Gramsci

I cannoni di Scalfari e la morale di Napolitano

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Vada come vada, questo referendum ha già avuto il risultato di far cadere un po’ di veli. Si prenda Eugenio Scalfari. Il 3 ottobre scorso, avendo letto e meditato sulle visioni politiche dei grandi classici, se ne uscì con un editoriale che inneggiava all’oligarchia in quanto sola forma di democrazia, con l’argomento che «l’oligarchia è la classe dirigente, a tutti i livelli e in tutte le epoche»1. Seguiva una messe impressionante di fatti storici, da Platone alla Democrazia cristiana, che dimostravano che «oligarchia e democrazia sono la stessa cosa»2. Ora, tutti abbiamo studiato a scuola che, per Platone, l’oligarchia, detta anche da lui timocrazia, era il governo di pochi malvagi. Per non parlare di Aristotele, per il quale l’oligarchia era la degenerazione dell’aristocrazia. Ma Scalfari aveva letto e meditato, e quindi si poteva permettere una simile innovazione, perché in fondo ciò che voleva affermare era che il governo è un affare dei dominanti, che sono tutto, mentre i dominati  sono solo un… – ma Scalfari alludeva a Pareto o al Marchese del Grillo? Come che sia, egli ha martellato con questo argomento durante la sua campagna elettorale a favore del sì, sino all’editoriale del 1° dicembre, con il quale ha completato l’opera, scrivendo che il sì era necessario per l’Europa: «il capitale è una forza fondamentale della storia moderna e può essere una forza positiva o sfruttatrice. Lo dimostrò Marx alla metà dell’Ottocento: riconosceva la forza positiva del capitalismo che era in quel momento il motore della rivoluzione industriale e al tempo stesso delle libertà borghesi, premessa della rivoluzione proletaria. Ecco perché l’Europa federalista è indispensabile e deve essere il principale obiettivo della sinistra moderna»3. Quindi, l’Europa federalista è borghese e capitalista, e siccome il capitalismo borghese è la premessa della rivoluzione proletaria, la sinistra moderna, se vuole la rivoluzione, deve sostenere l’Europa federal-capitalista. Pareto, che era uno scienziato, di fronte a simili ragionamenti, si faceva beffe degli “intellettuali”, definendoli produttori di cannoni dipinti4. Benché dipinti, però, i cannoni di Scalfari non sparano a salve. Con ragionamenti come quello sopra citato, egli a far data almeno da Razza padrona, il massimo della critica dell’economia politica cui i sui profondi studi l’hanno condotto, ha preso in giro la sinistra, una sinistra ovviamente che aveva tutto l’interesse a farsi prendere in giro da un così abile fabbricatore di “derivazioni”, giusto il termine tecnico di Pareto, ovvero di ragionamenti manipolatori con i quali assopire i governati. Prendiamo Giorgio Napolitano. Tutto si può dire di lui tranne che sia uno che si fa manipolare, ma il 2 dicembre scorso, tre mesi dopo l’editoriale con cui Scalfari sconvole la scienza politica, e un giorno dopo in cui Marx fu da lui arruolato per la vittoria del sì, ha testualmente dichiarato che «non esiste politica senza professionalità come non esiste mondo senza élite»5. E qui si capisce a cosa servono le derivazioni: senza di esse Napolitano sarebbe rimasto un forbito compagno della Direzione del fu Partito comunista italiano, invece dipingendo cannoni è salito al Quirinale. Ma Napolitano, che ha una coscienza, cerca anche il conforto della morale. Così, in questi anni si è recato molte volte a Ghilarza, paese natale di Antonio Gramsci, e da ultimo anche a Milano, dove nel maggio scorso gli originali dei Quaderni del carcere sono stati esposti accanto ai quadri di Renato Guttuso. Non siamo certo alle reliquie, perché c’erano anche i dipinti, gli onnipresenti cannoni dipinti, uno dei quali questa volta è servito a Napolitano per emettere i canonici sette colpi a salve, in onore del Gramsci «monumento morale»6. Bene, ma con le élite come la mettiamo? Ecco cosa ne pensava Gramsci, prima di essere moralmente cannoneggiato da Napolitano: «ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico‑morale»7. E se non fosse chiaro, ecco come si esprimeva ancora in proposito il grande sardo: «si vuole che ci siano sempre governati e governanti oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni?»8. Gramsci, che era un socratico, poneva domande. E Napolitano, che si fa prestare i cannoni da Scalfari, complice il referendum, la risposta finalmente l’ha data: «non esiste mondo senza élite». Domani, vinca il sì o vinca il no, almeno questo, alla faccia di Gramsci, l’abbiamo chiarito.

  1. E. Scalfari, Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto. Il primo errore è stato la contrapposizione tra oligarchia e democrazia, “la repubblica”, 2.10.2016, http://www.repubblica.it/politica/2016/10/02/news/zagrebelsky_renzi_scalfari-148925679/ []
  2. Ibidem. []
  3. E. Scalfari, Il Quirinale tra Waterloo e Ventotene, “la Repubblica”, 1.12.2016, p. 1 e 31. []
  4. V. Pareto, Trattato di sociologia generale, Torino, UTET, 1988, 4 voll. vol. IV, § 1923, nota 1, p. 1892 []
  5. “Corriere della sera”, 2.12.2016, p. 6 []
  6. http://www.corriere.it/cultura/16_maggio_23/gramsci-guttuso-gallerie-d-italia-milano-intesa-san-paolo-quaderni-carcere-quadri-bazoli-napolitano-1aa5c18e-211e-11e6-a5a3-c2288e2f54b5.shtml; ma v. anche http://www.sardinews.it/pdf/dossier%204_2007.pdf []
  7. Q. 8, § 179. []
  8. Q. 15, § 4. []

