Israele

Bensoussan le spara grosse

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Nel giorno della morte di Henry Kissinger, costruttore di un mondo di pace attraverso guerre, intrighi e assassini infiniti (pace alla grande anima di Salvador Allende), è giusto prendere in considerazione le dichiarazioni che lo storico franco-marocchino di origine ebrea Georges Bensoussan ha rilasciato il 28 novembre scorso a Giulio Meotti, giornalista presso una delle più petulanti gazzette del coro mediatico filo-israeliano, ovvero “Il Foglio” fondato da Giuliano Ferrara, la spia che venne da Washington. Dopo un inizio in cui viene servito un frullato di grandguignol e di chiagni e fotti, Bensoussan arriva al dunque e rivela quanto segue:

“Gli ebrei sono accusati di essere intrusi, ‘colonialisti’. La realtà storica dice il contrario: assistiamo, nel XIX secolo, all’interno della minoranza ebraica continuamente presente su questa terra, a un movimento di rinascita nazionale ebraica. Un movimento che intende emanciparsi dal diritto ottomano (lo fece nel 1918) e soprattutto dalla dhimma, abolita per legge nel 1856, ma che di fatto persiste nelle mentalità. Liberarsi di questa secolare oppressione che rende gli ebrei (e i cristiani) cittadini di seconda classe è ciò che rende il sionismo, fin dalle sue origini, un movimento di emancipazione e una lotta anticolonialista contro una condizione dominata dall’islam. È questa lotta che, nata dall’interno della Palestina e alla quale si unisce il movimento sionista dall’esterno, intende rifondare uno stato-nazione nella terra dei nostri antenati”

Ora, nell’Impero ottomano la dhimma, che comportava una subordinazione al potere musulmano ma assicurava anche dei diritti, era una condizione giuridica che riguardava non solo gli ebrei ma molte altre minoranze etniche e religiose tra cui, appunto, i cristiani. Di qui l’ammiccamento di Bensoussan. Non risulta comunque che nessuna di tali minoranze abbia avviato un movimento teso a fondare uno stato-nazione nel territorio in cui vivevano da (presunti) oppressi. Non risulta nemmeno che sia mai esistito un movimento di emancipazione della minoranza ebraica autoctona in Palestina che abbia poi chiamato in soccorso, per così dire, il movimento sionista europeo, il cui fulcro era costituito da ebrei ashkenaziti, a differenza di quelli che vivevano in Palestina, che erano sefarditi ottomani e arabi ebrei. Nella multietnica e plurireligiosa realtà palestinese dell’epoca, gli ebrei ashkenaziti europei che cominciarono ad affluire alla fine del XIX secolo furono ben accetti, anzi furono ammirati per la tenacia e i progressi da loro prontamente conseguiti. La tensione invece si innescò quando cominciò a manifestarsi il progetto sionista di cui gli ebrei ashkenaziti erano portatori, ovvero la trasformazione della Palestina nella sede di uno Stato che potesse accogliere la rinata nazione ebraica. Insomma, il sionismo non portò alcun aiuto agli ebrei autoctoni ma, per la sua carica aggressiva, probabilmente peggiorò la loro condizione come quella, d’altronde, di tutte le altre minoranze, nonché della maggioranza araba musulmana ridotta allo stato di intrusa a casa propria. È veramente penoso che sull’onda di contingenti contrapposizioni politiche uno storico come Bensoussan si debba ridurre a sparare balle come un Marco Travaglio qualsiasi passato dai mattinali di procura alla storia del conflitto arabo-israeliano.

Purtroppo, nell’intervista in questione le balle sparate sono state numerose. Dopo avere invocato un’analisi culturale, antropologica e psicanalitica per venire a capo dell’intricata questione israelo-palestinese, e dopo avere reso omaggio alla modernità e all’Illuminismo, Bensoussan afferma:

“Sappiamo che il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme è oggi contestato. Ma allo stesso modo in cui possiamo, con la stessa sicurezza, assicurare che la terra è piatta e che il sole gira attorno al nostro pianeta. Queste sciocchezze ideologiche non impediscono che Gerusalemme venga nominata più di 600 volte nella Bibbia”.

