istinto innato delle combinazioni di manifestarsi in sommo grado nella figura dell’imprenditore. Ed ecco che un processo storico-sociale viene ridotto a un fatto di adattamento naturale. Le conseguenze sull’ontologia sociale sono distruttive, come abbiamo visto sopra circa la beffarda trasformazione dell’operaio in capitalista. Lo stesso dicasi per l’azione sociale. Il fine dell’imprenditore è quello ofelimo dell’accrescimento del proprio «numerario» ma, al tempo stesso, Pantaleoni docet, è quello cognitivo dell’organizzazione del processo produttivo. Ammassando l’uno e l’altro nell’azione logica, il fine cognitivo incapsula occultandolo quello ofelimo, e poiché la capacità organizzativa dell’operaio è per definizione solamente virtuale, il capitalismo sparisce e al posto delle sue classi subentrano delle caste invalicabili. All’evidenza, allora, le analisi linguistiche, più che a precisare i termini, servono a Pareto per sbriciolare la realtà e sostituirla con una costruzione arbitraria che la scienza sociale matematizzata, che egli invoca a ogni svolta dei suoi paragrafi, dovrebbe un giorno formalizzare28.  

E allora, per tornare alla contiguità dell’economia pura con l’austerità fascista, nelle teorizzazioni di Pareto non v’è niente di specificamente fascista, ma c’è tutto quanto serve ad alimentare il sincretismo ideologico con cui il fascismo restaurò le condizioni necessarie all’accumulazione capitalistica. Quale miglior regalo, infatti, di una “sociologia scientifica” che consente di sostenere che l’operaio, addirittura al livello basico della cognizione sociale, deve stare al suo posto e togliersi dalla testa le ubbie del controllo della produzione? Ma nelle teorizzazioni di Pareto non v’è ugualmente nulla di specificamente neoliberista, ma c’è tutto quanto serve ad alimentare la carica ideologica con cui il neoliberismo si è imposto a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso. Infatti, dissolti i rapporti di produzione capitalistici, la società è descritta da Pareto come un aggregato di individui in competizione tra loro. Non la società, bensì l’individuo è dunque l’unica realtà empiricamente tangibile29. Molti decenni dopo, nelle parole di Margareth Thatcher, iniziatrice con Ronald Reagan, del nuovo ciclo di austerità che perdura ancora ai nostri giorni, questo principio “scientifico” diventerà un esplicito manifesto politico. Risalire alla matrice ideologica fissata un secolo fa dall’economia pura, di cui Pareto, come si è visto, è il pensatore più organico, non è dunque una mera operazione filologica, ma serve a mostrare che con la ricetta dell’austerità fascismo e neoliberismo rispondono allo stesso problema, rinsaldare quando sono messe in discussione le condizioni dell’accumulazione capitalistica. Il fatto poi che ci arrivino con mezzi differenti, non vuol dire che il neoliberismo sia più “pacifico” del fascismo. Come abbiamo visto in apertura, infatti, l’austerità odierna non reclama più solamente “sacrifici” economici ma anche “spargimenti di sangue”, come si vede dalle guerre per procura che il blocco euro-atlantico conduce contro il mondo musulmano e quello ortodosso per tenerli economicamente e culturalmente in soggezione. Dalla scorza levigata della “globalizzazione” riemerge così la natura imperialistica del capitalismo – monopoli, Stati più potenti che fagocitano Stati meno potenti, tendenza al dominio anziché alla libertà30, che nel complesso della civiltà assume però un significato diverso e più sinistro. Se negli anni Venti e ancora negli anni Settanta del secolo scorso l’austerità doveva respingere la “pretesa” del controllo operaio della produzione, oggi appare come lo strumento con cui affermare la visione di uno sviluppo dell’homo oeconomicus così aderente alla natura umana da poterne manipolare gli intimi meccanismi, al fine di generare una nuova specie alla quale la “tecnica”, regno assoluto del rapporto mezzi-fine, conferirà poteri sconfinati. Se il futuro sarà altro da ciò che questi bagliori apocalittici fanno intravvedere, dipende anche da quanto tempo ancora il conflitto di classe resterà soffocato dalla selva oscura di “derivazioni” che stravolgono il discorso un tempo di sinistra, lasciandolo “senza parole”31. Il lavoro di Clara Mattei che qui abbiamo presentato e in qualche punto integrato è fra quei contributi che offrono conoscenze adatte per tornare ad avere voce in capitolo e si può solo sperare che ne seguano numerosi altri di pari livello.

