Grillo

Populismo 2

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In risposta a dei precedenti interventi di McCormick e di Del Savio e Mameli sul populismo, Nadia Urbinati rileva l’ambiguità del termine ed esprime tutta la sua apprensione per il pericolo che il populismo fa correre alla democrazia rappresentativa. Che il termine sia ambiguo, c’è poco da fare, lo si usa, e allora bisogna pur vedere che significa, magari osservando cosa fanno coloro che imputano il populismo e coloro che sono accusati di populismo. Preoccuparsi poi per la democrazia rappresentativa è un bene. In mancanza di meglio, è bene tenersela stretta. Ma se la democrazia rappresentativa deve servire a far comandare i pescecani della Morgan Stanley, per i quali le Costituzioni antifasciste dei Paesi dell’Europa mediterranea sono un ostacolo alla completa glorificazione del capitale, beh, questi antipopulisti sono peggio della toppa sul buco. Il problema vero è come determinare un effettivo cambio di potere nella società, ovvero il capitale che non comandi più sul lavoro. Occupy Wall Street ci ha provato, ma è stata sfiancata a manganellate. Il populismo ci può riuscire? Sta nelle sue finalità? Vediamo. Grillo vuole dare addosso alle banche, per far comandare la piccola e media impresa. La piccola e media impresa fa parte dei subalterni o no? Culturalmente, forse sì, spesso sono degli ex operai divenuti padroncini, ma la loro aspirazione è a staccarsi da quella condizione per andare a comandare capitalisticamente. Quindi, Grillo e soprattutto Casaleggio, al quale danno fastidio coloro che sono «ideologicamente connotati», ciò che vogliono è una ridistribuzione del potere dentro l’attuale assetto sociale. Per ottenere questo, a loro basta e avanza un rivolgimento politico, cioè l’azzeramento dell’attuale classe politica e la sostituzione con un’altra più sensibile agli interessi di un segmento meno “nobile”, meno “titolato” del capitale. Formalmente, questo lo intendono ottenere con un po’ meno di democrazia rappresentativa e con un po’ più di democrazia cosiddetta “diretta”, per la quale la rete, con i suoi tempi e modi spontaneamente autoritari, si presta meravigliosamente. A parte il velleitarismo di questo programma, la situazione non cambierà non solo per la vecchia classe operaia residuale, non solo per i nuovi lavoratori del precariato più o meno cognitivo, ma soprattutto per la nuova e sempre più estesa massa di giovani donne e giovani uomini descolarizzati e disoccupati. Per loro ci sarà qualche mancia, come il cosidetto “reddito di cittadinanza”, magari realizzato licenziando un po’ di statali, vil razza dannata. Una prospettiva di indigenza per tutti. Naturalmente, la miseria del populismo non cade dal cielo. È l’espressione di un momento storico, in cui i rapporti di forza tra capitale e lavoro sono completamente sbilanciati a favore del primo. I subalterni sono perciò un esercito in sfacelo, e non meraviglia che abili capitani di ventura ne ottengano il consenso elettorale da usare per le loro lotte tese a ridistribuire gli interessi dentro l’attuale configurazione di potere. La colpa più grave del populismo non è perciò di attentare alla democrazia rappresentativa, ma di perpetuare la subalternità dei subalterni. Questo è un danno non solo per i subalterni, ma per l’intera società, perché dissipa energie umane che potrebbero rinnovare la condizione di tutti, anche dei pescecani promossi dalla Morgan Stanley, che vanno avanti sniffando cocaina e stuprando bambini delle periferie del mondo.

