Manifesto di Ventotene

La sinistra, l’Europa, lo Stato

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Nello scontro tra sovranismo ed europeismo, che dovrebbe toccare l’apice nelle elezioni del nuovo Parlamento europeo, la primavera prossima, cominciano ad emergere i suoi campioni, nelle persone del francese Macron e dell’italiano Salvini, e le tematiche, ovvero l’immigrazione e le connesse politiche fiscali e di bilancio, se è vero, come è stato chiarito, che «è la cecità fiscale e non la negazione della dignità umana che determina lo scontro intraeuropeo sull’immigrazione»1. Protagonisti e spettatori più o meno interessati convengono sul fatto che questo scontro archivia definitivamente la contrapposizione tra destra e sinistra. Il che è una constatazione sbilenca, poiché la destra non solo non è scomparsa, ma occupa tutto il campo, travestita come il lupo di Cappuccetto Rosso con la cuffietta tutta trine e merletti del sovranismo e con la gran bocca vorace dell’europeismo. In realtà, quel che è accaduto è che la sinistra, divorata dall’estremismo parolaio e dall’opportunismo riformista, è confluita sostanzialmente nell’europeismo, il che ha avuto come effetto che la lotta di classe, più viva e vegeta che mai, si è venuta svolgendo tutta nel campo della destra in forme grottesche e deformi. L’europeismo infatti è l’articolazione europea di quel capitalismo internazionale in cui, negli ultimi vent’anni, sono esponezialmente aumentate le concentrazioni monopolistiche e le transustaziazioni finanziarie, attraverso le quali la quota di ricchezza attribuita al lavoro è diminuita come forse non si vedeva dai tempi antecedenti la Prima guerra mondiale2. Le sperequazioni derivanti da questa ininterrotta e vittoriosa lotta di classe hanno trovato espressione in movimenti come, appunto, il sovranismo, ma anche il cosiddetto populismo, in cui, abbandonati a se stessi, si riconoscono operai, lavoratori, pensionati, ma anche il minuto capitale della piccola e media impresa, ancora legata ai processi industriali. Emblema di questa deforme lotta di classe è diventato il nuovo governo italiano, dove contro il grande capitale europeistico si sono alleati il sovranismo leghista e il populismo pentastelluto, i quali però, nel mentre che muovono contro il nemico comune, conducono una parallela lotta intestina, per decidere chi dovrà prendersi la maggior quota di ciò che sperano di lucrare nello scontro con il grande capitale finanziario e monopolistico. Bisognerà vedere infatti se passa l’accoppiata reddito di cittadinanza-pensioni d’oro, oppure flat tax-riforma Fornero, e decidere se dovrà vincere il corporativismo del Nord o l’assistenzialismo del Sud. Cosa deve fare allora la sinistra, una sinistra intenzionata a guarire dai cronici mali dell’opportunismo e dell’estremismo, per smascherare questa stucchevole commedia in cui al lavoro viene assegnato il ruolo del servo sciocco? In primo luogo, deve tornare a fissare il netto discrimine dell’anticapitalismo, sia esso grande o piccolo capitale. Ciò, ovviamente, non per alimentare la tendenza estremistica, ma al contrario per chiarire bene le basi su cui impostare discorsi ed alleanze. Così, la piccola e media impresa non deve diventare la divinità di un nuovo culto, come hanno fatto i pentastelluti, ma la forma momentanea di un rapporto di produzione con cui necessariamente allearsi, ma di cui vanno messi in luce liberamente ed ogni qual volta se ne presenti l’occasione, i limiti e la pericolosità in quanto nucleo riproduttivo di quel tessuto grande-capitalistico di cui poi essa stessa è vittima. Un po’ di dialettica, insomma, applicata alla propaganda. Una dialettica da applicare anche all’altro problema, che rischia altrimenti di trasformarsi in un vuoto dilemma, cioè se stare in Europa o no, se avere rapporti con l’europeismo o meno. Pensare di risolvere questo dilemma rispolverando la patria, equivale a fare concorrenza ad un prodotto di successo, il sovranismo, con un altro abborracciato alla meglio. E d’altra parte continuare a invocare una diversa Europa è solo una sterile scorciatoia verbale. L’Europa è questa che partecipa, recitando le belle formule della concorrenza e del libero mercato, al gran banchetto mondiale del capitalismo monopolistico-finanziario, come dimostra l’unico obiettivo che essa persegue, la stabilità monetaria che garantisce il mercantilismo dei paesi eurozona più performanti. Per fare ciò, essa ha però sviluppato delle istituzioni continentali, la BCE, la Commissione, ma anche il Parlamento. In Europa, allora, si deve stare, conducendo la lotta, come si sarebbe detto un tempo, con mezzi legali e illegali, dentro e fuori le sue istituzioni, contro