Ritorno a Ventotene: tanti auguri a Matteo Renzi

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Il prossimo 22 agosto, l’Italia incontrerà Germania e Francia a Ventotene “per ripartire con convinzione sull’Ue dei valori e degli ideali”. Parole di Matteo Renzi all’ultima Direzione del Partito democratico. È un lodevolissimo intento, ma Ventotene, lo spirito di Ventotene, il Manifesto di Ventotene, non sono uno scherzo. Proviamo a rileggerlo nei suoi punti salienti. La missione di un’Europa libera e unita, scrivono Spinelli, Rossi e Colorni, è di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Perciò, non la “politica europea”, non i suoi vertici, non le sue scartoffie che viaggiano quotidianamente tra Bruxelles e Strasburgo, ma la rivoluzione europea dovrà portare avanti questa missione, che è una missione socialista, in quanto si proprone l’emancipazione delle classi lavoratrici, ispirandosi al principio secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma debbono essere da loro dominate. Che fare? Risposta della rivoluzione europea: abolire l’occlusione economica! Questo programma deve essere incarnato non dalla Commissione europea, non dal board dei capi di governo, non dai sacerdoti dell’austerità, ma da un partito rivoluzionario che deve attingere e reclutare nella sua organizzazione solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita. Dunque, non carrieristi, ma rivoluzionari devoti alla causa euroepa. Non sono ammessi quindi Presidenti di Commissione che, cessato il loro mandato, passano a lavorare per Goldman Sachs. Ma andiamo avanti. Questo partito attinge la sicurezza di quel che va fatto, dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Quindi, non è un partito che “prende partito” a priori, arbitrariamente, ma è un partito che raccoglie, accumula, immagazzina le forze che consentono di “prendere partito”. Prendere partito per la rivoluzione europea, che è una rivoluzione socialista fatta da rivoluzionari votati all’idea di Europa. E qui viene il bello. Non con i dinoccolati discorsi nel paludato Parlamento europeo, non con i narcisistici interventi negli infuocati talk show, non con le peregrine Costituzioni che i popoli giustamente spernacchiano, ma tramite la dittatura di questo partito rivoluzionario europeo si forma il nuovo Stato e attorno ad esso la nuova democrazia. Dittatura? Sì, proprio così, con un concetto che, a quanto pare, gli autori del Manifesto non disdegnano di trarre da un Lenin filtrato da Gramsci1, dittatura non della Troika, della finanza, delle grandi banche, che anzi vanno nazionalizzate, come recita il primo punto del programma economico del Manifesto, ma dittatura del partito rivoluzionario che persegue lo scopo di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Grecia, de te fabula narratur. Questo partito non deve girarsi i pollici, aspettando che il processo si compia. Al contrario, esso deve rivolgere la sua operosità anzitutto verso i due gruppi sociali più spontaneamente europeisti, vale a dire la classe operaia e gli intellettuali. Qui, chissà perché, viene ancora in mente Gramsci, ma non sarà per questo che, in tutti questi anni, non di dittatura del partito rivoluzionario europeo, ma di dittatura del capitale, Commissione europea, board dei capi di governo, sacerdoti dell’austerità, globalisti di ogni risma e contrada, hanno lavorato per atterrare e disperdere classe operaia e intellettuali? Ma non cediamo ai sospetti e restiamo al Manifesto. Solo sulla base di questa dittatura del partito rivoluzionario europeo che, come abbiamo detto, è un partito che “prende partito” non arbitrariamente, ma nel divenire del processo storico europeo, che è un processo socialista, cioè egualitario, solo su questa base le libertà politiche potranno veramente avere per tutti un contenuto concreto e non solo formale. E quale sarà questo contenuto di una rivoluzione che qualche supercilioso sta già squalificando come la solita, impossibile, catastrofica, pauperistica, rivoluzione egualitaria? Il contenuto di queste libertà politiche sarà che la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante. Testuale. E ci si chiede: questo ideale rivoluzionario europeo consistente nella reciprocità tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, non è l’asse portante dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci? Se solo in tutti questi anni, nel nome abusato dell’Europa, fosse stata esercitata non la dittatura del capitale, ma quella del partito rivoluzionario europeo, un partito a quanto pare gramsciano con venature addirittura leniniste, un partito per il quale la riforma economica non è il fine, ma il mezzo per la riforma politica, se solo anche una piccola parte di ciò fosse stato attuato, non avremmo oggi alle porte la minaccia dei “populisti” che urlano contro la “casta”, pronti a subentrarle, non appena l’avranno sloggiata dagli scranni che essa sempre più precariamente ancora occupa. Caro Matteo Renzi, il 22 agosto 2016 prossimo venturo, a Ventotene, sulla portaerei in cui per motivi di sicurezza si svolgerà il vertice europeo da te promosso, riuscirai a iscriverti e a fare iscrivere Hollande e Merkel al partito rivoluzionario europeo? Tanti auguri!

