Da qualche decennio, la storiografia rimuginatrice, appuntandosi su qualche episodio controverso, dipingeva un quadro di tradimenti inconfessabili a spese di un Gramsci impegnato a scrivere für ewig i suoi Quaderni, sottoposti poi a tagli e mutilazioni che ne avrebbero stravolto il senso. Fortunatamente, la ricostruzione di Giorgio Fabre dei tentativi di liberazione di Gramsci si stacca da questa rappresentazione ormai frusta e, sia con indagini nuove, sia utilizzando in modo nuovo elementi già noti, ne dipinge un’altra dai colori inconsueti. Certo, per un’opera di storia, molti sono i punti cui solo si allude o si accenna di passata, rifugiandosi nella comoda formula che poco e confusamente si sa, e se la storiografia rimuginatrice tedia, quella allusiva inquieta, ma nel complesso la ricostruzione di Fabre tratteggia oggettivamente il dipanarsi della vicenda, nella quale il prigioniero, benché sempre promotore e protagonista delle trattative, appare come schiacciato dalla trama d’insieme, le cui forze e personaggi si possono sinteticamente così indicare:
1) l’oggettiva e in qualche caso soggettiva ostilità degli “antigramsciani” del piccolo e debole Pcd’I, per i quali Gramsci è solo uno strumento politico da utlizzare nelle campagne internazionali per la liberazione dei prigionieri politici, alle quali non ci si può e non ci si deve sottrarre, pena il discredito politico;
2) il comportamento “mediatorio” di Palmiro Togliatti, stretto tra l’antico legame di stima e d’amicizia per Gramsci e la ragion di partito, che è anche ragione di vita, per le quali non ostacola e a partire da un certo momento anche promuove le mobilitazioni internazionali pro prigionieri tanto temute da Gramsci per i loro effetti dirompenti sulle trattative da lui intraprese;
3) l’atteggiamento imprudente delle sorelle Schucht che spesso diffondono incautamente notizie riservate sulle trattative, contribuendo così a creare “disastri”, giusto il termine di Sraffa, a sua volta responsabile almeno in parte di qualcuno di essi;
4) la reazione di Gramsci a questo insieme oggettivo e soggettivo di nequizie, che si concretizza in ciò che si potrebbe chiamare “lo sciopero dei Quaderni”, quando, giudicando che il partito lo ha a tutti gli effetti “scaricato”, ritiene che non ha più senso quel suo lavoro di scrittura, portato avanti per la vita e l’educazione del partito e del “proletariato”;
5) la sostanziale leatà dei sovietici, leggi Stalin, i quali sono gli unici che, tanto nel 1927-28 quanto nel 1933-34, assecondando propositi di Gramsci, pongono in essere tentativi ad altissimo livello, partitico, statuale e diplomatico, per la sua liberazione ed espatrio in Russia;
6) il comportamento freddamente strumentale di Mussolini, che usando tutti gli organi dello Stato, dalla diplomazia alla polizia ai servizi segreti, anticipa e prevede le mosse di Gramsci, il quale tuttavia, consapevole di ciò, fa in modo che quel che ottiene appaia come concessione del carceriere;
7) infine, l’atteggiamento altrettanto strumentale della Chiesa cattolica, per la quale Gramsci è solo una pedina da giocare in trattative “maggiori”, il cui esito negativo per altro è segnato da una pregiudiziale chiusura verso i “bolscevichi”.