 

  1. Patto di stabilità: i deputati approvano le nuove regole di bilancio, Attualità Parlamento Europeo, Comunicati stampa, 23 aprile 2024, https://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/20240419IPR20583/patto-di-stabilita-i-deputati-approvano-le-nuove-regole-di-bilancio. []
  2. «Berlusconi mi offrì la guida del centrodestra. Purtroppo, ora l’Italia è di nuovo a rischio», intervista di A. Cazzullo all’economista ed ex Presidente del Consiglio Mario Monti, «Corriere della sera», 4 maggio 2024, p. 19. Molto esigente è anche lo storico Andrea Graziosi, ex presidente dell’Anvur, l’ente ministeriale di controllo dell’attività universitaria, secondo il quale l’Europa ha bisogno di un’industria militare e di una deterrenza nucleare (W. Marra, Il convegno dei falchi dem, «Il Fatto Quotidiano», 12 maggio 2024, p. 9). []
  3. C. E. Mattei, Operazione austerità, Torino, Einaudi 2022. []
  4. B. Mussolini, Primo discorso alla Camera, 21 giugno 1921, p. 15, https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2021/04/Mussolini.pdf []
  5. Achievements of fascismo, «The Times», 31 ottobre 1923, p. 13, cit. in C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 260. []
  6. Secondo Croce, il “paragone ellittico” consisteva nel fatto che Marx, per sostenere la tesi del sopravalore (plusvalore) di cui si appropriano i capitalisti, comparava normativamente la produzione in una società capitalistica classista (B) con quella propria di una società egualitaria senza classi (A). A parere di Croce, era chiaro che solo in (B) si poteva parlare di sopravalore, ma non come appropriazione bensì come reciproca convenienza di un diverso grado di utilità tra capitalisti e proletari (B. Croce, Materialismo storico ed economia marxistica (1900), Bari, Laterza 1978, pp. 125-126). Al che Labriola obiettava che al Croce sfuggiva, a causa della sua concezione formalistica del rapporto tra causalità e teleologia, il processo “epigenetico” reale sfociato nel modo di produzione capitalistico, di cui il valore era la “premessa tipica” che rendeva possibile l’insieme dei fatti economici a esso inerenti (A. Labriola, Saggi sul materialismo storico, Roma, Editori Riuniti 19682, p. 184 e p. 289). []
  7. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 135 sgg. []
  8. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 206. []
  9. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 344, nota 11. []
  10. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), Torino, UTET 1971, § 106. []
  11. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 151. []
  12. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 214. []
  13. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), Torino, UTET 1988, § 2233 sgg. []
  14. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 830. []
  15. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 151. L’opposizione di “azione logica” e “azione non logica”, basata sulla consapevolezza del fine da parte dell’individuo agente, mira a fissare delle classi di azione che solo apparentemente sono strumenti neutri d’analisi scientifica. In realtà, come vedremo nel seguito, esse acquistano un carattere reale che si presta a giustificare una certa irreggimentazione dei comportamenti sociali. []
  16. M. Pantaleoni, Corso di economia politica: Lezioni dell’anno 1909-1910 redatte dal Dott. Carlo Manes, Roma, Associazione Universitaria Romana 1910, p. 230, cit. in C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 229. []
  17. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 2235. L’“istinto delle combinazioni”, assieme alla “persistenza degli aggregati”, di cui sarebbero portatori i “redditieri”, fa parte delle sei classi di “residui”, ovvero dei principi d’azione innati che determinerebbero il comportamento sociale degli individui. In particolare, l’istinto delle combinazioni comprende qualità che oggi una vasta area di studi cognitivi indica come curiosità, innovazione, resilienza, attribuendole alla “mente imprenditoriale” additata come il tipo sociale “vincente”. A dimostrazione di come queste contrapposizioni schematiche servono più a scopi ideologici che scientifici. []
