palestinesi

Palestina, un profeta tra follia e realtà

Download PDF

Un articolo di Guido Rampoldi sulla questione israelo-palestinese, apparso sul quotidiano “Domani” di domenica 22 ottobre, si sottrae alla coltre di plumbea propaganda in cui da giorni è immersa tutta la fanfara mediatica consentendo di discutere qualche aspetto di una realtà che di tutto avrebbe bisogno tranne che di schieramenti manichei. L’autore riconosce anzitutto che è nell’interesse di Israele abbandonare l’illusione di sottomettere i palestinesi con la forza. Infatti, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, è chiaro che le vendicative “punizioni esemplari”, lo strapotere militare e l’esercizio sommario della violenza, producono solo un’ingannevole percezione di sicurezza. Rampoldi poi passa a considerare la posizione dei governi occidentali che, dicendosi convinti che l’unica via d’uscita sia la creazione di uno stato palestinese, si librano solo a un esercizio di futilità diplomatica poiché, non avendo fatto nulla per arginare il dilagare degli insediamenti dei coloni, la situazione ora è di una progressiva integrazione di tali insediamenti nel sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Ne consegue, conclude l’autore, che la nascita anche solo di uno “stato minimo” palestinese provocherebbe la rivolta della destra religiosa e di molti tra i 640mila “coloni”, spesso gente armatissima e legata all’esercito da rapporti strettissimi di collaborazione. Se la realtà è quella di uno stato, lo Stato di Israele, il cui insediamento economico e militare non può essere ostacolato da niente e da nessuno, che fare? L’autore è così consapevole della follia in cui è precipitato l’uditorio cui si rivolge, da qualificare folle la proposta che egli stesso avanza. Scrive infatti letteralmente: «resta una soluzione folle, e mai apparsa così folle come in queste giornate: fare di Israele uno stato binazionale, confederale o no, con un percorso circospetto ma progressivo che finisca per attribuire stessa dignità e stessi diritti agli israeliani e ai palestinesi dei Territori occupati». In realtà, questa soluzione folle è il pezzetto di senno dell’Occidente che ancora non se n’è volato sulla luna. Il fatto però è che questa soluzione ragionevole è assolutamente limitata, affidata com’è a un «percorso circospetto ma progressivo» che richiama tanto le categorie diplomatiche della lungimiranza, della moderazione, della disponibilità al compromesso cui ci si affida quando l’analisi della situazione concreta non mette a fuoco quel che pure confusamente viene intravisto come essenziale. Rampoldi ha infatti più volte ricordato che gli insediamenti sono parte del sistema della difesa e dell’economia d’Israele. Detto altrimenti, dovrebbe essere ormai chiaro che il kibbutz non è il germe di una futura società democratico-socialista ma l’imprenditore collettivo di un capitalismo in armi che colonizza la “campagna” e sottomette la “città” in cui sopravvive sempre più marginalmente una “coscienza liberale” cui è concesso al massimo di svolgere compassati ragionamenti su Haaretz. In queste condizioni, allora, lo stato binazionale potrebbe nascere non dal percorso circospetto e progressivo auspicato da Rampoldi, bensì da un vigoroso e prolungato conflitto di classe che dovrebbe vedere alleati il proletariato palestinese con quello israeliano. Trattandosi di figure di difficilissima individuazione e di ancor più difficile composizione, è evidente che siamo alle ipotesi di terzo grado. Si comprende allora che Rampoldi rinunci alla scalata e devii verso sentieri più percorribili. Infatti, dopo avere giustamente richiamato che Israele è già una società binazionale, essendo araba parte della sua popolazione, egli sottolinea che, qualora decidesse di istituzionalizzare tale stato di fatto, dovrebbe accettare di non essere più “lo stato ebraico” costruito dai padri fondatori, ma di tornare all’idea di una parte del sionismo originario che sognava non “uno stato ebraico”, ma una “casa ebraica” nella terra d’Israele, rifugio e spazio in cui il giudaismo sarebbe potuto ringiovanire. In altri termini, ostruito il moderno conflitto di classe da un rapporto di forza brutalmente coloniale, lo stato binazionale potrebbe sorgere sul terreno arcaico dei miti religiosi in cui la “casa ebraica” sarebbe chiamata a convivere con la umma araba. Un processo che non un diplomatico, non un capo politico, non un partito di classe, bensì solo un riformatore religioso potrebbe portare a compimento, fondendo il Dio ebraico e l’Allah islamico in un Tutto nuovo meno tormentoso tanto dell’uno quanto dell’altro senza con ciò accedere all’illusoria bontà del Dio cristiano. Poiché qui perveniamo alle iperboli più spinte, si comprende che Rampoldi devii un’altra volta per sentieri più agevoli. Ed ecco dunque l’analogia storico-politica che, avanzata ancora sotto le vesti della follia, dovrebbe convincere le parti contendenti: «proporre adesso [la] soluzione [binazionale] può apparire delirante: ma quarant’anni fa nessuno avrebbe creduto alla possibilità di un Sudafrica binazionale, in cui bianchi e neri avessero eguali diritti». Anche qui il delirio è in effetti la proposta ragionevole, ma con tutto il rispetto per i bianchi e i neri del Sudafrica, Pretoria non è Gerusalemme dove invece tutte le maggiori divinità che ancora signoreggiano le menti umane non da ora si sono date convegno. Un Mandela quindi non basterebbe e, come abbiamo visto, neppure un Lenin. Sì, realisticamente, ci vorrebbe proprio un profeta…