Dunque, il legame speciale degli ebrei con Gerusalemme, cioè il preteso diritto di Israele di farne la propria capitale, è una verità scientifica al pari del giramento della terra attorno al sole. Per la verità, qui girano altre cose poiché è veramente contro ogni spirito della modernità, pur reiteratamente invocato, pretendere di fondare sulla Bibbia un diritto politico contemporaneo. Con quale faccia poi si può rimproverare ai musulmani di porre la sharia a base della loro attuale condotta morale e giuridica? Ma Bensoussan continua:

“Il principio della sovranità ebraica e quello della liberazione da uno status discriminatorio sembrano difficilmente accettabili in un mondo arabo-musulmano che, nonostante alcuni tentativi hanno mancato il movimento illuminista occidentale”.

Si pregano l’esimio Bensoussan e i gazzettieri del Foglio che gli reggono il moccolo di non immischiare il movimento illuminista occidentale con i deliri di potenza dello Stato israeliano nato da un’ideologia nazionalista come il sionismo, mortifero come tutte le ideologie nazionaliste. Il giornalista Meotti però non è ancora soddisfatto e rilancia: l’attacco del 7 ottobre è stato costellato da atti di barbarie. Bensoussan non aspetta altro:

“L’efferatezza di cui parli non è un’operazione militare, è una ‘caccia agli ebrei’ in una violenza che è implicitamente la risposta alla rivolta degli ebrei dominati contro la sua condizione di dhimmi, la risposta all’‘arroganza’ dal sottomesso di ieri che pretende di fondare uno stato-nazione in Palestina. È la sua ribellione che intendiamo far pagare all’ebreo con questo sfogo di crudeltà. Tuttavia, gli occidentali oggi sono incapaci di comprendere questa economia dell’odio, sognano da woke una società pacifica ed edonistica, dimenticando che la forza principale dei popoli, come diceva Raymond Aron, non risiede tanto nella ricerca dei propri interessi razionali quanto piuttosto nella ricerca del trionfo delle loro passioni arcaiche”.

Naturalmente, il memorabile detto di Raymond Aron è diretto contro gli arabi lanciati alla folle ricerca del trionfo delle loro arcaiche passioni. Quelle israeliane invece sono così moderne e illuminate che, come abbiamo visto, per dimostrare il diritto di dichiarare Gerusalemme capitale di Israele ci si rifà a un recentissimo instant book qual è la Bibbia. Ma godiamoci le conclusioni di Bensoussan che il Meotti riporta compuntamente in ginocchio e con le mani giunte:

“Il nazionalismo è capace di negoziare con la realtà anche a costo di maledirla perché è consapevole dei suoi limiti. Per esso la politica è un mezzo. Questa concezione si ispira alla modernità dell’Illuminismo e più precisamente allo choc intellettuale e politico delle guerre di religione in Europa nei secoli XVI e XVII, che portarono per la Francia all’Editto di Nantes e per l’Europa ai trattati di Vestfalia (1648). Il mondo arabo-musulmano ha conosciuto diversi tentativi di modernità. Ma questo promettente vento di liberalismo, dal Cairo a Baghdad, si esaurì negli anni Trenta sotto il peso delle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa, e si perse definitivamente con la sconfitta araba del 1967 che, di conseguenza, conferì all’islam un peso maggiore nel 1979 con la vittoria degli islamisti sciiti a Teheran. Tuttavia, l’orizzonte islamico cui Hamas partecipa è il jihad che separa il mondo tra la terra dell’Islam e la terra della guerra (Dar el Harb) combattuta per la conquista. Una concezione del mondo evidentemente in contrasto con lo spirito dell’Illuminismo e che rende impossibile qualsiasi soluzione politica”.

