Ricapitoliamo. A fronte di una sinistra risucchiata senza residui in un europeismo divenuto negli anni articolazione continentale dei monopoli e della finanza globale, la difesa dalle sperequazioni derivanti da una lotta di classe vinta ininterrottamente dal capitale, si è concentrata tutta nel campo della destra nella forma grottesca di una confluenza di sovranismo e populismo in cui, abbandonati a se stessi, si sono riconosciuti operai, pensionati, ceti medi declassati, ma anche il minuto capitale della piccola e media impresa, ancora legata ai processi industriali. Emblema di questa deforme lotta di classe è divenuto il governo pentaleghista, insediatosi nel maggio 2018, entro il quale però si è svolta una parallela lotta intestina, per dividersi le briciole cadute dal banchetto del grande capitale monopolistico-finanziario. Di qui, oltre alla manfrina intorno alla flat tax, il varo del reddito di cittadinanza e della quota cento, che rispondono anche a una logica territoriale, essendo il primo diretto alla platea meridionale, il secondo a quella settentrionale. Questo governo aveva fatto anche grandi proclami di bloccare le grandi opere e di risanare situazioni industriali incancrenite, nonché di uscire dall’euro e di rivedere le alleanze internazionali. A distanza di un anno, si può ora tentare un bilancio. In politica estera, ognuno è andato per la sua strada, la Lega a tentare equilibrismi tra Trump e Putin, i cinquestelle a tentare di interloquire con la Cina, oltreché ad abbozzare un’autonomia altermondialista. Da queste spinte contrapposte, per forza d’inerzia sono venuti fuori il non allineamento sul Venezuela e un dialogo più serio con la Cina, che Renzi e Gentiloni avevano derubricato a meta di gite turistiche1. C’è stato anche il tentativo dei pentastellati di connettere la questione immigratoria alle dinamiche finanziarie post-coloniali, (questione del franco francese come moneta di riferimento delle ex-colonie transalpine), ma si è rivelato velleitario tanto quanto quello della Lega di vivificare l’identità europea collegandola all’ortodossia di Santa Madre Russia con una pipeline di gasolio da cui prelevare una percentuale del quattro per cento di finanziamento elettorale. Velleità, dunque, come quella di spiegare il debito pubblico non con il peccato di prodigalità, ma con i meccanismi finanziari varati in Italia negli anni Ottanta del secolo scorso, che privarono il Tesoro del controllo sulla Banca d’Italia. Un tema su cui non si è andati al di là di uno spot televisivo, senza alcuna capacità di proseguire e imporre il discorso, contro le prevedibili reazioni furibonde degli europeisti. Ma laddove il governo ha mostrato tutta la sua artificiosità è stato sulla riforma economica. Il programma grillino era di denunciare le grandi opere, il TAV in primis, e di ripensare l’ILVA. Nel disegno originario, la Lega si sarebbe dovuta accodare. E non si capisce perché. Era chiaro come il sole, infatti, che la Lega, specie ora la Lega di Salvini, è il terminale del produttivismo nazionale, che ormai è produttivismo del Nord. Il suo sovranismo è benvenuto nella misura in cui consente alla macchina economica di scorrere senza scartamenti sui binari in cui da sempre è incardinata. E se a questo serve la cripto-secessione di Lombardia, Veneto ed Emilia, ben venga l’autonomia. I cinquestelle su questo punto hanno fatto un po’ di melina, ma TAV va avanti, e sull’ILVA si è registrata solo la battuta di Beppe Grillo, che auspicava la trasformazione dell’insediamento industriale in un Eden ambientale. Una questione seria, divenuta materia di avanspettacolo. A un anno dal suo insediamento, il bilancio di questo governo è dunque negativo, a dimostrazione che la lotta di classe non la si può combattere con i simulacri. Questi ultimi sono buoni a promuovere ammucchiate elettorali, che al momento delle scelte producono la paralisi e il ritorno in grande stile della controparte. Nonostante questo fallimento, il governo tuttavia, nel rimescolamento dei rapporti di forza al suo interno tra Lega e M5S, continua a godere di grande sostegno nei sondaggi. La spiegazione sta nel fatto che nessun nodo è stato portato in chiara luce, nessuna nuova consapevolezza ha prodotto fronti nuovi e contrapposti. Così, la massa raccoltasi attorno a Lega e M5S si specchia autoglorificandosi nel governo che non decide. Se sulla base di un pensiero nuovo il governo decidesse, mettiamo, di dare il controllo dell’ILVA agli operai che vi lavorano e alle loro famiglie che ne pagano il costo ambientale, tale massa molle e gelatinosa dovrebbe scindersi e al suo interno affrontare dei conflitti autentici. Ma i conflitti autentici fanno paura, così c’è uno spostamento su conflitti immaginari – immigrati, ong, Carola Rakete, l’attacco alla famiglia e quant’altro. Gestita da giovani rampanti, è una deriva senile di cui non si vede il fondo.
- A. Bradanini, Oltre la grande muraglia, Milano, Egea, 2018, pp. 200-1, 203-4, 212 [↩]