  18. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 101 sgg. Sul parallelismo e lo scambio di esperienze tra i comitati di fabbrica britannici (Workers’ committees) e i consigli di fabbrica torinesi, la ricostruzione di Clara Mattei si può leggere assieme a quella di Guido Liguori, Nuovi sentieri gramsciani, Roma, Bordeaux 2024, pp. 105-107. []
  19. V. Pareto, Trattato di sociologia generale (1916), cit., § 1397 sgg. Le “derivazioni” sono costituite da quattro classi di argomenti discorsivi, dai più semplici ai più complessi, che comprendono le giustificazioni arbitrare, rispetto alle motivazioni reali, con cui gli individui rendono conto del loro comportamento sociale. Trattandosi di una “distorsione” cognitiva concepita in modo astorico, tale teoria ambisce a essere una critica “scientifica” del discorso politico, ma si presta anche a essere utilizzata come un manuale di manipolazione ideologica. []
  20. C. E. Mattei, Operazione austerità, cit., p. 212. []
  21. G. Lukács, Storia e coscienza di classe (1923), trad. it. Milano, Sugar Editore 1967, p. 214 sgg. In quest’opera, come del resto nei Quaderni del carcere di Gramsci, è possibile individuare teorizzazioni intorno all’azione che si sottraggono alla presa neutralizzante delle grandi sociologie “borghesi” sorte all’inizio del Novecento. In particolare, Lukács si contrappone a Weber, Gramsci a Pareto. []
  22. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., Riassunto generale, p. 1095. []
  23. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 91. []
  24. N. Bobbio, Pareto e il diritto naturale (1975), in Id., Saggi sulla scienza politica in Italia, Roma-Bari, Laterza 19962, p. 139.  Come notò Lukács nella sua postuma Ontologia, il neopositivismo, in forza del suo metodo logico-linguistico, si pone in continuità con l’esigenza della più completa manipolabilità della realtà sociale, funzionale al dominio ideologico capitalistico (G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Roma, Editori Riuniti 1976-1981, 3 voll., vol. I, p. 25 e sgg.). Se si tiene conto di quanto diremo appresso nel testo, l’osservazione di Bobbio, sebbene avanzata con altri intenti, è dunque fondata. []
  25. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 5. []
  26. V. Pareto, Corso di economia politica (1897), cit., § 418. []
  27. Corso di economia politica (1897), cit., Riassunto generale, p. 1088 e p. 1095 []
  28. Come abbiamo visto prima (cfr. nota 6), anche Croce, sebbene in altro modo, perviene a dissolvere la realtà, quando sostiene che l’appropriazione del sopravalore da parte dei capitalisti in una data società classista è solo la reciproca convenienza tra capitalisti e proletari di un diverso grado di utilità. Ma si può sfuggire a questa nullificazione comparando la funzione del valore nel sistema di merci, così come descritto da Marx, con quella svolta nel sistema dei segni, così come descritto da Peirce e Saussure (è quanto ho cercato di fare in F. Aqueci, Capitalismo e cognizione sociale, Roma, Tab Edizioni 2021). Fatta salva la differenza funzionale fra i due sistemi, il valore torna a essere così la “premessa tipica” di cui parlava Labriola, con cui si chiarisce ad un tempo l’arcano della merce, oggetto sensibile carico di realtà sovrasensibile (K. Marx, Il Capitale [I: 1867], Torino, UTET 1974, p.148), e il rapporto di forza insito nella pretesa “reciproca convenienza” dell’utilità economica pura, che permarrà sino a quando una nuova “epigenesi” non si concretizzerà, con la saldezza del senso comune, in un diverso tipo di società (ivi, p. 136). []
  29. V. Pareto, L’individuale e il sociale (1905), in Id., Scritti sociologici, Torino, UTET 1966, p. 326. []
  30. V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916), in Id., Opere complete, Roma, Editori Riuniti 1966, vol. XXII, p. 299. []
  31. N. Klein, Doppio. Il mio viaggio nel Mondo Specchio, Milano, La Nave di Teseo 2023, p. 198. []