  1. I. Pasquetti, Altiero Spinelli tra Gramsci, Nenni e Berlignuer, “Eurostudium”, ottobre-dicembre 2008, p. 47. []

Gramsci e la sinistra oltre la sinistra

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Si ha notizia di di un convegno dal titolo “Il ruolo della sinistra nel pensiero gramsciano, alternativa ideologica o responsabilità di governo?”, organizzato a Lecce, il 24 giugno prossimo, da La Puglia in Più, il “movimento” del senatore Dario Stefàno, ex di Sinistra Ecologia Libertà, cui dovrebbero partecipare Luigi Zanda del Partito Democratico, Gennaro Migliore, a sua volta ex di SEL, ora Pd, e Massimo Zedda, rimasto invece Sel, ma soprattutto rimasto manovriero sindaco di Cagliari, che nelle sue note biografiche su Wikipedia ci tiene a far sapere che il papà era certamente un ex dirigente del PCI sardo, ma amico di Giorgio Napolitano. Tutto a posto, dunque, i quarti di nobiltà ci sono tutti, e le danze possono iniziare. Il titolo del convegno è chiarissimo, e il punto interrogativo del tutto retorico. Queste brave persone bramano le responsabilità di governo e, qualsiasi cosa sia, rifuggono dall’alternativa ideologica. Vogliono però la benedizione di Gramsci, e si interrogano perciò sul “ruolo della sinistra nel pensiero gramsciano”. Cioè, scusa, Antonio, te lo chiediamo dalla Puglia, terra che ti vide sofferente prigioniero, ma la sinistra deve stare a sinistra o a destra? O al centro? O deve andare al di là della sinistra e della destra? Pare che a questo punto Gramsci abbia alzato per un attimo gli occhi dal Quaderno scomparso che stava in quel momento redigendo a beneficio della sinistra riformista, e abbia chiesto: “Ma il mio scrittarello sulla Questione meridionale l’avete letto?”. Qui Gennaro Migliore, che è il più intellettuale di tutti, ha cominciato a scorrere l’operetta nella più recente edizione Studium, e ad un certo punto ha letto: “Ma è anche importante e utile che nella massa degli intellettuali si determini una frattura di carattere organico, storicamente caratterizzata; che si formi, come formazione di massa, una tendenza di sinistra, nel significato moderno della parola, cioè orientata verso il proletariato rivoluzionario. L’alleanza tra proletariato e masse contadine esige questa formazione; tanto più la esige l’alleanza tra il proletariato e le masse contadine del Mezzogiorno”. Si è fatto un gran silenzio. Zanda e Zedda hanno cominciato a zompare sui telefonini, e Stefàno stava lì, con l’aria di dire “eh, ma io sono un ex”. È rimasto solo Migliore, che è proprio un ragazzo sincero, e a un certo punto ha detto: “Ma, Antonio, scusa tanto, ma questo proletariato rivoluzionario, queste masse contadine, dove te le piglio? Qui, nei dintorni, al massimo c’è un pugno di neri che lavorano come schiavi nelle campagne”. Allora, Gramsci ha avuto pietà di lui, e gli ha detto: “Va bene, vedrò di metterci una parolina buona, in questo Quaderno scomparso che sto scrivendo”. Così pare che il 24 giugno prossimo, a Lecce, in terra di Puglia, ricomparirà il Quaderno trafugato, riscritto da Gramsci per la nuova sinistra che va oltre la sinistra.

Heidegger cabalista degli abissi contemporanei

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1. La premiata ditta Heidegger ha fatto le cose per bene. Dovendosi pubblicare le note segrete che il filosofo tedesco, sin dagli anni Trenta, aveva affidate a dei quaderni scolastici dalla copertina nera, che sarebbero dovute restare inedite sino al completamento della monumentale opera omnia, nel senso di monumento al culto ossessivo della propria personalità, cosa c’era di meglio che pubblicizzare su tutti i media che contano le pagine di contenuto antisemita, magari inscenando dei bisticci tra nipotini che si accapigliano sulle parole del vate? E siccome non bisogna farsi mancare mai niente, cosa c’era di meglio che segnalare all’edotto pubblico i presunti temi no global, anti-liberali e cripto-comunisti che il veggente avrebbe riposto in detti quaderni? La traduzione italiana del primo blocco di tali note1 è così venuta alla luce nella trepida attesa del pubblico pagante, che non si è certo sobbarcata la levataccia come per uno smartphone, ma insomma, la curiosità c’era, e la vendita, si presume, è andata bene. Aperto il volume e trangugiatone il contenuto, viene però alla mente, ma con il significato opposto, la famosa domanda di Derrida: ma avete mai letto Essere e tempo? Certo che sì, e certamente non ieri2. Ed è per questo che le distanze che Heidegger prende in questi quaderni da quell’opera, verso la cui celebrità si mostra ora sdegnoso, non impressionano per niente, perché, insomma, a parte la posa, esibita con movenze così ieratiche da risultare comiche, il contenuto è sempre quello, e cioè un esserismo o essenzismo che con gli anni diviene sempre più un eroico ruminare, o meglio un ruminare che si vuole eroico. Qualcosa, però, in questi quaderni appare in una luce più chiara. Qui, infatti, la filosofia è ridotta ad un fisicalismo metafisico il cui oggetto è l’essenza che decade nella presenza dell’essere, laddove l’essenza è l’unità originaria, e l’essenzismo l’anelito a ricomporre tale unità, per permettere all’ente di accedere alla potenza. Ma questo fisicalismo metafisico dove lo si è già incontrato? Da Rosenzweig ad Altmann a Löwith, e più recentemente e più precisamente da Marlène Zarader a Elliot Wolfson, si è sempre notata la vicinanza di Heidegger alle modalità di pensiero della teologia ebraica e in particolare della cabala. Nelle note di questi quaderni questa somiglianza è particolarmente evidente. Come la cabala, infatti, Heidegger costruisce una fisica della creazione il cui contenuto è l’elaborazione linguistica dell’essenza da cui deriva l’essere. In particolare, l’essenza di Heidegger corrisponderebbe nella cabala al Nome di Dio, da cui, in quanto essere linguistico, tutto promana3. Tuttavia, nonostante Heidegger ce la metta tutta, la sua cabala è molto più povera di quella ebraica. Manca, infatti, tutto il simbolismo razionale delle vie della sophia, che Heidegger sostituisce, appunto, con il suo ossessivo ruminare intorno alla domanda del domandare sull’essenza, che dovrebbe consentire di risalire a quell’inizio dispersosi nella decadenza dell’essere, contro la quale bisogna linguisticamente imbastire il ritorno al cominciamento, in modo da ottenere il potenziamento dell’essenza indebolitasi nella decadenza dell’essere. Un vero e proprio “gnommero”, avrebbe detto Gadda, che sembra la formula di un culto, il culto della fissità originaria, che guarda al divenire come alla lebbra dell’essere. Qui entra in ballo il compito della filosofia e del filosofo che Heidegger, quando non è impegnato a salmodiare la formula esseristica, affronta. Per Heidegger, la filosofia ha due compiti. Il primo è mostrare che all’iniziale esperienza panico-beante dell’essenza è subentrata la macchinazione tecno-scientifica e la fatica morale della cultura e della formazione culturale. Il secondo è mantenere aperta la domanda dell’essenza, in modo da poter tornare ad esperire i grandi stati d’animo propri dell’essenza, ovvero lo spavento e la benedizione. Ma chi deve svolgere questo gravoso compito essenzialistico, e chi deve e può tornare ad esperire tale originario stato d’animo essenzistico? Forse i più, i molti, i tanti individui accalcati nelle masse? Non ce n’è bisogno e non è neanche possibile. Bastano i pochi, gli eletti, gli autentici che, magari da qualche cattedra di filosofia ben avviata del glorioso Reich tedesco, sanno e agiscono tacendo. Non c’è altro. Questa è la grandiosa filosofia di Heidegger, che giustappunto stava già tutta contenuta in Essere e tempo, ma solo in forma più urbana e controllata. Una filosofia per la quale Heidegger ha ragione di rifiutare l’etichetta di filosofia dell’esistenza, della quale anzi si fa beffe. Ad Heidegger, infatti, non interessa minimamente la situaziome umana dell’individuo contemporaneo, ma interessa la questione materialistica dell’essenza debilitata dal suo precipitare nell’essere. Una cabala irrazionale, insomma, sbocciata su una cattedra di filosofia tenuta da un filosofo tedesco di tendenze politiche antisemite.