Populismo

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Nelle rare ma significative interviste rilasciate da Roberto Casaleggio, alla domanda se mai il M5S si alleerà con quelli della lista Tsipras, come pure auspica che accada una delle sue maggiori esponenti, la giornalista Barbara Spinelli, il capo cinquestellato risponde sempre con la formula fissa «sono troppo lontani da noi, perché ideologicamente connotati». Purtroppo, a disdoro della classe giornalistica, nessun intervistatore ha posto la domanda immediatamente successiva, ovvero «che cosa intende per “ideologicamente connotati”?». Si deve perciò dedurre da altre sue affermazioni il senso di questa fatwa, in particolare dalla particolare attenzione che riserva alla piccola e media impresa, per la quale ha un programma dettagliato di privilegi e favori da realizzare spostando una quota consistente di spesa e di carico fiscale. La scelta di rappresentare gli interessi di questo segmento della classe imprenditoriale, il privilegiamento al limite dell’infatuazione adolescenziale per le nuove tecnologie produttive ad alta intensità cognitiva, la predilezione per i temi della “legalità”, dicono molto chiaramente che Grillo e Casaleggio non intendono assolutamente mettere in discussione il comando del capitale sul lavoro, e che intendono invece usare le classi subalterne come massa di manovra per un rivolgimento politico, che scalzi l’attuale élite politica governante a favora di una nuova che ridistribuisca le opportunità di guadagno. In ciò, essi rappresentano sicuramente l’essenza del populismo, se con questo termine si intende l’uso delle classi subalterne come massa di manovra da parte di capi che mirano ad un rivolgimento politico, senza mettere in discussione la struttura economica della società. Non solo le interviste di Casaleggio, ma anche quelle dei vari Le Pen, Orbán, Farage, ecc. ecc., sono in proposito molto chiare. Del resto, non è un caso che l’élite al governo tacci polemicamente di “populismo” questi movimenti. È un’onesta ammissione del timore di vedersi scalzati dal potere, che rivestono con l’accusa di peccato contro la religione democratica, insinuando il sospetto che vogliano instaurare delle dittature. Gli intellettuali partecipano a queste battaglie, avanzando le loro definizioni di populismo, che restano tutte dentro la religione democratica, vuoi che ammettano che esiste tale pericolo dittatoriale, vuoi che invece auspichino che la democrazia rappresentativa si colori un po’ di demcrazia diretta. Tutto perciò si svolge nel cielo della politica, una élite contro l’altra, senza che ci si debbe risvegliare dal culto dogmatico che ogni giorno si celebra con la religione della merce.

I nuovi eletti

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Secondo il sondaggista Roberto Weber, intervistato dal “Fatto Quotidiano” di ieri, Grillo presiede (sic!), cioè presidia, l’area dell’insofferenza, che rappresenta un terzo degli italiani, mentre Renzi quella della conservazione e dell’investimento, che è la parte maggioritaria. Come possono stare assieme la conservazione e l’investimento, gli “aggregati persistenti” e l’“istinto delle combinazioni”, i “redditieri” e gli “speculatori”? Qui, un Pareto redivivo avrebbe di che esercitarsi, contestando magari l’impossibile congiunzione. Ma, si sa, Pareto non era un dialettico, mentre il sondaggista ci tiene a suggeririci l’idea di una composizione degli opposti. Ci sarà una sintesi? Renzi ce la sta mettendo tutta. I “conservatori” li ha presi per stanchezza, agli “innovatori” liscia il pelo con opere ed omissioni. La direzione è una terra di nessuno dove, chi ci arriverà, potrà proclamarsi eletto, e non si volterà più indietro, a guardare il disastro.