e in alleanza con i movimenti che nel suo quadro si agitano, a seconda della migliore convenienza per far giungere con la maggiore nettezza possibile il proprio messaggio anticapitalistico. La finalità di questo rinnovato agire dialettico non può che essere quella che Spinelli e i suoi sodali fissarono nel loro Manifesto. A questo proposito, di recente, si è riconosciuto che «la peculiarità dell’architettura istituzionale europea è non essere retta da uno Stato, che poco si raccorda con il riferimento frequente alle idee federaliste del Gruppo di intellettuali che ha dato vita al Manifesto di Ventotene»3. Bisogna però intendersi sullo Stato. Se lo Stato è l’articolazione burocratica che garantisce nella lotta di classe l’esito vittorioso del capitale, ebbene l’UE così com’è attualmente possiede uno Stato del tutto rispondente allo scopo. Se invece per Stato si intende la macchina che spezza il dominio del capitale e favorisce l’esito vittorioso del lavoro, allora l’UE non ha evidentemente un tale Stato. Ora, i moralisti borghesi – non si saprebbe come meglio definirli, pensano ad uno Stato che riformi l’attuale Stato europeo restando sempre all’interno di una nebulosa “economia del benessere”. Un capitalismo filantropico che non si è mai visto all’opera nella storia, salvo in quei pochi decenni, tra il 1945 e il 1975, in cui l’alternativa sovietica era un pungolo ben vivo. Poiché oggi le condizioni storiche sono del tutto differenti, e il capitalismo si può addirittura permettere di deglobalizzarsi, come si vede con le rilocalizzazioni perseguite da Trump, bisogna allora ben fissare il significato del richiamo al federalismo del Manifesto di Ventotene. In quel testo, infatti, il futuro Stato federale europeo veniva concepito come una dittatura federale europea, laddove il termine decisivo è quello di dittatura, che ha un senso se collegato al contenuto anticapitalistico così evidente del Manifesto. Il termine dittatura in questo preciso significato anticapitalistico, omesso non solo nella retorica europeistica ma anche dagli odierni moralisti borghesi, gli uni e gli altri accontentandosi solo si mettere l’accento sul federalismo, come se una semplice formula istituzionale potesse da sola realizzare l’Europa unita, quel termine, dicevamo, indica quanto fosse forte in quegli anni Quaranta del secolo scorso la capacità egemonica della sinistra. Su quel termine poterono infatti convergere un leninista allievo di Gramsci come Spinelli e due borghesi antimonopolisti e progressisti come Colorni e Rossi. Quella egemonia derivava da tanti fattori, tra cui l’impressione del disastro della guerra e della distruzione europea, di cui le dinamiche del capitalismo monopolistico-finanziario erano responsabili in due riprese, nel ’14-’18 e nel ’39-’45. Oggi il capitalismo, quel sempiterno capitalismo monopolistico-finanziario che inestinguibile risorge sempre dalle sue ceneri, è responsabile di una guerra senza quartiere contro la società, di cui nega persino l’esistenza, mettendo tutto in capo ad un individuo che è tale, non come persona che si realizza nel rapporto di classe, ma se risponde ai canoni di uno sfrenato superomismo. E questa guerra continua anche quando il capitalismo deglobalizza, promettendo la rinascita dei legami sociali locali. Questa falsa promessa, infatti, serve solo a coprire il significato autentico dei dazi, che servono non a ricostruire i legami, ma ad ingrassare le oligarchie locali, pronte a sfrenarsi di nuovo nel proscenio mondiale, quando la guerra commerciale avrà decretato vincitori e vinti. C’è insomma di che alimentare un coerente discorso anticapitalistico, da condurre senza timidezza, denunciando i cortocircuiti per cui la classe operaia di Taranto, pur di salvare il salario, approva con un plebiscito un processo produttivo che continuerà a minare la salute delle proprie famiglie. E questo accade perché non bastano le opinioni personali del capocomico per sanare certe contraddizioni, anzi, la vicenda di Taranto mostra quanto sia mistificatoria la divisione del lavoro dentro il M5S, dove il guru sognatore propone soluzioni irrealizzabili, e il giovane politicante sigla accordi al ribasso. Dalla convinzione con cui la sinistra farà di nuovo propria la critica anticapitalistica, che una vicenda come quella di Taranto mostra essere l’unico discorso onesto che possa essere rivolto agli operai, discenderanno poi le nuove forme organizzative, su cui per troppo tempo, invece, si è concentrato il dibattito – le primarie, gli statuti, il partito liquido, e quant’altro, in cui hanno potuto trovare spazio azzeccagarbugli che in realtà erano solo gli agenti mascherati del peggior spirito del tempo.

