Alla fine degli anni Venti, in un’Europa in cui aveva trionfato il fascismo e che avrebbe visto di lì a poco trionfare il nazismo, Gramsci si poneva la domanda su cosa può succedere alla “città”, se cresce non per la sua stessa forza genetica, ma per immigrazione: «potrà compiere la sua funzione dirigente o non sarà sommersa, con tutte le sue esperienze accumulate, dalla conigliera contadina?»1.
Una domanda simile ci si può porre oggi in un’Europa invecchiata, che si sente assalita dagli immigrati, dove trionfano i populismi, prima in Ungheria, poi in Austria, oggi in Italia, e chissà, domani in Germania. Una sinistra incapace del crudo realismo di Gramsci, e perciò ridotta al lumicino, fa finta di non vedere, ma fra cento anni ci sarà qualcuno in grado di leggere la poesia italiana, francese, tedesca o bulgara? In quali forme deve avvenire l’accoglienza, senza mettere in discussione la “funzione dirigente” della “città”, con tutte le sue esperienze accumulate?
Intanto, il paragone con l’Europa degli anni Trenta, che la domanda di Gramsci consente, chiarisce cos’è il populismo. È il fascismo che non pretende più di essere il tutto, ma si adatta ad essere una formula parlamentare. Il fascismo era e si proclamava irreversibile, tanto è vero che si contavano con cifre romane gli anni dell’era fascista. Il populismo è reversibile, e fa ridere chi, mettendo assieme l’accrocco di un bizzarro governo, proclama di stare facendo la storia. In realtà, basta un punto decimale nei sondaggi, e tutto il castello di carte viene giù. Questa volatilità dovrebbe essere una buona notizia per la sinistra, se non fosse appunto ridotta al lumicino.
Un punto di ripartenza potrebbe essere una riflessione seria su come ricostruire la “funzione dirigente” su cui si interrogava Gramsci. Se gli immigrati che arrivano restano una massa amorfa da buttare nella fornace del sottosuolo produttivo, questa “funzione dirigente” resta lettera morta, la “città europea” deperisce demograficamente e culturalmente, e in anche meno di cent’anni nessuno si interesserà più alla poesia italiana, francese, tedesca o bulgara. Se invece tra immigrati e nativi si stabilisce un “patto di cittadinanza”, l’Europa rinascerà non solo demograficamente, ma anche culturalmente e, come insegna la storia in cui i nativi hanno saputo salvaguardare la loro “funzione dirigente”, le liriche bulgare, ma anche francesi e di tutti gli altri popoli europei, arricchite di nuove tonalità e venature, avranno i loro appassionati lettori, il cui numero sarà pure cresciuto, poiché comprenderà immigrati che le leggerano e le comporrano con passione e perizia probabilmente maggiore dei nativi, spesso distratti o addiritura ignoranti della propria cultura.
È inutile quindi continuare ad arrovellarsi apocalitticamente con le cifre sui redditi presenti e futuri dei “sub-sahariani” confontati con quelli dei ricchi europei, e a sbirciare inquieti nelle loro culle piene a confronto di quelle vuote dei ricchi ma sterili europei2. Se i “sub-sahariani” hanno deciso che l’Europa è la loro meta, non basteranno certo delle giudiziose ma astratte politiche di aiuti «mirate rigorosamente a creare in loco lavoro per i giovani»3. È un rigore che per quei giovani non ha alcuna attrattiva. Può essere molto più attrattivo invece per loro quel “patto di cittadinanza” di cui dicevamo prima, che gli dia diritti e doveri.
Ma, ecco il punto, gli europei hanno una chiara coscienza di tali diritti e doveri? Sparare in testa ad un immigrato che fruga tra vecchie lamiere per costruirsi un tetto meno precario, dove passare le notti che intercorrono tra un giorno e l’altro di schiavitù salariale, quale coscienza di diritti e doveri rivela nei nativi? E quale coscienza di diritti e doveri rivela marginalizzare un “negro”, trasformandolo in spacciatore, stupratore ed omicida tutto da dimostrare, di una ragazza che, passando per una comunità di recupero a dir poco inaffidabile, non si sa come sia finita in quella situazione estrema, non senza prima essere stata adescata, con il rassicurante schermo della prostituzione occasionale, da un bravo nativo del luogo?
Il “patto di cittadinanza” allora non interroga solo l’immigrato, ma anzitutto il nativo. La “città europea” può esercitare la sua “funzione dirigente” se chiarisce a se stessa i diritti e i doveri che debbono valere poi per chi viene da fuori. Da questo punto di vista, più avanti sembrano i nuovi subalterni, nelle vesti di quegli immigrati che lottano a mani nude per migliorare le loro condizioni di lavoro, con un’energia e una conoscenza delle lotte passate che tanti subalterni nativi sembrano aver perduto. A dimostrazione che la “funzione dirigente” della “città europea” può essere paradossalmente meglio salvaguardata da una spontanea e rinnovata “coscienza di classe”, i cui portatori sono proprio quei nuovi subalterni che i nativi, assai poco propensi ad una riflessione sulle proprie debolezze e magagne, pretenderebbero di “dirigere”.