Israele, l’Occidente e le colpe dei palestinesi

Download PDF

Di recente, in una riflessione di Wlodek Goldkorn, a proposito di quanto successo a Gaza, si trova scritto quanto segue: «tra i palestinesi ancora e spesso si sente parlare dello Stato degli ebrei come di un prodotto del colonialismo europeo, un’entità con cui (nel caso del Fatah) si può fare un accordo ma temporaneo, provvisorio, in attesa che gli ebrei se ne tornino da dove sono venuti. Non è così. Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani. E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa, l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità»1.

Primo argomento, la forza autoritaria del fatto: «Intanto perché ci sono ormai quattro o cinque generazioni di ebrei israeliani, nativi del luogo e desiderosi di vivere da israeliani». Il diritto a risiedere che nasce dalla brutalità dell’occupazione, poco importa se avvenuta comprando terra o occupandola militarmente.

Goldkorn continua: «E poi, proprio perché Israele è parte dell’Occidente e dell’Europa in quanto conseguenza della catastrofe dell’Occidente e dell’Europa». Qual è questa catastrofe? Lo sterminio nazista? Ma Israele non nasce a causa dello sterminio nazista. Lo sterminio nazista semmai accellera ciò che era in atto da cinquant’anni, cioè la colonizzazione sionista della Palestina, che data dalla fine del XIX secolo. Israele e il sionismo sono bensì europei, ma in quanto espressione del vecchio nazionalismo europeo. Il sionismo infatti è la forma ebraica del nazionalismo europeo. Ideologia che molti ebrei europei all’epoca rifiutarono.

Sulla base di questo falso storico, Goldkorn può però concludere che «l’Occidente e l’Europa non possono rinunciare a Israele, pena la rinuncia alla propria storia e identità». Quindi, tradotto, i palestinesi debbono pagare il fio degli errori degli europei, siano essi il nazionalismo colonizzatore o lo sterminio nazista.

Questo sì che è pensare! L’esistenza di Israele la debbono pagare i palestinesi. E di che si lamentano, se il destino ha loro riservato la nobile missione di preservare l’identità dell’Europa?! Ci sarebbe un modo per uscire da queste stantie dispute ideologiche? Ci sarebbe. Basterebbe osservare come funziona la spesa mondiale delle carte di credito. Analisi condotte da American Express

mostrano che i big spenders globali tendono ad avere una spiccata concentrazione geografica nei paesi del Medio Oriente. Qui la spesa per beni di lusso è circa il quadruplo di quella che si registra tra i consumatori del Vecchio Continente. Un dato particolarmente interessante che emerge dalla lettura del database delle carte di credito Amex è che l’ammontare speso dai residenti mediorientali in loco è molto basso e raggiunge appena il 14% del totale. I ricchi della regione preferiscono realizzare all’estero i propri desideri: qui impiegano ben l’86% del budget destinato ai beni di lusso2.

Il problema dei palestinesi, in particolare dei palestinesi di Gaza, è che sono il proletariato di una regione dalle diseguaglianze sociali enormi, a causa di un blocco storico, di cui Israele fa parte per fini suoi, le cui classi dominanti si servono del conflitto etnico e religioso per imporre in loco un capitalismo deforme e subalterno al capitalismo mondiale. La colpa di Hamas non è di essere un’organizzazione terroristica, ma di condurre una lotta di liberazione in nome della religione, e non di un sano e laico conflitto di classe, che potrebbe benissimo svolgersi nella cornice di un unico stato plurietnico. Questo assetto sociale purtroppo non è stato scalfito dalle primavere arabe, e la sua messa in discussione richiederà ancora l’impegno di molte generazioni, che dovranno combattere sul doppio fronte degli oppressori interni e dei profittatori esterni, che dall’alleanza con gli oppressori interni traggono i vantaggi ben conosciuti in campo energetico, economico e politico.

  1. L’Espresso, n. 21, 20 maggio 2018, pp. 14-15 []
  2. M. Sabella, “Il lusso? Cresce quattro volte più del mercato”, “Corriere della sera”, 3.6.2018, p. 34 []