  1. P. Savona, Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, DIPARTIMENTO PER LE POLITICHE COMUNITARIE, IL MINISTRO PER GLI AFFARI EUROPEI, http://www.politicheeuropee.gov.it/media/4295/per-uneuropa-piu-forte-e-piu-equa-2_versione-finale-impaginato.pdf, pp. 16-17. []
  2. D. Troilo, Un capitalismo che è negazione del libero mercato, «Corriere della sera», 30 agosto 2018, p. 29. []
  3. P. Savona, Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa, cit, p. 8. []

Ritorno a Ventotene: tanti auguri a Matteo Renzi

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Il prossimo 22 agosto, l’Italia incontrerà Germania e Francia a Ventotene “per ripartire con convinzione sull’Ue dei valori e degli ideali”. Parole di Matteo Renzi all’ultima Direzione del Partito democratico. È un lodevolissimo intento, ma Ventotene, lo spirito di Ventotene, il Manifesto di Ventotene, non sono uno scherzo. Proviamo a rileggerlo nei suoi punti salienti. La missione di un’Europa libera e unita, scrivono Spinelli, Rossi e Colorni, è di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Perciò, non la “politica europea”, non i suoi vertici, non le sue scartoffie che viaggiano quotidianamente tra Bruxelles e Strasburgo, ma la rivoluzione europea dovrà portare avanti questa missione, che è una missione socialista, in quanto si proprone l’emancipazione delle classi lavoratrici, ispirandosi al principio secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma debbono essere da loro dominate. Che fare? Risposta della rivoluzione europea: abolire l’occlusione economica! Questo programma deve essere incarnato non dalla Commissione europea, non dal board dei capi di governo, non dai sacerdoti dell’austerità, ma da un partito rivoluzionario che deve attingere e reclutare nella sua organizzazione solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita. Dunque, non carrieristi, ma rivoluzionari devoti alla causa euroepa. Non sono ammessi quindi Presidenti di Commissione che, cessato il loro mandato, passano a lavorare per Goldman Sachs. Ma andiamo avanti. Questo partito attinge la sicurezza di quel che va fatto, dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Quindi, non è un partito che “prende partito” a priori, arbitrariamente, ma è un partito che raccoglie, accumula, immagazzina le forze che consentono di “prendere partito”. Prendere partito per la rivoluzione europea, che è una rivoluzione socialista fatta da rivoluzionari votati all’idea di Europa. E qui viene il bello. Non con i dinoccolati discorsi nel paludato Parlamento europeo, non con i narcisistici interventi negli infuocati talk show, non con le peregrine Costituzioni che i popoli giustamente spernacchiano, ma tramite la dittatura di questo partito rivoluzionario europeo si forma il nuovo Stato e attorno ad esso la nuova democrazia. Dittatura? Sì, proprio così, con un concetto che, a quanto pare, gli autori del Manifesto non disdegnano di trarre da un Lenin filtrato da Gramsci1, dittatura non della Troika, della finanza, delle grandi banche, che anzi vanno nazionalizzate, come recita il primo punto del programma economico del Manifesto, ma dittatura del partito rivoluzionario che persegue lo scopo di sviluppare il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Grecia, de te fabula narratur. Questo partito non deve girarsi i pollici, aspettando che il processo si compia. Al contrario, esso deve rivolgere la sua operosità anzitutto verso i due gruppi sociali più spontaneamente europeisti, vale a dire la classe operaia e gli intellettuali. Qui, chissà perché, viene ancora in mente Gramsci, ma non sarà per questo che, in tutti questi anni, non di dittatura del partito rivoluzionario europeo, ma di dittatura del capitale, Commissione europea, board dei capi di governo, sacerdoti dell’austerità, globalisti di ogni risma e contrada, hanno lavorato per atterrare e disperdere classe operaia e intellettuali? Ma non cediamo ai sospetti e restiamo al Manifesto. Solo sulla base di questa dittatura del partito rivoluzionario europeo che, come abbiamo detto, è un partito che “prende partito” non arbitrariamente, ma nel divenire del processo storico europeo, che è un processo socialista, cioè egualitario, solo su questa base le libertà politiche potranno veramente avere per tutti un contenuto concreto e non solo formale. E quale sarà questo contenuto di una rivoluzione che qualche supercilioso sta già squalificando come la solita, impossibile, catastrofica, pauperistica, rivoluzione egualitaria? Il contenuto di queste libertà politiche sarà che la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe governante. Testuale. E ci si chiede: questo ideale rivoluzionario europeo consistente nella reciprocità tra governanti e governati, tra dirigenti e diretti, non è l’asse portante dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci? Se solo in tutti questi anni, nel nome abusato dell’Europa, fosse stata esercitata non la dittatura del capitale, ma quella del partito rivoluzionario europeo, un partito a quanto pare gramsciano con venature addirittura leniniste, un partito per il quale la riforma economica non è il fine, ma il mezzo per la riforma politica, se solo anche una piccola parte di ciò fosse stato attuato, non avremmo oggi alle porte la minaccia dei “populisti” che urlano contro la “casta”, pronti a subentrarle, non appena l’avranno sloggiata dagli scranni che essa sempre più precariamente ancora occupa. Caro Matteo Renzi, il 22 agosto 2016 prossimo venturo, a Ventotene, sulla portaerei in cui per motivi di sicurezza si svolgerà il vertice europeo da te promosso, riuscirai a iscriverti e a fare iscrivere Hollande e Merkel al partito rivoluzionario europeo? Tanti auguri!

  1. I. Pasquetti, Altiero Spinelli tra Gramsci, Nenni e Berlignuer, “Eurostudium”, ottobre-dicembre 2008, p. 47. []