Fascismo, il fatto “neutro” che ingrippa le istituzioni

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Centro «arrabbiato», «che non dirige il traffico» (Bersani, a “diMartedì” di qualche settimana fa). M5S, che ha un problema con la democrazia rappresentativa (sempre Bersani), e infatti v. Casaleggio jr., secondo cui i partiti tradizionali sono moribondi, la democrazia sarà sul web (lettera al “Corriere” del 3 aprile). Masse di elettori di sinistra che si spostano sul centro «arrabbiato», attratti dall’agitazione di temi tradizionalmente di sinistra. Negazione grillina dell’architrave destra/sinistra, ma riproposizione della contrapposizione dentro il “Movimento” (da ultimo, D’Alema, editoriale di “Italianieuropei” 2/2018). Chi nota tutto questo, purtroppo, e la cosa non meraviglia, continua a glissare sulla cosa più grossa, la dittatura del capitale sul lavoro, e del capitale finanziario sul capitale. Ma se, come nel gioco dei puntini, si uniscono con delle linee tutti questi elementi, balza fuori dai libri di storia la figura ben nota del fascismo, ridotto però a fatto “neutro”, necessario addirittura a far funzionare le istituzioni democratiche. Forse che Mattarella non spinge gli “arrabbiati” di Lega e M5S ad allearsi tra di loro, per un governo che soddisfi le “urgenze dei cittadini”, oltreché le “responsabilità internazionali”? Si obietterà che questi “vincoli” addomesticano il fascismo che alberga in quei due partiti, ma a loro volta questi partiti fiaccheranno il potenziale trasformatore che, secondo Costituzione, dovrebbe essere proprio delle istituzioni democratiche, le quali ristagneranno nell’inerzia in cui ingrassa l’attore principale, quel capitale finanziario che tutto permea di sé. Tonalità del presente, dunque, virante al nero. Ma negli anni Trenta c’era l’URSS, la Terza Internazionale, l’antifascismo, un campo largo che, pur con i suoi casini, faceva da supporto a chi resisteva. Oggi, chi avanza le analisi sopra richiamate guarda dall’alto in basso il socialismo latino-americano, per altro, disomogeneo di suo – Kirchner, di solito garrula, non ha emesso un solo tweet pro Lula. Oggi, chi avanza quelle analisi, al massimo, firma, appunto, qualche appello per Lula, e si chiede cinicamente perché mai ancora i cubani si ostinino nel loro comunismo residuale, e deve essere qualche onesto giornalista borghese (Bernardo Valli, su L’Espresso del 18 marzo) a riconoscere che Cuba, sì, sarà un inferno, ma è anche un paradiso. Eppure, il 4 marzo ha parlato chiaro, non c’è più spazio per la sinistra borghese di questi ultimi decenni, si presenti sotto le vesti del Pd o di LeU. Né c’è spazio per la sinistra goliardica di Potere al popolo. La sinistra è, se è proletaria, nazionale, internazionalista. Un lavoro immenso per riempire queste tre parole di sempre con i contenuti del tempo presente. Ma che altro fare?

Lavoro, parlamento, fascismo dopo il 4 marzo

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A volte, porsi domande lunari, serve ad afferrare più saldamente la realtà effettiva. E, dunque, a che punto sono le sorti del lavoro non alienato nel Parlamento appena uscito dalle elezioni del 4 marzo? Nel precedente Parlamento, c’era una grande area “riformista”, in cui si è accettato per qualche decennio che il lavoro venisse “riformato” per ”ridurre il danno” (“lo facciamo noi delicatamente, prima che lo faccia la destra brutalmente”), area che, sotto la pressione della crisi, si è scissa in una parte maggioritaria, tenuta al guinzaglio dal vasto raggruppamento liberista, che aveva in Alfano il suo cavallo di Troia, e in una parte minoritaria che, prima con timide protestazioni verbali contro il Job Act, poi con la scissione di LeU, si è venuta via via caratterizzando in senso laburista, sino al tardivo incontro elettorale di Grasso con Corbyn. Adesso bisogna aggiornare la mappa e anche la terminologia.

Dal voto è uscita l’area del centrodestra egemonizzato dalla Lega, che, al fine del mantenimento dell’ordine esistente, riconosce al lavoro la modesta quota parte utile alla sua riproduzione, ivi compreso un certo consumo affluente aggiornato al clima penitenziale dell’austerity, quest’ultima per altro contestata in senso sovranista, fra i mugugni dell’area euro-popolare di cui il Berlusconi redivivo si fa garante. Al capitale tocca, dunque, la grossa quota parte della flat tax, e al lavoro viene riconosciuto il risarcimento salariale differito dell’abolizione della riforma Fornero, più qualche mancetta in busta paga “per sostenere la domanda”. Questo non è populismo, ma il riconoscimento “corporativo” del lavoro, nel quadro di una dialettica nella quale il capitale immodificabilmente comanda su lavoro, soprattutto nei periodi di crisi, come accadde negli anni Venti del secolo scorso, dove il comando divenne dittatura politica, cioè fascismo.