Come si vede, emerge chiaramente da questa ricostruzione che i bolscevichi, i sovietici, Stalin in persona, non esitano a spendersi per Gramsci, un leader che da sempre giudicano ideologicamente e politicamente affidabile, anche nei momenti controversi, come ad esempio nel 1926, quando tramite l’ambasciatore a Roma, Gramsci anticipa riservatamente a Stalin il significato non trotzkista del suo richiamo all’unità del partito bolscevico, contenuto nella famosa lettera a Togliatti a Mosca (pp. 202-3). Certo, i sovietici vanno per la loro strada, e non sempre sono amichevoli. All’epoca delle purghe, tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, con l’NKVD premono su Gramsci per fargli dire tutto ciò che sa sui trotzkisti italiani, che avevano cercato di appropriarsi della sua figura, ma Gramsci li respinge irridendoli (p. 390 sgg.). L’immagine, allora, che viene fuori è quella di un Gramsci “gramsciano”, impossibile da ridurre a qualcuna delle fazioni in lotta, che porta avanti la sua ricerca ideologica sino a quando vede spazi politici di manovra. Ma quando, a suo giudizio, l’orizzonte si chiude, e non certo per colpa dei sovietici, la sua risposta non è la conversione, o l’abiura, magari consegnata a delle note segrete, bensì lo “sciopero dei Quaderni”, un silenzio eloquente rivolto al suo mondo di riferimento: “gli operai comprenderanno perché Gramsci non lavora”. Mussolini, invece, le cui responsabilità sono state banalizzate dal polverone revisionistico dell’ultimo quarantennio, appare come il suo vero ed unico carceriere, spalleggiato da una Chiesa cattolica chiusa in una politica di duro, anche se sterile, realismo. Ma questo del rapporto di Gramsci con la Chiesa di Roma, e in generale con il cattolicesimo, è un punto della ricostruzione di Fabre che va discusso, così come la concezione che Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader e, in generale, del metodo di lotta politica da lui praticato. Ma andiamo con ordine.
Religioni. Fabre giudica lunare, non chiara e vagamente saccente (p. 305 e p. 307) la fiducia di Gramsci a lungo riposta nel Vaticano per ottenere la sua liberazione con una trattativa tra l’URSS e la Santa Sede. In generale, poi, il suo rapporto con la Chiesa gli appare dettato da una concezione “religiosa” della politica e dello Stato sovietico, concepito come uno Stato-Religione (p. 308). L’identificazione della religione con l’ideologia, morta o viva che sia, è un abuso concettuale di questi tristi tempi. Sarebbe bene invece tenere conto dell’analisi di Gramsci nei Qauderni del Concordato intervenuto tra Chiesa e Stato ad opera del fascismo. In quelle note appare chiaro che Gramsci vede la Chiesa cattolica come una monarchia teocratica cosmopolita, e non è inverosimile ipotizzare che la sua insistenza sulla mediazione vaticana discenda proprio dalla considerazione della Chiesa quale potenza statale “tolemaica”, giusto per usare una categoria gramsciana, alla quale egli si oppone in quanto membro eminente di un esercito internazionale in lotta per la modernità “copernicana”. Dunque, come riconosce lo stesso Fabre, uno scambio tra Gramsci e un qualche vescovo cattolico detenuto in URSS sarebbe stato un logico scambio di prigionieri di pari rango tra due potenze politico-ideologiche contrapposte (p. 142). In tutto ciò ci può anche essere della presunzione ideologica, ma bisogna pur notare che, come ricostruisce lo stesso Fabre, è la Chiesa a rispondere per prima con una chiusura ideologica pregiudiziale verso il “mondo nuovo” dei bolscevichi, con le disastrose missioni in URSS del gesuita d’Herbigny e la negativa influenza dei suoi rapporti su Papa Ratti (pp. 89-94). Una chiusura, si potrebbe dire, non molto diversa da quella che, ancora solo a livello dello strato intellettuale, essa qualche secolo prima aveva riservato alla scienza galileiana, e che ora, sul piano della “politica di massa”, secondo l’appropriato termine di un recente saggio, si traduce in una sleale politica di decisioni segrete e finte trattative. Quello che sembra, dunque, un lunatismo ideologico di Gramsci, è semmai un errore di calcolo politico, poiché egli crede e continuerà a credere a lungo di trovarsi di fronte ad un avversario leale, se non sul piano della dottrina, almeno su quello politico-diplomatico, mentre