 

2. Negli stessi anni in cui Heidegger metteva a punto questa (povera) fisica linguistica dell’essere, nella quale uno psicoanalista potrebbe scorgere una raggelata nostalgia del grembo materno, altri si interrogavano sulla natura e il compito della filosofia e dei filosofi. Uno di questi era György Lukács, che non ebbe timore di temprare l’essenza dell’essere nella corrente del divenire. Non mancano le comparazioni tra il vate dell’essere e Lukács, che andrebbero però rinfrescate, non foss’altro che per rimarcare che la reificazione, amputata della sua determinazione di merce, diventa una edulcorata protesta contro l’aggressione che l’essere subirebbe da un Gestell, la cui generica identificazione con la tecnica e la scienza non lo rende meno fuorviante ai fini di una corretta analisi dell’alienazione dell’essere sociale. E un altro che si interrogò sulla natura e il compito della filosofia e dei filosofi fu Antonio Gramsci, che casualmente, e per ben più tragiche circostanze, condivide con Heidegger la modalità di scrittura, i quaderni, ma il cui percorso è esattamente l’opposto di Heidegger. Tanto Heidegger, infatti, tiene alla fissità dell’essenza, tanto Gramsci è proteso al suo divenire: “tutto si muove”, poiché l’essenza si preserva se può slanciarsi nel divenire, che non è l’impulso meccanico di un esserismo verbalistico, ma una pratica etico-politica intesa come “tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà”. E tanto Heidegger oppone alla fatica morale della cultura e della formazione culturale il disprezzo dell’autentico asserragliato nella cerchia degli eletti, tanto Gramsci fa della filosofia un compito di tutti, perché tutti sono dotati di quella cognizione il cui vertice normativo sta nella creazione permanente. Non meraviglia perciò che Heidegger e Gramsci mettano capo in teorie politiche ugualmente opposte: l’uno in una metapolitica etnica in cui il popolo tedesco è destinato dal suo “radicamento” alla missione mondiale di restaurare l’essenza dell’“esserci”; l’altro nell’egemonia, in cui il “popolo-nazione” supera il particolarismo etnico e culturale, e si inscrive nello sviluppo della cognizione universale.

 

3. L’approdo völkisch di Heidegger ci consente di tornare al paradosso di un filosofo che, partendo dai Greci, dà fuori una cabala antisemita. Michael Fagenblat, docente al Shalem College di Gerusalemme, ha osservato che Heidegger è il filosofo che, nonostante il suo antisemitismo, offre il miglior sostegno per un‘articolazione filosofica della teologia ebraica, in particolare delle “teologie del sionismo” sorte intorno alla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso4. Lo “scandalo” dell’antisemitismo di Heidegger, continua Fagenblat, basato sulla sua visione dello sradicamento metafisico dell‘Ebraismo mondiale, non deve indurre a facili indignazioni, ma deve spingere ad un confronto con «l‘abisso interno al pensiero ebraico»5. E alludendo all’affermazione con cui Heidegger, con l’usuale modestia, giustificò il suo coinvolgimento nel nazismo, ovvero “Grandi pensieri, grandi errori”, Fagenblat conclude: «il radicamento della teologia ebraica in una terra santa è il “grande pensiero” in cui noi ebrei vaghiamo oggi»6. Come si vede, qui siamo ben oltre il dibattito erudito sull’antisemitismo metafisico di Heidegger. Infatti, se la teologia ebraica, specie nelle sue più recenti manifestazioni sionistiche, è un “grande pensiero”, allora non si ha torto di pensare che siano in corso “grandi errori”. Beninteso, nella “terra santa” non è in corso nulla di comparabile all’Olocausto, e sicuramente Fagenblat sopravvaluta il ”grande pensiero“ tanto di Heidegger, quanto della teologia ebraica. Ma la sua tortuosa ammissione autorizza a pensare che l’esserismo, o meglio l’essenzismo, tanto nella versione heideggeriana, quanto in quella della teologia tardo-sionista, sia una sorta di ideologia permanente, a disposizione di chi, in nome della purezza di un mitologico inizio, intende imporre nel presente il suo dominio assoluto. E in questo complesso ideologico, forse che le “teologie del sionismo” non si rispecchiano paradossalmente nelle riesumazioni di altrettanti mitologici califfati, in cui restaurare con il jihad la purezza della sharia originaria? Chi si preoccupa, allora, che si possa prendere congedo da Heidegger, ritenendo che ormai non abbia più nulla da dire7, si tranquillizzi. Heidegger è quanto mai attuale, è anzi l’ideologo degli “abissi” contemporanei. Un’attualità sinistra, però, che richiede una presa di distanza per troppo tempo rimandata.