Al netto dell’erudizione, della supponenza e della disonestà con cui ci si assolve delle proprie colpe (impagabile quanto si afferma a proposito del nazionalismo!), colpisce il richiamo alle ideologie totalitarie provenienti dall’Europa che avrebbero stroncato il profumato vento di liberalismo che spirava prima degli anni Trenta dal Cairo a Baghdad. Egregio Bensoussan, il sionismo socialista, benché minoritario, vogliamo classificarlo anch’esso tra le ideologie totalitarie?

Quel che viene fuori da una simile intervista è un Medio Oriente come discarica dell’Europa in cui i nativi sono delle statuine come i pastorelli del presepe e tutto lo sdegno che si ostenta non sembra diretto contro i crimini commessi il 7 ottobre da Hamas, dagli jihadisti o da gruppi sparsi di banditi, ma contro la pretesa dei pastorelli di poter dire la loro su come il presepe del Medio Oriente deve essere costruito. Ma sì, in fondo, tutta la colpa è dei Romani…

Palestina, un profeta tra follia e realtà

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Un articolo di Guido Rampoldi sulla questione israelo-palestinese, apparso sul quotidiano “Domani” di domenica 22 ottobre, si sottrae alla coltre di plumbea propaganda in cui da giorni è immersa tutta la fanfara mediatica consentendo di discutere qualche aspetto di una realtà che di tutto avrebbe bisogno tranne che di schieramenti manichei. L’autore riconosce anzitutto che è nell’interesse di Israele abbandonare l’illusione di sottomettere i palestinesi con la forza. Infatti, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, è chiaro che le vendicative “punizioni esemplari”, lo strapotere militare e l’esercizio sommario della violenza, producono solo un’ingannevole percezione di sicurezza. Rampoldi poi passa a considerare la posizione dei governi occidentali che, dicendosi convinti che l’unica via d’uscita sia la creazione di uno stato palestinese, si librano solo a un esercizio di futilità diplomatica poiché, non avendo fatto nulla per arginare il dilagare degli insediamenti dei coloni, la situazione ora è di una progressiva integrazione di tali insediamenti nel sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Ne consegue, conclude l’autore, che la nascita anche solo di uno “stato minimo” palestinese provocherebbe la rivolta della destra religiosa e di molti tra i 640mila “coloni”, spesso gente armatissima e legata all’esercito da rapporti strettissimi di collaborazione. Se la realtà è quella di uno stato, lo Stato di Israele, il cui insediamento economico e militare non può essere ostacolato da niente e da nessuno, che fare? L’autore è così consapevole della follia in cui è precipitato l’uditorio cui si rivolge, da qualificare folle la proposta che egli stesso avanza. Scrive infatti letteralmente: «resta una soluzione folle, e mai apparsa così folle come in queste giornate: fare di Israele uno stato binazionale, confederale o no, con un percorso circospetto ma progressivo che finisca per attribuire stessa dignità e stessi diritti agli israeliani e ai palestinesi dei Territori occupati». In realtà, questa soluzione folle è il pezzetto di senno dell’Occidente che ancora non se n’è volato sulla luna. Il fatto però è che questa soluzione ragionevole è assolutamente