invece la Chiesa si rivelerà un organismo segnato, come apparirà evidente almeno sino al papato giovanneo, da un aggressivo risentimento verso chi si fa interprete delle novità del corso storico. Le quali però non sono “negazioni” che si convertono automaticamente in “ricostruzioni”. Riferendosi ad un articolo del 1922 apparso su l’Ordine Nuovo, Fabre nota che «Gramsci aveva simpatia per un eventuale “unionismo” in Russia perché pensava che il cattolicesmo, dinamico e moderno, sarebbe stato più utile all’URSS della religione ortodossa» (p. 305). Per la verità, in quell’articolo di tenore informativo, non c’è traccia di tale auspicio. Ma è indubbio che un certo modernismo “produttivistico”, che Gramsci condivide con il partito bolscevico, e che applicato all’Occidente si esprimerà nelle ambivalenti note su americanismo e fordismo, costituisce il punto critico della sua concezione. Senza attendere i fallimenti “copernicani” e le odierne risorgenze “tolemaiche”, già Sorel aveva intravisto il perdurare della vasta “cité cristiana” e la debolezza della “scissione” socialista, rispetto a quella antica che il cristianesimo operò nei confronti del paganesimo. Nel frattempo, inoltre, si è imposta la “scissione” della modernità “produttivistica”, che ha assorbito in un ciclo di “rivoluzione passiva” ancora in corso la “ricostruzione” cui sembravano destinati i dominati sociologicamente arroccati nelle fabbriche. Qui la “questione vaticana”, che oggi è divenuta “questione religiosa” tout court, diventa “questione territoriale”. C’è da chiedersi se l’alleanza tra operai e contadini, proposta da Gramsci in sostituzione del blocco agrario-industriale, non avrebbe dovuto mettere in discussione in primo luogo il “produttivismo” del blocco nordista. È un problema che, mutati i dati sociologici e geografici, oggi si pone a livello mondiale, dove l’“innaturalezza” del “produttivismo” richiede di essere contrastata da una “logica naturale” della modernità.
Capo. Ma veniamo alla concezione che, secondo Fabre, Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader. A più riprese, Fabre avanza delle considerazioni sull’uso del termine “capo” nel lessico dell’Internazionale comunista, del PCUS e del Pcd’I, il cui succo è che mentre in quest’ultimo, anche da parte di Gramsci, si indulgeva all’uso di tale termine, con il quale ci si riferiva al leader che, in empatia con gli operai, è capace di esprimere le aspirazioni di tutta la classe, nel Comintern e nel partito sovietico, dove uno dei capi di imputazione a Trotskj era stato quello di avere creato il “culto della personalità”, si preferiva usare, anche dopo la vittoria di Stalin, il termine di dirigente, a sottolineare come fosse il collettivo a guidare il partito. È interessante notare come i sovietici, in particolare gli stalinisti, e comunque gli ambienti del comunismo internazionale, demonizzati da tutta una storiografia “anti-totalitaria”, appaiano molto più attenti del partito italiano nel respingere una visione verticistica e, in qualche misura, irrazionalistica della leadership. Tuttavia, non si può certo dire, come sembra suggerire Fabre, che Gramsci, con il suo saggio, Capo, del 1924, e con le sparse note carcerarie sull’argomento, sia particolarmente interessato a tale concezione. In realtà, il suo vero interesse è per la questione più generale del rapporto tra governanti e governati. In proposito, senza considerare certe chiare formulazioni dei Quaderni, già la Questione meridionale, che soprattutto nella prima parte, a torto sempre trascurata, è anche un resoconto della sua pratica politica, va nel senso dell’assorbimento nelle masse della funzione dirigente delle élites, attraverso “lotte cognitive” che modifichino “molecolarmente” i rapporti di forza e la “mente collettiva”. Cosa, invece, che non si può dire del partito che a Gramsci ufficialmente si richiamava, il PCI, dove, mondato dalle punte irrazionalistiche, il verticismo del leader o del “gruppo dirigente” è rimasto il tratto distintivo di un organismo che, dall’alto, coopta nello Stato parti della società sin allora rimaste escluse. L’ideale gramsciano della fine della divisione tra governanti e governati sfuma così in un élitismo “gentile” che, nell’odierno disfacimento ideologico, rinuncia persino a formularsi.
