pandemia

Occasione persa

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La lezione più importante che si può trarre dalla pandemia è che solo una concentrazione assoluta di paura e terrore riesce a staccare gli individui dalle loro abitudini e schemi mentali, rendendoli disposti a mutare i propri comportamenti. Nelle giornate più cupe della pandemia, quando il virus sembrava una forza irresistibile più di quanto lo sia ora, faceva impressione constatare questo distacco non tanto nella gente comune quanto in coloro che, detentori di un qualche potere, si erano sin lì catafratti nella sicurezza richiesta dalle loro posizioni che ben volentieri esibivano. Strepitavano, si lamentavano, erano disposti ad ammettere tutte le storture del modo di vita sin allora difeso e procedevano a modifiche cogliendo senza indugio ogni spiraglio che si apriva per un qualche mutamento. Per chi detiene potere provare paura è una esperienza devastante che pur di salvarsi induce a ogni sorta di concessione. Ma, come già detto, sotto lo stimolo della paura anche la gente comune è più disposta a sottrarsi all’imperio dell’abitudine che ottunde ogni critica alle storture della routine in cui si è immersi. Era questa scossa, che si irradiava indistintamente in basso e in alto, la base di quegli ingenui proponimenti che i media proponevano sul “dopo la pandemia, saremo tutti più buoni”. In realtà, poiché tutta questa configurazione è semplicistica quanto un fioretto infantile, i buoni propositi sono svaniti non appena si sono cominciate a prendere le misure al temibile virus. Il problema della concentrazione assoluta di paura e terrore è che, se non accompagnata da una contestuale opera di consapevole messa in discussione delle vecchie abitudini, funziona come una molla compressa che, una volta rilasciata, ritorna con forza maggiore alla sua posizione iniziale. Il PIL, prodotto interno lordo, con i complimenti del Fondo monetario e i battimani di qualche ministro premio Nobel mancato, non sta forse rimbalzando al 6% annuo? La concentrazione assoluta di paura e terrore è un fatto rivoluzionario se c’è una forza uguale e contraria alle abitudini da svellere che svolga un’opera attiva di “pedagogia sociale”. Ma dal virus non si può pretendere tanto. Negli anni, una tale forza attiva si è acquartierata in comodi cubicoli dell’ordine esistente e le persone si sono abituate a essere “individui autonomi” ovvero, secondo una versione popolare dell’etica kantiana, a fare ciò che gli pare rigettando come un’offesa ogni accenno pedagogico-sociale. Se una tale forza, invece di imboscarsi, avesse coltivato gelosamente la propria autonomia, si sarebbe potuto intavolare un discorso innanzitutto sulle cause nient’affatto naturali del virus, e dall’accertamento delle effettive cause economiche, sociali e culturali si sarebbero potuti derivare interventi di riforma del modo di vita corrente. Anzitutto, decomprimendo l’economia, liberandola dai miliardi di ore-lavoro dedicate a produrre merci inutili quando non dannose, buone solo a tenere su gli indici del sullodato PIL. Ma contestualmente si sarebbe dovuto sviluppare il polmone sociale e non certo con le spese in deroga ai vincoli di bilancio, spesso elemosine migragnose di uno Stato, da anni disabituato a fare non tanto politica economica quanto economia politica, a categorie avvezze a ben altri flussi di denaro in chiaroscuro ma ora improvvisamente in difficoltà. E, invece, in quei decisivi frangenti ciò che si è sentito è stato solo l’invito sgangherato a cambiare mestiere rivolto a tali categorie da una esponente assai supponente (altro che commercialista di Bari, come a suo tempo l’altezzoso Andreatta definì il valoroso Formica!) del nuovo che avanza. Questo nuovo a cinque stelle ha così tanto avanzato che nel vuoto creatosi la molla si è ripresa il suo spazio – e con quale maggior vigore. Se l’economia, quell’economia priapica da cui pur con tutte le sue storture dipende l’esistenza delle persone è l’unica effettiva dimensione sociale, beh, quando con la “spinta gentile” del green pass (ah, il genio del paternalismo borghese!)  si riesce con le inoculazioni vaccinali a relegare il virus a un basso continuo della vita quotidiana che, quasi con un brivido di piacere sotteso al rischio di potersi infettare, accompagna gli atti di un nuovo sfrenamento di massa, perché meravigliarsi che sorga e si imponga la figura salvifica del Grande Funzionario novello De Gasperi che sa come manovrarla, questa divina economia del lavoro non-lavoro, dei salari decrescenti e dell’obbligo del maggior consumo, delle crescenti aspettative di vita e delle pensioni a babbo morto? E così, mentre tutto crolla, tutto ancora una volta si tiene, e la nave va, con gli schiavi alla galera cui però è concesso per pochi spiccioli, miracolo dell’economia dei prezzi, di salire in prima classe per una crociera di una settimana. Tanto, se non su uno yacht sempre più grande, c’è sempre un’astronave che può portare in salvo i ricchi scemi su un pianeta very exclusive.