 

4. Fuori sacco, vorrei far notare che la pur brava traduttrice dei Quaderni neri incorre in una imprecisione traducendo völkisch con nazionalistico. Con tale termine, infatti, si perde la fondamentale connotazione etnica di völkisch, senza considerare che nazionalistico, nasce in Herder con una connotazione negativa che l’italiano mantiene. Si sarebbe potuto tradurre con nazional-popolare ma, alla luce di quanto abbiamo visto circa la puntuale contrapposizione tra Gramsci e Heidegger, sarebbe stato provocatorio, poiché avrebbe volto in positivo un termine che, proprio a causa del suo etnicismo, gli eredi della Rivoluzione francese, nella cui temperie il termine nazional-popolare è coniato, giudicano a ragione come regressivo e reazionario. Ma qui ciò che importa è rendere in italiano il punto di vista di Heidegger, per il quale völkisch è una qualificazione positiva dell’“esserci”. Traducendo con nazional-popolare, il lettore però avrebbe sempre dovuto tenere presente il fondo etnico da cui Heidegger muove. Sicché una soluzione più adeguata sarebbe stata etnico-popolare, che in italiano però non ha la scioltezza di nazional-popolare, e forse allora la soluzione più giusta sarebbe stata di lasciare il termine nell’originale tedesco e mettere tra parentesi il significato italiano di etnico-popolare8.

  1. M. Heidegger, Quaderni neri. 1931/1938, (2014), trad. it. di Alessandra Iadicicco, Milano, Bompiani, 2015. []
  2. F. Aqueci, Modelli della comunicazione non-dialogica: Pareto e Heidegger, “Le Forme e la Storia”, n.s. II (1990), pp. 335-336, ora in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 15-33. []
  3. G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano, Adelphi, 1998. []
  4. M. Fagenblat, Quello che più mi spaventa. L‘antisemitismo di Heidegger e il ritorno a Sion, “Kasparhauser”, rivista on line di cultura filosofica, anno 4, numero 12, 2015, pp. 40-71, pp. 67 e 70. []
  5. Ivi, p. 71. []
  6. Ibidem. []
  7. G. Vattimo, Non basta un Quaderno nero per liquidare Heidegger, “Il Fatto Quotidiano”, 12 dicembe 2015, p. 22. []
  8. Ringrazio Nicolao Merker, dalle cui osservazioni su questo punto ho tratto utili chiarimenti. []

Lo sciopero dei Quaderni. Sul libro di Fabre su Gramsci

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Da qualche decennio, la storiografia rimuginatrice, appuntandosi su qualche episodio controverso, dipingeva un quadro di tradimenti inconfessabili a spese di un Gramsci impegnato a scrivere für ewig i suoi Quaderni, sottoposti poi a tagli e mutilazioni che ne avrebbero stravolto il senso. Fortunatamente, la ricostruzione di Giorgio Fabre dei tentativi di liberazione di Gramsci1 si stacca da questa rappresentazione ormai frusta e, sia con indagini nuove, sia utilizzando in modo nuovo elementi già noti, ne dipinge un’altra dai colori inconsueti. Certo, per un’opera di storia, molti sono i punti cui solo si allude o si accenna di passata, rifugiandosi nella comoda formula che poco e confusamente si sa, e se la storiografia rimuginatrice tedia, quella allusiva inquieta, ma nel complesso la ricostruzione di Fabre tratteggia oggettivamente il dipanarsi della vicenda, nella quale il prigioniero, benché sempre promotore e protagonista delle trattative, appare come schiacciato dalla trama d’insieme, le cui forze e personaggi si possono sinteticamente così indicare:

1) l’oggettiva e in qualche caso soggettiva ostilità degli “antigramsciani” del piccolo e debole Pcd’I, per i quali Gramsci è solo uno strumento politico da utlizzare nelle campagne internazionali per la liberazione dei prigionieri politici, alle quali non ci si può e non ci si deve sottrarre, pena il discredito politico;

2) il comportamento “mediatorio” di Palmiro Togliatti, stretto tra l’antico legame di stima e d’amicizia per Gramsci e la ragion di partito, che è anche ragione di vita, per le quali non ostacola e a partire da un certo momento anche promuove le mobilitazioni internazionali pro prigionieri tanto temute da Gramsci per i loro effetti dirompenti sulle trattative da lui intraprese;

3) l’atteggiamento imprudente delle sorelle Schucht che spesso diffondono incautamente notizie riservate sulle trattative, contribuendo così a creare “disastri”, giusto il termine di Sraffa, a sua volta responsabile almeno in parte di qualcuno di essi;

4) la reazione di Gramsci a questo insieme oggettivo e soggettivo di nequizie, che si concretizza in ciò che si potrebbe chiamare “lo sciopero dei Quaderni”, quando, giudicando che il partito lo ha a tutti gli effetti “scaricato”, ritiene che non ha più senso quel suo lavoro di scrittura, portato avanti per la vita e l’educazione del partito e del “proletariato”;

5) la sostanziale leatà dei sovietici, leggi Stalin, i quali sono gli unici che, tanto nel 1927-28 quanto nel 1933-34, assecondando propositi di Gramsci, pongono in essere tentativi ad altissimo livello, partitico, statuale e diplomatico, per la sua liberazione ed espatrio in Russia;

6) il comportamento freddamente strumentale di Mussolini, che usando tutti gli organi dello Stato, dalla diplomazia alla polizia ai servizi segreti, anticipa e prevede le mosse di Gramsci, il quale tuttavia, consapevole di ciò, fa in modo che quel che ottiene appaia come concessione del carceriere;

7) infine, l’atteggiamento altrettanto strumentale della Chiesa cattolica, per la quale Gramsci è solo una pedina da giocare in trattative “maggiori”, il cui esito negativo per altro è segnato da una pregiudiziale chiusura verso i “bolscevichi”.