limitata, affidata com’è a un «percorso circospetto ma progressivo» che richiama tanto le categorie diplomatiche della lungimiranza, della moderazione, della disponibilità al compromesso cui ci si affida quando l’analisi della situazione concreta non mette a fuoco quel che pure confusamente viene intravisto come essenziale. Rampoldi ha infatti più volte ricordato che gli insediamenti sono parte del sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Detto altrimenti, dovrebbe essere ormai chiaro che il kibbutz non è il germe di una futura società democratico-socialista ma l’imprenditore collettivo di un capitalismo in armi che colonizza la “campagna” e sottomette la “città” in cui sopravvive sempre più marginalmente una “coscienza liberale” cui è concesso al massimo di svolgere compassati ragionamenti su Haaretz. In queste condizioni, allora, lo stato binazionale potrebbe nascere non dal percorso circospetto e progressivo auspicato da Rampoldi, bensì da un vigoroso e prolungato conflitto di classe che dovrebbe vedere alleati il proletariato palestinese con quello israeliano. Trattandosi di figure di difficilissima individuazione e di ancor più difficile composizione, è evidente che siamo alle ipotesi di terzo grado. Si comprende allora che Rampoldi rinunci alla scalata e devii verso sentieri più percorribili. Infatti, dopo avere giustamente richiamato che Israele è già una società binazionale, essendo araba parte della sua popolazione, egli sottolinea che, qualora decidesse di istituzionalizzare tale stato di fatto, dovrebbe accettare di non essere più “lo stato ebraico” costruito dai padri fondatori, ma di tornare all’idea di una parte del sionismo originario che sognava non “uno stato ebraico”, ma una “casa ebraica” nella terra d’Israele, rifugio e spazio in cui il giudaismo sarebbe potuto ringiovanire. In altri termini, ostruito il moderno conflitto di classe da un rapporto di forza brutalmente coloniale, lo stato binazionale potrebbe sorgere sul terreno arcaico dei miti religiosi in cui la “casa ebraica” sarebbe chiamata a convivere con la umma araba. Un processo che non un diplomatico, non un capo politico, non un partito di classe, bensì solo un riformatore religioso potrebbe portare a compimento, fondendo il Dio ebraico e l’Allah islamico in un Tutto nuovo meno tormentoso tanto dell’uno quanto dell’altro senza con ciò accedere all’illusoria bontà del Dio cristiano. Poiché qui perveniamo alle iperboli più spinte, si comprende che Rampoldi devii un’altra volta per sentieri più agevoli. Ed ecco dunque l’analogia storico-politica che, avanzata ancora sotto le vesti della follia, dovrebbe convincere le parti contendenti: «proporre adesso [la] soluzione [binazionale] può apparire delirante: ma quarant’anni fa nessuno avrebbe creduto alla possibilità di un Sudafrica binazionale, in cui bianchi e neri avessero eguali diritti». Anche qui il delirio è in effetti la proposta ragionevole, ma con tutto il rispetto per i bianchi e i neri del Sudafrica, Pretoria non è Gerusalemme dove invece tutte le maggiori divinità che ancora signoreggiano le menti umane non da ora si sono date convegno. Un Mandela quindi non basterebbe e, come abbiamo visto, neppure un Lenin. Sì, realisticamente, ci vorrebbe proprio un profeta…