Dal 4 marzo, è uscita poi l’area del lavoro “subalterno”, che nel precedente Parlamento era intestato ai modi civilizzati del riformismo. Quest’area adesso è ristretta al gruppo renziano, cui sta venendo in soccorso il focoso Calenda, ed è collegato per mille fili al liberismo europeistico di cui la Commissione di Bruxelles è il “consiglio di amministrazione”, che si muove su input della BCE ecc. ecc. In quest’area, il comando del capitale sul lavoro è altrettanto ferreo, ma viene a mancare il riconoscimento “corporativo”, poiché il capitale, avvolto nella spirale globalista, dove meglio si ossigena la sua bionda chioma guerriera, non tollera vincoli di sorta, tanto meno “corporativi”. Tecnicamente, questo è il fascismo “bianco”. Bianco perché, a differenza di quanto accade nella dialettica “corporativa” tra capitale e lavoro, non c’è più l’allusione al fascismo storico. Fascismo perché, secondo il suo significato essenziale, forgiato dalla storia negli anni Venti del secolo scorso, è fascista il dominio incontrastato, cioè dittatoriale, del capitale sul lavoro. Un significato storico, dunque, che è divenuto tecnico, dal momento che la dittatura del capitale non ha più bisogno di iscriversi nella sovrastruttura politica, sospendendo il parlamentarismo, ma si può esercitare semplicemente nella struttura, liquefacendo il lavoro, o tecnologicamente (info-robotica) o socialmente (delocalizzazioni).

A questa liquefazione del lavoro, sia in quanto lavoro differito nell’info-robotica, sia come sparizione nel sottosuolo infernale delle delocalizzaizoni, si richiama, con una fascinazione al limite dell’incanto magico, l’area del non lavoro, intestata agli allucinati visionari del M5S. Qui, un cattivo realismo (non “il capitale, per riprodursi, sta uccidendo il lavoro”, ma “il lavoro è morto”) diviene la giustificazione per una richiesta redistributiva, il reddito di cittadinanza, che, fatti due conti, al capitale conviene, eccome, dal momento che è assai meno costoso del Welfare, e socialmente, frantumando ancora di più le connessioni sociali, rende ancora più vulnerabile il lavoro, ascrivendolo al precario destino dell’individuo ridotto ad atomo consumistico austericizzato. L’area del non lavoro, dunque, propala l’enorme mistificazione grillo-casaleggiesca secondo la quale, l’accresciuta dittatura del capitale sul lavoro viene fatta passare per fine del lavoro. Non un momento storico della lotta di classe, ma un dato di fatto che la tecnologia entificata e la società naturalizzata incorporano nel percorso evolutivo della specie. Come contestare l’evoluzione naturale, quando per altro il reddito di cittadinanza si sposa facilmente con un sostrato storico assistenzialistico-clientelare, solo marginalmente attinto in passato dal “salto di civiltà” del lavoro classicamente alienato? Su questo, per altro, si appunta la critica di coloro che, dal fronte del lavoro “subalterno”, contrappongono il “lavoro” all’“assistenzialismo”, salvo poi liquefare il lavoro con il Job Act. Ma queste sono schermaglie dialettiche di poco conto.

Per completare il quadro, resta da citare, nel nuovo Parlamento, la sparuta area laburista, rappresentata dai naufraghi di Liberi e Uguali, che sono ritornati a riconsiderare la dura realtà storica della guerra del capitale contro il lavoro, ma senza fuoriuscire dall’illusione che, concertando concertando, il bastone capitalistico di oggi diventerà la carota socialista di domani.