Grillo, la Cina e Internet

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In un’intervista a Die Zeit, uscita ieri anche su la Repubblica, il futuro Capo della Terza repubblica italiana nata dalla Ret-istenza,dice: «Quello che fa paura a tanti è l’effetto che avrebbe sull’Europa e il resto del mondo il nostro modello di governo. Ho parlato con l’ambasciatore giapponese, francese, e addirittura con l’ambasciatore cinese. È venuto a trovarmi due volte: la prima due ore, la seconda tre. Dalle nostre conversazioni ha tratto questo sunto: in Italia sta succedendo qualcosa di insolito, un movimento dal basso, senza soldi, usa la rete e stravolge la politica italiana e forse anche quella internazionale. Questo movimento preoccupa moltissimo noi cinesi perché potrebbe destabilizzare anche il nostro sistema. Questo ha scritto. Ed è logico che sia preoccupato». In effetti, i cinesi non si stannno limitando a studiare, ma stanno mettendo in pratica vari accorgimenti per evitare che un Grillo con gli occhi a mandorla si materializzi dalle loro parti. Sempre ieri, su il manifesto, in un’oggettiva cronaca da Pechino di Simone Pieranni, si poteva leggere che, secondo le nuove norme, l’autore di un post ritenuto una diceria falsa, che viene visto da 5mila utenti internet o ripubblicato più di 500 volte, rischia fino a tre anni di carcere. Ci si aspetterebbe la rivolta. Invece, Charles Xue, paladino del vessato popolo cinese e star di Internet con 12 milioni di followers, arrestato con un’accusa – guarda un po’ – legata alla prostituzione, è apparso in tv, ammanettato e pronto a confessare i propri errori: «mi sono sentito come un imperatore», ha ammesso. Pan Shiyi, altra webstar cinese, noto per le sue campagne contro l’inquinamento, anche se è uno dei più importanti e ricchi palazzinari cinesi, è apparso impacciato e nervoso, anch’egli in tv, per celebrare le nuove norme contro le «false informazioni» on line. Che s’ha da fa’, pe’ campa’, qualcuno potrebbe dire. Ma Mo Yan, premio Nobel della letteratura, non è affatto scandalizzato da questo giro di vite, e ritiene anzi che la «censura ha stimolato gli scrittori». Va be’, l’opportunismo di MoYan è risaputo. Ma, conclude il nostro onesto cronista, «il suo argomento è comune in Cina, perché non sono pochi gli artisti e gli intellettuali che leggono le misure repressive come uno stimolo alla creatività». E adesso, ce la immaginiamo la faccia di Grillo che, mogio mogio, ammette in tv di essersi sentito un imperatore? Fantascienza. Perché, piaccia o meno, il punto è questo, che in Cina il controllo politico di Internet suscita una sua quota di consenso. Da un lato, non c’è quella “dittatura della maggioranza”, come la chiama Carlo Freccero, ovvero la “dittatura” della cosiddetta “società civile”, che in Italia ha portato prima a Berlusconi, con la tv, e poi, sebbene ancora non pienamente, a Grillo, con la rete; dall’altro, il potere non è così screditato e impotente da limitarsi alle vacue sfide à la Fassino, «Grillo si faccia un partito, e poi vediamo quanti voti prende». La questione bisogna vederla alla luce (gramsciana) della reciprocità tra governanti e governati. In Cina è minima, c’è molto paternalismo, ma il padre-partito non è un vecchio trombone da mandare affanculo nelle manifestazioni convocate alla bisogna da Beppe Grillo. In Italia, è anch’essa minima, ma la classe politica è completamente smidollata, perché da almeno vent’anni, dal punto di vista formale, ma da almeno trenta, dal punto di vista culturale, ha consentito di essere infiltrata da una “società civile” che, di fatto, esercita il potere, ma per scopi del tutto privati o comunque particolari. È vero, con i suoi proclami sulla democrazia diretta, la consutazione permanente della base, la mobilitazione in rete del popolo, l’incorruttibilità, e quant’altro, Grillo si atteggia a restauratore del governo di tutti per tutti. Insomma, sarebbe venuto in terra a reciprocità instaurare – finalmente! Ma questo miracolo che, con il più vieto machiavellismo, si dovrebbe compiere tenendosi il porcellum per abolirlo un minuto dopo, ha il naso lungo quanto i capelli di Casaleggio, un tenebroso Richelieu della Bovisa che, mentre manda flautati segnali a tutti quelli che contano dentro e fuori la Penisola, minaccia continuamente di andarsene se non si fa come dice lui. E non li vediamo alla tv, gli occhi sbarrati dei cittadini-onorevoli del Movimento 5 Stelle, atterriti dall’idea di essere profligati sul suo blog dal padre-padrone, qualora dovessero sbagliare a parlare anche di una sola sillaba? E, allora, siamo onesti, Internet in Italia non potrà dar luogo a nessuna reciprocità tra governanti e governati, ma sta solo conducendo, se solo lo si voglia vedere, ad un autoritarismo ancora più tetragono di quello berlusconiano, dove non ci sarà più neanche la distrazione del burlesque. Mentre in Cina, questo è il paradosso, ma la dialettica della vita se ne infischia dei paradossi, la forza dell’attuale classe politica, se da un lato nell’immediato reprime il libertarismo della rete, dietro cui, non dimentichiamolo, occhieggiano le forze orgogliosamente “capitalistiche” di Google, Facebook, Twitter e via smanettando, dall’altro, lascia intatte le possibilità che si arrivi, penando e soffrendo, certo, come sta penando e soffrendo Liu Xiaobo, ad una effettiva reciprocità.