Come si vede, emerge chiaramente da questa ricostruzione che i bolscevichi, i sovietici, Stalin in persona, non esitano a spendersi per Gramsci, un leader che da sempre giudicano ideologicamente e politicamente affidabile, anche nei momenti controversi, come ad esempio nel 1926, quando tramite l’ambasciatore a Roma, Gramsci anticipa riservatamente a Stalin il significato non trotzkista del suo richiamo all’unità del partito bolscevico, contenuto nella famosa lettera a Togliatti a Mosca (pp. 202-3). Certo, i sovietici vanno per la loro strada, e non sempre sono amichevoli. All’epoca delle purghe, tra la fine del 1936 e l’inizio del 1937, con l’NKVD premono su Gramsci per fargli dire tutto ciò che sa sui trotzkisti italiani, che avevano cercato di appropriarsi della sua figura, ma Gramsci li respinge irridendoli (p. 390 sgg.). L’immagine, allora, che viene fuori è quella di un Gramsci “gramsciano”, impossibile da ridurre a qualcuna delle fazioni in lotta, che porta avanti la sua ricerca ideologica sino a quando vede spazi politici di manovra. Ma quando, a suo giudizio, l’orizzonte si chiude, e non certo per colpa dei sovietici, la sua risposta non è la conversione, o l’abiura, magari consegnata a delle note segrete, bensì lo “sciopero dei Quaderni”, un silenzio eloquente rivolto al suo mondo di riferimento: “gli operai comprenderanno perché Gramsci non lavora”2. Mussolini, invece, le cui responsabilità sono state banalizzate dal polverone revisionistico dell’ultimo quarantennio, appare come il suo vero ed unico carceriere, spalleggiato da una Chiesa cattolica chiusa in una politica di duro, anche se sterile, realismo. Ma questo del rapporto di Gramsci con la Chiesa di Roma, e in generale con il cattolicesimo, è un punto della ricostruzione di Fabre che va discusso, così come la concezione che Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader e, in generale, del metodo di lotta politica da lui praticato. Ma andiamo con ordine.

Religioni. Fabre giudica lunare, non chiara e vagamente saccente (p. 305 e p. 307) la fiducia di Gramsci a lungo riposta nel Vaticano per ottenere la sua liberazione con una trattativa tra l’URSS e la Santa Sede. In generale, poi, il suo rapporto con la Chiesa gli appare dettato da una concezione “religiosa” della politica e dello Stato sovietico, concepito come uno Stato-Religione (p. 308). L’identificazione della religione con l’ideologia, morta o viva che sia, è un abuso concettuale di questi tristi tempi. Sarebbe bene invece tenere conto dell’analisi di Gramsci nei Qauderni del Concordato intervenuto tra Chiesa e Stato ad opera del fascismo3. In quelle note appare chiaro che Gramsci vede la Chiesa cattolica come una monarchia teocratica cosmopolita, e non è inverosimile ipotizzare che la sua insistenza sulla mediazione vaticana discenda proprio dalla considerazione della Chiesa quale potenza statale “tolemaica”, giusto per usare una categoria gramsciana, alla quale egli si oppone in quanto membro eminente di un esercito internazionale in lotta per la modernità “copernicana”. Dunque, come riconosce lo stesso Fabre, uno scambio tra Gramsci e un qualche vescovo cattolico detenuto in URSS sarebbe stato un logico scambio di prigionieri di pari rango tra due potenze politico-ideologiche contrapposte (p. 142). In tutto ciò ci può anche essere della presunzione ideologica, ma bisogna pur notare che, come ricostruisce lo stesso Fabre, è la Chiesa a rispondere per prima con una chiusura ideologica pregiudiziale verso il “mondo nuovo” dei bolscevichi, con le disastrose missioni in URSS del gesuita d’Herbigny e la negativa influenza dei suoi rapporti su Papa Ratti (pp. 89-94). Una chiusura, si potrebbe dire, non molto diversa da quella che, ancora solo a livello dello strato intellettuale, essa qualche secolo prima aveva riservato alla scienza galileiana, e che ora, sul piano della “politica di massa”, secondo l’appropriato termine di un recente saggio4, si traduce in una sleale politica di decisioni segrete e finte trattative. Quello che sembra, dunque, un lunatismo ideologico di Gramsci, è semmai un errore di calcolo politico, poiché egli crede e continuerà a credere a lungo di trovarsi di fronte ad un avversario leale, se non sul piano della dottrina, almeno su quello politico-diplomatico, mentre invece la Chiesa si rivelerà un organismo segnato, come apparirà evidente almeno sino al papato giovanneo, da un aggressivo risentimento verso chi si fa interprete delle novità del corso storico. Le quali però non sono “negazioni” che si convertono automaticamente in “ricostruzioni”. Riferendosi ad un articolo del 1922 apparso su l’Ordine Nuovo5, Fabre nota che «Gramsci aveva simpatia per un eventuale “unionismo” in Russia perché pensava che il cattolicesmo, dinamico e moderno, sarebbe stato più utile all’URSS della religione ortodossa» (p. 305). Per la verità, in quell’articolo di tenore informativo, non c’è traccia di tale auspicio. Ma è indubbio che un certo modernismo “produttivistico”, che Gramsci condivide con il partito bolscevico, e che applicato all’Occidente si esprimerà nelle ambivalenti note su americanismo e fordismo, costituisce il punto critico della sua concezione. Senza attendere i fallimenti “copernicani” e le odierne risorgenze “tolemaiche”, già Sorel aveva intravisto il perdurare della vasta “cité cristiana” e la debolezza della “scissione” socialista, rispetto a quella antica che il cristianesimo operò nei confronti del paganesimo.6 Nel frattempo, inoltre, si è imposta la “scissione” della modernità “produttivistica”, che ha assorbito in un ciclo di “rivoluzione passiva” ancora in corso la “ricostruzione” cui sembravano destinati i dominati sociologicamente arroccati nelle fabbriche. Qui la “questione vaticana”, che oggi è divenuta “questione religiosa” tout court, diventa “questione territoriale”. C’è da chiedersi se l’alleanza tra operai e contadini, proposta da Gramsci in sostituzione del blocco agrario-industriale, non avrebbe dovuto mettere in discussione in primo luogo il “produttivismo” del blocco nordista. È un problema che, mutati i dati sociologici e geografici, oggi si pone a livello mondiale, dove l’“innaturalezza” del “produttivismo” richiede di essere contrastata da una “logica naturale” della modernità.