Palestina, una via senza uscita

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La soluzione due popoli due Stati che, memori dei lontani e alquanto mitizzati Accordi di Oslo del 1993, si continua a prospettare per risolvere il problema palestinese, tradotta nel crudo linguaggio della realtà politica effettuale significa un trasferimento di potenza dal già costituito Stato di Israele, armato di tutto punto compresa la bomba atomica ben celata in qualche rotolo della Torah, all’ancora da costituire Stato della Palestina, implume come un pulcino ma fiducioso della potenza che Allah non vorrà negargli. Le vie di questo trasferimento sono due, o quella diplomatica o quella guerresca. Quella diplomatica, basata sull’avvio mai verificatosi della peristalsi di un capitalismo regionale nelle intenzioni bipartisan, si è cercato di percorrerla in passato ma un colpo di pistola alla schiena di Yitzhak Rabin l’ha interrotta. Quella guerresca in questi giorni vive un suo ulteriore capitolo in cui Hamas ha approfittato trucemente degli ozi di Capua su cui Israele ultimamente si era adagiato, mettendolo davanti all’alternativa diabolica di accettare tale trasferimento, secondo modalità alla cui fissazione poi parteciperebbero le altre potenze regionali supervisionate dalle rispettive potenze mondiali di riferimento, oppure di perpetrare un ennesimo, storico massacro, come sembra intenzionato a fare, che ne macchierebbe per generazioni e generazioni la già discutibile reputazione (ovviamente immacolata a prescindere per i pasdaran del Grande Occidente). C’è dunque in corso in questo momento una prova di forza nella quale come mai in passato Israele può essere costretto a cedere qualcosa della sua supremazia assoluta e i palestinesi possono guadagnare una posizione più favorevole per cominciare a costituirsi in una entità statualmente meno ectoplasmatica. Ciò sta a significare però che la pace in Palestina non è per domani e nemmeno per dopodomani, non solo per le modalità e l’esito in sé di questa prova di forza ma anche e soprattutto perché una volta che si pervenisse ai due Stati essi, come si può facilmente intuire, entrerebbero ben presto in contrasto su tutte le questioni su cui la via diplomatica in tutti questi anni non è riuscita a trovare un qualche accordo. Non si vede perché, infatti, il nazionalismo euro-israeliano e quello arabo-palestinese, rinfocolati già ora dai loro atavismi religiosi, dovrebbero svanire proprio quando la potenza di Stato consentirebbe loro di regolare definitivamente i conti. Se l’attuale realtà politica effettuale in Palestina è senza via d’uscita,  ciò è dovuto al fatto allora che il conflitto, da qualsiasi parte lo si affronti, è imbozzolato in un nazionalismo che, ad un tempo, corrompe le classi ma consente alle rispettive borghesie di continuare a ingrassarsi o con il più sofisticato dei capitalismi agrario e industriale (Israele) o con la corruzione (Palestina) o con la rendita energetica (Stati arabi). La prova di ciò sta nella marginalità politica in cui langue la composita classe operaia dell’area in questione che nella componente palestinese diventa addirittura marginalità esistenziale. Basta informarsi su cosa accade nei valichi di frontiera, dove all’alba passano i lavoratori palestinesi diretti nei campi degli “avanzati” agricoltori israeliani, subendo ogni sorta di umiliazioni e di respingimenti. O basta considerare la sorte dei contadini palestinesi proletarizzati costretti a vendere la propria forza lavoro nei parchi industriali israeliani tirati su, in combutta con imprenditori palestinesi, nelle terre loro espropriate dove Tsahal, vero e proprio braccio armato del capitalismo israeliano, ha costruito quel moltiplicatore economico che è il Muro. O basta non ignorare che un lavoratore palestinese, se ha un’occupazione in Israele, deve avere un permesso di lavoro e di soggiorno che spesso si ottengono solo con l’intermediazione di broker che trattengono anche il 30% del salario, subendo per soprammercato quotidianamente le vessazioni dei check point di cui si diceva prima, iniziando la giornata alle quattro del mattino per finirla alle dieci di sera, versando i contributi in Israele senza avere diritto all’assistenza sanitaria e alla pensione. E un po’ meglio invece va se il lavoro è nella Cisgiordania, dove vi è sì, più “libertà”, ma il salario è un terzo e il sistema sociale è un mero abbozzo. In questi giorni nei talk show sta furoreggiando l’affermazione di Giulio Andreotti secondo la quale se nasci in un campo di concentramento quale è Gaza non puoi non diventare un terrorista. Come tutte le arguzie di questo grande statista dal bacio facile, anche questa è una nebbiolina buona come un suffumigio per ammorbidire le grosse fauci della coscienza borghese. In Palestina, ma in generale dalle parti del Medio Oriente, non si diventa terroristi perché si nasce in un campo di concentramento, ma perché il capitale sfrutta il lavoro nella maniera più brutale, cioè secondo modalità in cui non esiste nessuna prospettiva non tanto di una trasformazione rivoluzionaria di tale condizione di sfruttamento, ma neppure di una sua mitigazione opportunistica o “riformistica” che dir si voglia, com’è nel caso del capitalismo metropolitano di cui Israele nel suo complesso è parte integrante. Perciò assieme al tedio che provoca l’irrancidimento nazionalistico della questione arabo-israeliana, monta soprattutto l’infinita pietà per i tanti esseri umani che nei modi più orribili a causa di esso perdono la vita.

