Di summit in summit, si precisa il progetto di Nuova Via della Seta che la Cina propone al mondo. Ultimamente, infatti, Xi Jinping ha proclamato che essa deve basarsi sulla trasparenza delle condizioni degli investimenti e sulla sostenibilità ambientale1. Nessun accenno, però, non solo ai diritti civili, il che non meraviglia, ma anche ai diritti sociali dei lavoratori del suo paese e dei paesi in cui dovrebbero avvenire gli investimenti previsti dalla One Belt One Road. Tutto sacrificato, dunque, in nome dello sviluppo delle forze produttive, che evidentemente i governanti cinesi ritengono sia possibile protrarre ulteriormente solo promuovendolo anche nel resto del mondo. Questa nuova base economica mondiale in via di edificazione dovrebbe portare con sé una diffusione altrettanto planetaria del chinese way of life. Un modello che, per quanto attaccato dallo sviluppo economico stesso, si basa ancora oggi sull’armonia tra individuo, famiglia e società, in cui fondamentali sono i legami di parentela. Vi sono concorrenti su questo terreno egemonico con i quali il chinese way of life dovrà confrontarsi? Ed esiste un terreno egemonico alternativo a quello a guida cinese che si prospetta per i prossimi decenni?
Oggi, la struttura del capitalismo è caratterizzata dal predominio del capitale finanziario sul capitale industriale, dal sovrapporsi della banca alla fabbrica, della borsa alla produzione di merce, del monopolio al capitano d’industria, e anche quando appaiono nuovi capitani d’industria in nuovi settori produttivi, essi subito si tramutano in monopolisti. Per indicare la pervasività di questo sistema, che riconduce il resto della società alla sua misura “aziendale”, si è escogitata l’espressione di capitalismo assoluto. Ma il capitalismo assoluto è anche il disordine che da tale assolutezza deriva. L’assolutismo monarchico dei secoli XVI-XVII era progressivo, poiché fondava l’ordine degli stati nazionali, dentro cui veniva disciplinata la vita economica della borghesia in ascesa. L’assolutismo capitalistico di fine XX, inizio XXI secolo, disgrega tale ordine, svuota lo stato nazionale e, in diverse guise, si costituisce in potere mondiale autonomo, dai più risalenti monopoli della produzione industriale, con i loro tipici intrecci finanziari, ai più recenti monopoli della produzione informatica, con il loro esibito anarco-capitalismo.
Ci si può chiedere se questo sfrenato disordine sia un vizio del capitalismo odierno, o se è invece la sua normalità2. La storia mostra che si tratta della sua normalità, poiché questo disordine non si presenta oggi per la prima volta. Era già apparso all’epoca della prima grande crisi degli stati europei, sboccata nella guerra del ’15-’18. La fase successiva, iniziata nel 1945, e durata sino a tutti gli anni Settanta del XX secolo, vide il tentativo da parte degli stati europeo-occidentali, in cui grande peso avevano i movimenti dei lavoratori, di imbrigliare tale tendenza tramite la “coalizione antifascista” che, nel corso della seconda guerra mondiale, aveva prevalso sulla soluzione alternativa, portata avanti dal nazifascismo, di un ordine corporativo fondato sul suolo, sul sangue e sulla tradizione. Dopo la dissoluzione dell’URSS e la drastica riduzione del campo degli stati socialisti, tale coalizione è stata definitivamente accantonata negli anni Dieci del XXI secolo, quando il potere finanziario è passato all’attacco delle Costituzioni antifasciste3, avvertite come un vincolo ormai ingiustificato dagli attuali rapporti di forza.
Quali sono i contraccolpi nel campo ideologico di questo capitalismo del disordine? Una reazione caratteristica soprattutto dei vecchi stati nazionali dell’Occidente è il sovranismo. Tali stati, di fronte all’esaurirsi della “coalizione antifascista”, tentano ora la soluzione del suolo, del sangue e della tradizione, sconfitta e scartata all’epoca della seconda guerra mondiale. Il sovranismo, perciò, in tutte le variegate forme in cui si presenta, ivi comprese quelle che cercano di porre rimedio al fallimento degli stati nazionali socialisti, vedi la Russia di Putin, è l’erede storico del nazifascismo, cui allude più o meno esplicitamente, mondandolo ovviamente dei suoi tratti più truci.
Ma si oppongono al capitalismo assoluto anche gli stati periferici che, sorti dalla disgregazione del sistema coloniale, e basandosi su una forza economica variamente conseguita, dal possesso di fonti energetiche, allo sfruttamento di immense riserve di forza lavoro a buon mercato, si richiamano a tradizioni differenti. L’Islam, perciò, non come religione, ma come ideologia politica degli stati petroliferi del Medio Oriente, combatte il capitalismo assoluto altrettanto quanto il sovranismo, ma con più determinazione e ferocia, anche perché così facendo cerca di unificare una tradizione dispersa in più quadranti territoriali e politici. E altrettanto lo combatte la Cina neo-confuciana, non negandolo violentemente, ma cercando di assimilarlo in un nuovo ordine mondiale di cui essa si propone come il pilastro portante.