Ragioni oggettive a favore dei fratelli no vax

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Premesso che chi scrive ha fatto il suo dovere vaccinale, è fuor di dubbio che chi non vuole vaccinarsi e si oppone al controllo del lasciapassare ha dalla sua parte delle ragioni oggettive fra le quali possono essere messe in evidenza le seguenti:

 

1) il consenso informato da firmare all’atto di vaccinarsi, in mancanza di una legge che fissi dettagliatamente gli obblighi dello Stato verso il vaccinando e i suoi congiunti in caso di eventi avversi prossimi o venturi, lascia il cittadino in balia di tali eventi e scarica di responsabilità lo Stato, il quale però, pur in una situazione di sperimentazione sanitaria di massa quale non si nega essere da parte di molti competenti in materia quella attualmente in corso, obbliga di fatto al vaccino con la misura amministrativa ex post del lasciapassare. Questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

2) si afferma che il vaccino serve a evitare la malattia grave che richiede il ricovero in ospedale. Ciò significa che si dà per scontato che la malattia si diffonda e persista a bassa intensità nella maggioranza della popolazione, ma senza predisporre alcun significativo potenziamento dell’assistenza medica a casa che resta carente o inesistente. Lo Stato quindi fa il calcolo minimo di evitare l’allarme sociale e il costo economico del sovraccarico ospedaliero, lasciando che il cittadino se la sbrighi privatamente nel caso più che probabile, anche quando vaccinato, che la malattia lo colpisca sebbene in forma non grave o mortale. Anche qui, questo modo obliquo di procedere non può che generare sfiducia;

 

3) posto che la strada delle cure (monoclonali, immunosoppressori) è stata sostanzialmente scartata perché ritenuta troppo lenta rispetto all’obiettivo di rimettere in moto al più presto l’intero ingranaggio della vita sociale, e posto che lo stesso vaccino non sembra poi l’arma infallibile contro l’insidioso virus, non c’è stata e non c’è alcuna seria possibilità di scegliere fra i vari tipi di vaccino (mRNA, vettoriale, proteine) in sperimentazione non solo in paesi “reprobi” come Cuba, Russia e Cina, ma anche nel blocco dei “virtuosi” paesi occidentali. Si è alimentato invece un dibattito fittizio tra marchi (Astrazeneca vs. Pfizer), impedendo di fatto un’informazione obiettiva e completa su tutte le opzioni possibili, lasciando che tutto fosse regolato da dinamiche economiche riconducibili a pochi, salvifici monopoli farmaceutici. Tutto ciò ancora una volta non può che aver generato sospetto e sfiducia;

 

4) non è mancato e manca solo il dibattito scientifico su opzioni effettive e non fittizie, ma ancor più manca un dibattito serio su come uscire dalle “situazioni di guerra” causate dalle ormai ricorrenti pandemie. Al contrario, la fuga dalle responsabilità, i ragionamenti grettamente utilitaristici, la riproposizione di modelli organizzativi obsoleti, le contrapposizioni schematiche rispondenti più al marketing che al dibattito democratico, non fanno che ribadire la grande divisione tra uno Stato nella sua essenza autoritario e un cittadino relegato nella sua privatezza, la cui àncora di salvezza per entrambi è un’economia che si rimetta a regime quanto prima per poter continuare a stillare quelle ormai sempre più grame risorse necessarie a tenere in vita un’organizzazione sociale di cui da tempo si è più prigionieri che protagonisti.

 

Tutto ciò considerato, sembrano eccessive e spropositate le misure che vengono minacciate per coloro che non intendono vaccinarsi e sottostare al controllo del lasciapassare. Privare qualcuno del lavoro e dello stipendio è come spedirlo in prigione senza neanche volergli passare il vitto dell’amministrazione carceraria. Se si vogliono adottare misure così estreme, ci si assuma la responsabilità di leggi chiaramente discusse ed emanate, senza più far ricorso a decreti che producono solo rabbia e frustrazione. O è proprio la rabbia e la frustrazione che si vogliono alimentare, per poter ricorrere al pugno di ferro che ribadisca i presupposti indiscutibili dell’ordine vigente?