Israele, l’Occidente e le colpe dei palestinesi

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Di recente, in una riflessione di Wlodek Goldkorn, a proposito di quanto successo a Gaza, si trova scritto quanto segue: «tra i palestinesi ancora e spesso si sente parlare dello Stato degli ebrei come di un prodotto del colonialismo europeo, un’entità con cui (nel caso del Fatah) si può fare un accordo ma temporaneo, provvisorio, in attesa che gli ebrei se ne tornino da dove sono venuti. Non è così. Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani. E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa, l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità»1.

Primo argomento, la forza autoritaria del fatto: «Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani». Il diritto a risiedere che nasce dalla brutalità dell’occupazione, poco importa se avvenuta comprando terra o occupandola militarmente.

Goldkorn continua: «E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa». Qual è questa catastrofe? Lo sterminio nazista? Ma Israele non nasce a causa dello sterminio nazista. Lo sterminio nazista semmai accellera ciò che era in atto da cinquant’anni, cioè la colonizzazione sionista della Palestina, che data dalla fine del XIX secolo. Israele e il sionismo sono bensì europei, ma in quanto espressione del vecchio nazionalismo europeo. Il sionismo infatti è la forma ebraica del nazionalismo europeo. Ideologia che molti ebrei europei all’epoca rifiutarono.

Sulla base di questo falso storico, Goldkorn può però concludere che «l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità». Quindi, tradotto, i palestinesi debbono pagare il fio degli errori degli europei, siano essi il nazionalismo colonizzatore o lo sterminio nazista.

Questo sì che è pensare! L’esistenza di Israele la debbono pagare i palestinesi. E di che si lamentano, se il destino ha loro riservato la nobile missione di preservare l’identità dell’Europa?! Ci sarebbe un modo per uscire da queste stantie dispute ideologiche? Ci sarebbe. Basterebbe osservare come funziona la spesa mondiale delle carte di credito. Analisi condotte da American Express

mostrano che i big spenders globali tendono ad avere una spiccata concentrazione geografica nei paesi del Medio Oriente. Qui la spesa per beni di lusso è circa il quadruplo di quella che si registra tra i consumatori del Vecchio Continente. Un dato particolarmente interessante che emerge dalla lettura del database delle carte di credito Amex è che l’ammontare speso dai residenti mediorientali in loco è molto basso e raggiunge appena il 14% del totale. I ricchi della regione preferiscono realizzare all’estero i propri desideri: qui impiegano ben l’86% del budget destinato ai beni di lusso2.

Il problema dei palestinesi, in particolare dei palestinesi di Gaza, è che sono il proletariato di una regione dalle diseguaglianze sociali enormi, a causa di un blocco storico, di cui Israele fa parte per fini suoi, le cui classi dominanti si servono del conflitto etnico e religioso per imporre in loco un capitalismo deforme e subalterno al capitalismo mondiale. La colpa di Hamas non è di essere un’organizzazione terroristica, ma di condurre una lotta di liberazione in nome della religione, e non di un sano e laico conflitto di classe, che potrebbe benissimo svolgersi nella cornice di un unico stato plurietnico. Questo assetto sociale purtroppo non è stato scalfito dalle primavere arabe, e la sua messa in discussione richiederà ancora l’impegno di molte generazioni, che dovranno combattere sul doppio fronte degli oppressori interni e dei profittatori esterni, che dall’alleanza con gli oppressori interni traggono i vantaggi ben conosciuti in campo energetico, economico e politico.

  1. L’Espresso, n. 21, 20 maggio 2018, pp. 14-15 []
  2. M. Sabella, “Il lusso? Cresce quattro volte più del mercato”, “Corriere della sera”, 3.6.2018, p. 34 []