Capo. Ma veniamo alla concezione che, secondo Fabre, Gramsci avrebbe del suo ruolo di leader. A più riprese, Fabre avanza delle considerazioni sull’uso del termine “capo” nel lessico dell’Internazionale comunista, del PCUS e del Pcd’I, il cui succo è che mentre in quest’ultimo, anche da parte di Gramsci, si indulgeva all’uso di tale termine, con il quale ci si riferiva al leader che, in empatia con gli operai, è capace di esprimere le aspirazioni di tutta la classe, nel Comintern e nel partito sovietico, dove uno dei capi di imputazione a Trotskj era stato quello di avere creato il “culto della personalità”, si preferiva usare, anche dopo la vittoria di Stalin, il termine di dirigente, a sottolineare come fosse il collettivo a guidare il partito7. È interessante notare come i sovietici, in particolare gli stalinisti, e comunque gli ambienti del comunismo internazionale, demonizzati da tutta una storiografia “anti-totalitaria”, appaiano molto più attenti del partito italiano nel respingere una visione verticistica e, in qualche misura, irrazionalistica della leadership. Tuttavia, non si può certo dire, come sembra suggerire Fabre, che Gramsci, con il suo saggio, Capo, del 1924, e con le sparse note carcerarie sull’argomento, sia particolarmente interessato a tale concezione. In realtà, il suo vero interesse è per la questione più generale del rapporto tra governanti e governati. In proposito, senza considerare certe chiare formulazioni dei Quaderni,8 già la Questione meridionale, che soprattutto nella prima parte, a torto sempre trascurata, è anche un resoconto della sua pratica politica, va nel senso dell’assorbimento nelle masse della funzione dirigente delle élites, attraverso “lotte cognitive” che modifichino “molecolarmente” i rapporti di forza e la “mente collettiva”9. Cosa, invece, che non si può dire del partito che a Gramsci ufficialmente si richiamava, il PCI, dove, mondato dalle punte irrazionalistiche, il verticismo del leader o del “gruppo dirigente” è rimasto il tratto distintivo di un organismo che, dall’alto, coopta nello Stato parti della società sin allora rimaste escluse10. L’ideale gramsciano della fine della divisione tra governanti e governati sfuma così in un élitismo “gentile” che, nell’odierno disfacimento ideologico, rinuncia persino a formularsi11.

Segreti. Veniamo così all’ultimo punto su cui la ricostruzione di Fabre consente di avanzare qualche considerazione, cioè il metodo della politica praticato da Gramsci. Fabre osserva che Gramsci, probabilmente al corrente di dettagli segreti attinenti a trattative intercorse già negli anni Venti tra Italia e URSS, trasmette in generale l’impressione di essere interessato alle procedure segrete, da lui considerate come una parte del modo di fare politica (p. 135). E a proposito del fatto che Gramsci, come abbiamo visto, anticipi a Stalin, tramite l’ambasciatore sovietico a Roma, contenuto e significato della lettera dell’ottobre 1926 a Togliatti a Mosca, Fabre nota ancora che «c’erano dei fili segreti che lo legavano a Mosca e, parrebbe, a Stalin che, nel partito italiano, forse solo lui conosceva. Sono legami che possono spiegare molto meglio proprio l’atteggiamento benevolo che le autorità sovietiche continuarono sempre ad avere verso di lui» (p. 203). Alla luce di queste osservazioni, la contrapposizione che Gramsci in quella lettera instaura tra “pedagogia scolastica” e “pedagogia rivoluzionaria”, ovvero tra conformismo e reciprocità12, appare non come l’appello di un profeta disarmato, se non addirittura sprovveduto, ma come una solida costruzione politica a più livelli, riservata e pubblica, che trascende il realismo dei rapporti di forza tipico della lotta tra fazioni, cui invece si attiene Togliatti, suscitando in Gramsci la “penosissima impressione” di cui gli scrive nella lettera di risposta13. Tale “impressione” è perciò anche il disappunto di chi vede compromessa la propria iniziativa dall’intrusione di un metodo di lotta politica “inferiore”, in qualche misura “antiquato”. Su questo terreno del “metodo” della politica, questo contrasto non è l’unico attestato tra Gramsci e Togliatti. Come è stato mostrato, in quel vero e proprio confronto politico che è il dibattito intellettuale su Croce, mediato epistolarmente dal carcere da Tanja e Sraffa, all’interesse di Gramsci per la “discussione nel merito” Togliatti opporrà l’esigenza formale di “conoscere le tesi”, per poter fissare gli “schieramenti” attorno alla “linea”14. Fabre osserva che Gramsci non sbagliava a considerare il livello segreto come una parte del modo di fare politica, poiché «all’epoca gli “scambi” condizionavano i rapporti tra gli Stati europei e in qualche modo facevano parte della loro politica estera» (p. 135). Ma sembra plausibile supporre che non c’è solo questo motivo contingente e personale alla base dell’interesse di Gramsci per il livello segreto o riservato della politica, ma anche l’intento di elevare gli aspetti “machiavellici” della politica all’altezza di un metodo che privilegia la “mobilità” dei contenuti rispetto alla fissità delle “posizioni”, e ciò proprio in vista di quell’assorbimento dell’élite nelle masse che è l’ideale normativo di un agire politico in lotta per un cambiamento di paradigma della mente collettiva. Fabre si meraviglia che nel periodo in cui fu redatta la Costituzione, il partito non fece mai riferimento alla parola d’ordine dell’Assemblea Costituente, lanciata da Gramsci negli anni Trenta (p. 445). Ma un tale richiamo avrebbe comportato di riaprire i contrasti di quegli anni, che come si vede furono nell’essenza contrasti di metodo politico. E d’altra parte, l’aver glissato su di essi comportò l’instaurarsi di una “doppia coscienza”, quella “culturale” e quella “pratica”, da cui derivò un progressivo riassorbimento di quella ardita ricerca nel vecchio metodo élitistico, i cui effetti arrivano sino all’odierna afasia.