Una tipica alchimia

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A proposito di Federico Aldovrandi, il giovane morto a Ferrara, il 25 settembre del 2005, sotto le ginocchia di poliziotti molto zelanti nel loro intento di immobilizzarlo, Antonia Sani, su “il manifesto” di oggi, scrive che quell’«azione ignominiosa» è da spiegarsi con «la mentalità di molta parte dei cittadini ferraresi, mentalità che porta automaticamente al rifiuto di ogni trasgressione. E alla maniera dura per reprimerle». Questa mentalità, non sarebbe il frutto di un fascismo perenne, ma sarebbe da ascriversi a «60 anni di amministrazioni comunali, provinciali, di sinistra (o, come in passato venivano definite, “social-comuniste”). Almeno due generazioni di ferraresi si sono formate sotto queste amministrazioni. Amministrazioni che hanno saputo coltivare nella popolazione un forte senso dell’obbedienza ai superiori e all’ordine tradizionale». La Sani poi ancora scrive: «Nell’estate del 1985 frequentavo la piscina comunale, nella quale si succedevano continui divieti proclamati al microfono; addirittura nella serata di ferragosto l’uso della piscina fu sospeso perché un ragazzo aveva toccato una ragazza nell’acqua, cosa proibita da un comunicato. È di questi giorni la risposta di un taxista al quale chiedevo di lasciarmi in un certo luogo della Stazione: “sì, se non mi fa fare qualcosa che non posso fare”». Mi sembra una puntualizzazione non da poco. Il fascismo è stato anche educazione alla legge e all’ordine, ma era soprattutto guerra di classe. L’autoritarismo degli anni della Repubblica, invece, senza distinzione tra una prima e una seconda, è il costume, anche nelle sue punte puritane, funzionale al consumo capitalistico, una società pacificata dal compromesso keynesiano, dove in ogni ceto, specie negli antichi strati subalterni, la trasgressione è occultamente sollecitata come aspirazione morale, ma spietatamente repressa quando si materializza in un qualche comportamento che, specie se proveniente dai subalterni, possa minacciare l’esistenza della norma autoritaria. Bisogna prendere atto che la “Costituzione più bella del mondo” ha coperto questo verminaio autoritario, che prima aveva le fattezze presentabili e per bene della DC e del PCI, e poi, nell’ora del degrado, ha vestito i panni truci e volgari del leghismo e del berlusconismo. Rispetto a ciò, Grillo è la vischiosità del vecchio impastata con l’urgenza del nuovo, un antiautoritarismo intransigente generato da un autoritarismo parossistico. Una tipica alchimia di una crescita di cui nessuno si è saputo fare carico.