Dunque, lavoro corporativo, lavoro subalterno, non lavoro, lavoro laburista, questo lo spettro delle posizioni presenti nel nuovo Parlamento, che si caratterizza perciò per un approfondimento della dittatura del capitale rispetto al Parlamento uscente, e questo proprio quando si celebra la fuoriuscita dalla crisi, a dimostrazione che le crisi si risolvono sempre “a destra”, mentre è lo sviluppo che consente virate “a sinistra”, verso cioè l’affermazione del lavoro come strumento per far fiorire l’essenza umana. Un punto che, almeno strategicamente, dovrebbe tornare al centro di una sinistra dalla ritrovata virtù, rimandando la tattica a qualche genio dell’azione prodigato da una favorevole fortuna.

Il fascismo che ritorna in una zoppicante riflessione di Michele Prospero

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Secondo Michele Prospero, che si interroga sul ritorno del fascismo, la destra radicale serve oggi alla destra normale, cioè al dominio incontrastato del capitale, per coprire l’accumulazione ingiustificabile di ricchezze e orientare il risentimento dei subalterni contro gli immigrati, “alieni” che invadono la “patria”1.

Ma perché, all’improvviso, i subalterni avrebbero dovuto, non solo preoccuparsi dell’invasione degli “alieni”, comprensibile perché sottrarrebbero loro il lavoro, ma addirittura riscoprire la “patria”, cosa di cui si danno pensiero più i piccolo borghesi che i lavoratori?

La tesi di Prospero va bene sino a quando evidenzia il “fascismo bianco” dell’odierna dittatura del capitale, ma zoppica quando sorvola sul fatto che il capitale per diventare tale ha dovuto sottomettere la quieta “comunità tradizionale”, dando vita alla frenetica “società civile”. Perciò, se la dittatura del capitale oggi si esercita efficacemente sul lavoro, meno efficace appare sul “ritorno del rimosso” che il fascismo, di ieri e di oggi, ha sempre incarnato presentandosi come forza della tradizione.

I subalterni oggi sono vinti non solo perché, in quanto consumatori, sono ammaliati dal marketing, ma anche perché sono in preda ad un bisogno di comunità che, caduto il progetto razionale del comunismo, soddisfano alla meglio con il surrogato della comunità tradizionale, un heideggerismo di massa in cui si incontrano intellettuali e popolo sfigurati dalla nostalgia. Salvini così può proporre non solo l’abbattimento della tassazione per il capitale, ma anche l’abolizione della legge Fornero.

Secondo Prospero la sinistra deve rinascere nella lotta contro queste due destre che rendono il capitale sia sistema che antisistema. Questo richiederebbe di cominciare ad accorciare le linee, tra chi, dichiarandosi di sinistra, sta nei palazzi illudendosi di volgere in proprio favore il “fascismo bianco” di cui si diceva prima, e chi si disperde in mille lotte riservando il più feroce disprezzo contro i “venduti” rinserrati nei palazzi di cui sopra. Ma quanto sia improbo questo compito lo dimostra già il fallimento di una lista unica a sinistra del PD per le imminenti elezioni politiche, che ha indebolito tanto Liberi e Uguali quanto Potere al Popolo. C’è da sperare che il disastro che si annuncia, portando al disfacimento dello stesso PD, serva da “nuovo inizio” che bruci tutte le scorie del passato.