Il chinese way of life è dunque solo una delle potenze ideologiche che si contendono la scena. Ma si chiarisce qui che, assieme al sovranismo e all’islamismo, il confucianismo, a dispetto del suo richiamo al comunismo e alla dottrina marxista, appartiene al novero delle potenze ideologiche regressive. Esso infatti fa dipendere lo sviluppo delle forze produttive da una “armonia” il cui centro propulsore non è l’individuo arricchito da liberi e infiniti rapporti sociali, ma l’“occhio sociale” che, grazie ai nuovi strumenti informatici, riconduce tutto ad un ordine burocratico e poliziesco di cui lo stato-partito è garante4. Ecco perché, allora, in nome della priorità dello sviluppo della base economica, vengono sacrificati senza tanti scrupoli le conquiste sociali del Novecento, cui lo stesso maoismo diede un essenziale contributo. Ed ecco perché lo sviluppo delle forze produttive può essere affidato ad accordi fra governi, indipendentemente del loro orientamento sociale. Ciò che conta non è modificare i rapporti di produzione, ma far scorrere il capitale. Dell’internazionalismo socialista resta così solo un simulacro, che ben si accorda con il globalismo, di cui però si progetta di imbrigliare l’intrinseco disordine con l’armonia burocratico-poliziesca assurta a modello mondiale.
Non è difficile prevedere che il capitalismo assoluto si faccia beffe di tali briglie fabbricate con la stessa materia di cui esso è composto. Ma la domanda da porsi è se nell’ora in cui le forze progressive vivono la loro più grave crisi, è possibile imporre un terreno egemonico alternativo a quello che si contendono le tre fiere ideologiche sopra individuate. Le democrazie liberali sono oggi deboli e vacillanti come, trenta anni fa, gli stati socialisti alla vigilia del loro crollo. Gli stati socialisti si sono ridotti a Cuba e al Venezuela, che subiscono l’embargo insensato da parte delle stesse democrazie liberali, le quali invece di ritirare l’appoggio incondizionato a quel capitalismo assoluto che le ha corrose dall’interno, e convergere con quei due stati socialisti per avanzare assieme verso nuovi modelli sociali, agiscono ciecamente con i vecchi riflessi della guerra fredda, come dimostrano le inerzie e le viltà verificatesi nei confronti del Venezuela, un paese pacifico in cerca del suo modello sociale che viene stritolato dalla logica pregiudiziale di schieramenti non solo obsoleti, ma incapaci di opporsi a quelle tendenze ideologiche, il sovranismo, l’islamismo, il confucianismo, che sono le vere minacce per le democrazie liberali.
Domina perciò non tanto il “pensiero unico”, ma il vecchio pensiero, e tarda ad affermarsi una riflessione spregiudicata sulle conseguenze nefaste della contrapposizione tra liberalesimo e socialismo che ha contrassegnato il Novecento, e che ancora oggi perdura nel momento del massimo pericolo. Tale contrapposizione ha minato l’egemonia dell’Occidente, rendendo gretto il liberalesimo e primitivo il socialismo. Si tratta di una frattura da ricomporre, ma non certo nella forma di una santa alleanza difensiva. Al contrario, la ricomposizione non può che essere offensiva, volta ad affermare il principio di una libertà non più individualistica, e di un’uguaglianza non più economicistica. Una sintesi che, quando e se avverrà, deve avvenire sul terreno politico della reciprocità:
Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale diventa qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che la società lo pone, sia pure «astrattamente», nelle condizioni generali di poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando a ogni governato l’apprendimento gratuito della capacità e della preparazione tecnica generale necessarie al fine (Gramsci, Q. 12, § 2, p. 1547).
- https://www.repubblica.it/esteri/2019/04/26/news/cina_xi_corregge_la_via_della_seta_zero_corruzione_e_piu_sostenibilita_-224874211/ [↩]
- A. Gramsci, La relazione Tasca e il congresso camerale di Torino, in Id., L’Ordine Nuovo 1919-1920, Torino, Einaudi, 1975, p. 130. [↩]
- https://www.wallstreetitalia.com/jp-morgan-all-eurozona-sbarazzatevi-delle-costituzioni-antifasciste/ [↩]
- S. Pieranni, Le vite a punti dei cinesi all’ombra del partito, “il manifesto”, 23.9.2018, p. 8. [↩]