In conclusione, la ricostruzione di Fabre offre una utile base storiografica per evidenziare due caratteristiche ideologiche di Gramsci, e cioè il suo “galileismo etico-politco” al quale, dopo la “svolta rivoluzionaria”, si mantenne fedele sino alla fine; il suo “socratismo” politico, inteso non come rifiuto intellettualistico dei rapporti di forza, ma come pratica politica in cui anche gli aspetti “machiavellici” vengono riorganizzati in funzione di una trasformazione “copernicana” della cognizione sociale. Il silenzio che interrompe la redazione dei Quaderni è il segno degli ostacoli soggettivi e oggettivi che incontra questo impianto politico-ideologico, la cui attualità, pur nelle mutate condizioni odierne, è però evidente.

  1. G. Fabre, Lo scambio. Come Gramsci non fu liberato, Palermo, Sellerio, 2015. Salvo in qualche caso, i riferimenti di pagina a quest’opera sono dati direttamente nel testo. []
  2. Rapporto Blagoeva, in appendice a G. Fabre, Lo scambio, cit., p. 510. Cfr, anche p. 371 e p. 389 []
  3. Q. 16, § 11, pp. 1866-1874. []
  4. M. Filippini, Una politica di massa. Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Roma, Carocci, 2015. []
  5. Il Papa e la chiesa scismatica, “l’Ordine Nuovo”, 23 gennaio 1922, poi in A. Gramsci, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo 1921-1922, Torino, Einaudi, 1972, pp. 450-452. []
  6. Per il concetto di cité in Sorel, pressoché misconosciuto, e in generale per un’interpretazione di Sorel come teorico dei fondamenti etici della cognizione sociale, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, La mente sociale in George Sorel, in S. Gensini, R. Petrilli, L. Punzo, (a cura di), «Il contesto è il filo d’Arianna». Studi in onore di Nicolao Merker, Pisa. ETS, 2010, pp. 177-200. []
  7. G. Fabre, Lo scambio, cit., pp. 44-48, 142-43, 150, 173, 218-19, 417, 454. []
  8. «Ma in realtà solo il gruppo sociale che pone la fine dello Stato e di se stesso come fine da raggiungere, può creare uno Stato etico, tendente a porre fine alle divisioni interne di dominati ecc. e a creare un organismo sociale unitario tecnico-morale» (Q. 8, § 179, p. 1050). Cfr. anche Q. 10, § 41, p. 1320, Q. 12, § 2, p. 1547, Q. 15, § 4, p. 1752. []
  9. A questo proposito, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Nord e Sud, Italia e America. La questione meridionale in due grandi nazioni industriali, “Paradigmi”, 3/2014, pp. 177-198. La Questione meridionale è forse uno dei primi scritti di Gramsci in cui appare il termine “molecolare”. []
  10. Questa concezione si ritrova ancora nelle parole di un supersttite del vecchio PCI, fra gli autori dello Statuto del nuovo PD, Alfredo Reichlin, che, alla domanda quale sia la sua idea di partito, risponde: «è una parte di società che si organizza in nome di una visione della realtà e per consentire a pezzi del Paese di entrare in una dimensione statale» (A. Ferrucci, Reichlin: “Lo so, alla fine noi di sinistra siamo stati sconfitti”, “Il Fatto Quotidiano”, 2 novembre 2015, p. 5). []
  11. Un altro più giovane supersstite del PCI, Antonio Bassolino, interrogandosi sulla natura del nuovo PD, in cui ora è impegnato a sostenere “l’uomo solo al comando” di turno, scrive su Fb: «“Che cos’è un partito?”, mi chiede il nipotino. “Lasciamo stare, oggi è difficile spiegarlo e capirlo” gli rispondo» (“la Repubblica”, 14 novembre 2015, p. 17). []
  12. Per questa interpretazione, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 149-150. []
  13. A. Gramsci, Lettere 1908-1926, Torino, Einaudi, 1992, p. 471. []
  14. A. Rossi, Gramsci in carcere, Napoli, Guida,2014, p. 262. []