  1. M. Prospero, Salvini servitore di due padroni, “il Manifesto”, 16.2.2018, p. 1 e 15. []

Brutto carattere

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Sabato 24 gennaio, al Cairo, nei pressi della fatidica piazza Tahrir, mentre sfilava un piccolo corteo del Partito dell’Alleanza popolare socialista egiziana, è stata uccisa dalla polizia l’«attivista», come viene asetticamente definita dai media, Shaimaa al-Sabbagh, 32 anni, che chiedeva «pane, libertà e giustizia sociale», e manifestava «contro i Fratelli e contro Sisi», l’attuale presidente ex-generale1. Un esile fiore tra zolle pietrose che cozzano ciecamente l’una contro l’altra, ma quanto basta per ricordarsi che le “primavere arabe” sono state anche una richiesta di quella “libertà” che tanto pesa ai tanti Houellebecq d’Occidente. Che cosa sarebbe accaduto in Italia se, nel 1948, i Fratelli musulmani dell’epoca, cioè la Democrazia cristiana, avessero fallito la prova di governo? Magari il generale Graziani sarebbe diventato presidente del consiglio, e Luigi Gedda sarebbe stato sbattuto in galera. Ma da lungo tempo la Chiesa era già un organismo politico, e così i cattolici, dopo la falsa partenza di Sturzo all’inizio degli anni Venti, poterono con De Gasperi adagiarsi nel loro comodo “cattolicesimo democratico”. È questo retroterra di religione “riformata” che, nel corso del 2011, è mancato alle forze politiche arabe di ispirazione musulmana, che si sono invece trovate ad opporre l’aspra morale del Corano ad una società dalla doppia coscienza, quella verbale del rispetto rituale dei dettami del Profeta, e quella pratica segnata da una sfrenata “ragione strumentale”, per di più ostacolata dai detriti della vecchia subordinazione coloniale, e quindi carica di risentimento nazionale. Ma la religione politicamente “riformata” non ha assicurato il Paradiso in terra agli italiani. Negli anni Cinquanta e Sessanta, sono stati a decine gli “attivisti” uccisi dalla polizia, o dalla mafia, mentre manifestavano chiedendo “pane, libertà e giustizia sociale”, alla ricerca di un sentiero di mezzo tra l’astuta, e nell’immediato salvifica, “ragione politica” democristiana, e le forze dello “sfrenato movimento” neocapitalistico che si espressero nel “boom economico”. L’Italia era nata con un brutto carattere. Sin dall’Italietta pre-fascista, infatti, gli italiani furono xenofobi quando non razzisti, maschilisti e quindi anche omofobi, portati alle rodomontate militaristiche, “liberali” ma di un liberalesimo che, in un attimo, ancor prima di poter chiarire con Gramsci, che il drappo rosso agitato dagli operai era quello della “reciprocità”, si tramutò in un anticomunismo che il fascismo eresse a regime, divenendo così l’“autobiografia della nazione”. Il fascismo, che si ergeva a riformatore del carattere nazionale, in realtà ne fu l’erede, esasperandone solo i tratti. Esso chiedeva agli italiani di credere, obbedire e combattere, di praticare il culto della guerra e della bella morte, di essere virili ginnasti, di “fare figli come conigli”, di immedesimarsi nella politica incarnata dal Duce, di considerare gli italiani il popolo eletto. Il neocapitalismo, invece, quando arrivò, chiese di comprare “beni di consumo”, macchine e televisori in primis, di divertirsi, di fregarsene della politica, di non fare figli per non dover dispensare consigli, insomma di godersela. La vera riforma del carattere nazionale l’ha operata perciò il neocapitalismo dei consumi, che già incubava con la Topolino, e che la pelosa generosità del piano Marshall dei “liberatori” d’Oltreatlantico fece esplodere. E tutto questo, da Pasolini in poi, è certamente vero. Ma quando si parla di carattere nazionale, se ne parla sempre sub specie aeternitatis. Intanto è curioso che, in questo carattere nazionale, il fanatismo della tradizione, l’esaltazione dell’eroe che si immola, la sottomissione della donna, il gusto della guerra permanente e l’ideale del Libro e del moschetto, sono il portato di un fondamentalismo non religioso, bensì laico, cioè l’angusto liberalesimo risorgimentale tralignato in fascismo. Ma il problema del carattere nazionale, se si vuole continuare a ragionare con questa categoria tanto suggestiva quanto indeterminata, è il suo futuro. Da quando Pasolini, con la metafora della “scomparsa delle lucciole”, denunciò la “mutazione antropologica” che aveva affetto gli italiani, non si è più fatto un passo avanti. Se si vuole uscire dalla lamentatio, bisogna guardare al terzo tempo, che viene dopo il fondamentalismo liberalfascista e l’anomia del capitalismo consumistico. Oggi, il capitalismo è assoluto, perché il consumo non procura più godimento, ma sofferenza. Con il suo “debito” da ripagare, gira a vuoto. È fallito, ma non si è ancora manifestato chi ne proclami il fallimento. La fase che vive il “carattere nazionale”, dunque, è l’interludio di una rabbiosa speranza, e l’esile fiore della giustizia che, nei pressi di piazza Tahrir, è travolto da forze ciclopiche che la storia non ha ancora digerito, è lo stesso che stenta a sbocciare nel suolo inquieto di un’Italia dal brutto carattere.

  1. http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_25/cairo-piazza-tahrir-attivista-uccisa-corteo-stata-polizia-governo-nega-e1faf80c-a46b-11e4-9025-a3f9ec48a2fa.shtml []