Segreti. Veniamo così all’ultimo punto su cui la ricostruzione di Fabre consente di avanzare qualche considerazione, cioè il metodo della politica praticato da Gramsci. Fabre osserva che Gramsci, probabilmente al corrente di dettagli segreti attinenti a trattative intercorse già negli anni Venti tra Italia e URSS, trasmette in generale l’impressione di essere interessato alle procedure segrete, da lui considerate come una parte del modo di fare politica (p. 135). E a proposito del fatto che Gramsci, come abbiamo visto, anticipi a Stalin, tramite l’ambasciatore sovietico a Roma, contenuto e significato della lettera dell’ottobre 1926 a Togliatti a Mosca, Fabre nota ancora che «c’erano dei fili segreti che lo legavano a Mosca e, parrebbe, a Stalin che, nel partito italiano, forse solo lui conosceva. Sono legami che possono spiegare molto meglio proprio l’atteggiamento benevolo che le autorità sovietiche continuarono sempre ad avere verso di lui» (p. 203). Alla luce di queste osservazioni, la contrapposizione che Gramsci in quella lettera instaura tra “pedagogia scolastica” e “pedagogia rivoluzionaria”, ovvero tra conformismo e reciprocità, appare non come l’appello di un profeta disarmato, se non addirittura sprovveduto, ma come una solida costruzione politica a più livelli, riservata e pubblica, che trascende il realismo dei rapporti di forza tipico della lotta tra fazioni, cui invece si attiene Togliatti, suscitando in Gramsci la “penosissima impressione” di cui gli scrive nella lettera di risposta. Tale “impressione” è perciò anche il disappunto di chi vede compromessa la propria iniziativa dall’intrusione di un metodo di lotta politica “inferiore”, in qualche misura “antiquato”. Su questo terreno del “metodo” della politica, questo contrasto non è l’unico attestato tra Gramsci e Togliatti. Come è stato mostrato, in quel vero e proprio confronto politico che è il dibattito intellettuale su Croce, mediato epistolarmente dal carcere da Tanja e Sraffa, all’interesse di Gramsci per la “discussione nel merito” Togliatti opporrà l’esigenza formale di “conoscere le tesi”, per poter fissare gli “schieramenti” attorno alla “linea”. Fabre osserva che Gramsci non sbagliava a considerare il livello segreto come una parte del modo di fare politica, poiché «all’epoca gli “scambi” condizionavano i rapporti tra gli Stati europei e in qualche modo facevano parte della loro politica estera» (p. 135). Ma sembra plausibile supporre che non c’è solo questo motivo contingente e personale alla base dell’interesse di Gramsci per il livello segreto o riservato della politica, ma anche l’intento di elevare gli aspetti “machiavellici” della politica all’altezza di un metodo che privilegia la “mobilità” dei contenuti rispetto alla fissità delle “posizioni”, e ciò proprio in vista di quell’assorbimento dell’élite nelle masse che è l’ideale normativo di un agire politico in lotta per un cambiamento di paradigma della mente collettiva. Fabre si meraviglia che nel periodo in cui fu redatta la Costituzione, il partito non fece mai riferimento alla parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, lanciata da Gramsci negli anni Trenta (p. 445). Ma un tale richiamo avrebbe comportato di riaprire i contrasti di quegli anni, che come si vede furono nell’essenza contrasti di metodo politico. E d’altra parte, l’aver glissato su di essi comportò l’instaurarsi di una “doppia coscienza”, quella “culturale” e quella “pratica”, da cui derivò un progressivo riassorbimento di quella ardita ricerca nel vecchio metodo élitistico, i cui effetti arrivano sino all’odierna afasia.
In conclusione, la ricostruzione di Fabre offre una utile base storiografica per evidenziare due caratteristiche ideologiche di Gramsci, e cioè il suo “galileismo etico-politco” al quale, dopo la “svolta rivoluzionaria”, si mantenne fedele sino alla fine; il suo “socratismo” politico, inteso non come rifiuto intellettualistico dei rapporti di forza, ma come pratica politica in cui anche gli aspetti “machiavellici” vengono riorganizzati in funzione di una trasformazione “copernicana” della cognizione sociale. Il silenzio che interrompe la redazione dei Quaderni è il segno degli ostacoli soggettivi e oggettivi che incontra questo impianto politico-ideologico, la cui attualità, pur nelle mutate condizioni odierne, è però evidente.