Vicolo cieco

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Non c’è nessun motivo di rimpiangere non l’anno, ma il ventennio appena trascorso. Tre neri fiumi ne hanno segnato il corso, guerre fame e pestilenze. Si è aperto con la sfida di alcuni religiosi ai potenti del mondo. I religiosi sono coloro che si attengono scrupolosamente ai dettami del culto, poco importa che questo scrupolo sia soddisfatto in modo “fondamentalista” o meno. Essi stanno lì acquattati dalla notte dei tempi e il futuro che non sia l’apocalisse dell’eterno ritorno gli è loro precluso. La loro sfida, aerei usati come proiettili contro il sancta sanctorum dell’opulenza, non poteva perciò che essere insensata, e ha solo dato la stura ad un nuovo ciclo di guerre in cui Stati più potenti hanno potuto accrescere la loro potenza sopprimendo quella di Stati meno potenti. Non si è fatto nessun progresso nel problema vero di una diminuzione reciproca di potenza come si era iniziato a fare verso la fine della cosiddetta “guerra fredda”, a dimostrazione che nulla c’è da aspettarsi dalla religione anche quando tenta di riformarsi. Il movimento a singhiozzo che ne deriva disorienta le masse di infelici che da essa si aspettano ancora la salvezza. La guerra è dunque dilagata come il lato tenebroso della produzione, creando nella teoria l’illusione di un parallelismo tra rapporti di produzione e rapporti di distruzione stimolato dalle acquisizioni tecnologiche1. È stato un ulteriore abbaglio che ha messo a carico della tecnica quel che è di pertinenza di un imperialismo senza limite. La potenza degli Stati che si sono combattuti, infatti, se a prima vista sembra divenuta generica potenza, in realtà è sempre rimasta determinata da un imperio divenuto “globale” proprio perché sempre connesso strettamente alla produzione monopolistica e finanziaria della ricchezza: «monopoli, oligarchia, tendenza al dominio anziché alla libertà, sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un numero sempre maggiore di nazioni più ricche o potenti: sono le caratteristiche dell’imperialismo, che ne fanno un capitalismo parassitario e putrescente. Sempre più netta appare la tendenza dell’imperialismo a formare lo “Stato rentier”, lo Stato usuraio, la cui borghesia vive esportando capitali e “tagliando cedole”». Che cosa è cambiato rispetto a questo quadro, non di sociologia empirica ma di concreta analisi politica, tracciato da Lenin nel 1916? Nulla, se non che ora anche il proletariato con i suoi fondi pensione vive “tagliando cedole”. E certamente questo è possibile grazie alla tecnologia, ma non perché essa è l’iper-potenza degli scopi che subordina a sé tutti gli altri scopi, ma perché essa oggi più che mai è asservita allo scopo supremo del dominio e dello sfruttamento. Così, un esercito di semi-schiavi occultato nel sottosuolo delle galere della produzione di base produce gli schiavi meccanici che sempre più consentiranno a una sterminata massa di oziosi di “tagliare cedole” sempre più miserande sotto l’occhiuto dominio di un’élite che, avendo come emblema la maschera ebete di Elon Musk, progetta come in un osceno corteo nuziale di trasmigrare in un altro pianeta. È il compimento di un sistema di produzione che producendo ricchezza crea fame. Fame, nome riassuntivo di tutta l’analitica della realtà sociale capitalistica che la cognizione sociale prodotta da tale realtà non può e non vuole più comprendere. In questa condizione alienata di ignoranza e di ipocrisia si poté produrre quindi il movimento tellurico del 2007 senza che il dominio e lo sfruttamento ne venissero scalfiti, anzi, nell’assenza di alternativa che non fosse il delirio religioso, essi ne trassero nuovo vigore. Incastonato nello sfondo estraniato di una pretesa “natura matrigna” scorreva intanto con un andamento carsico il fiume nero delle pestilenze che tutti i “salvati” raccolti nella putrescente cittadella imperialistica guardavano con occhio vitreo: a noi non capiterà. Sino a quando, nel 2020 appena trascorso, come lo spurgo impetuoso di una fogna troppo a lungo malamente tappata, la pestilenza non è sgorgata al centro del castello, immerdando di sé le splendenti vetrine, i rutilanti commerci, i frenetici spostamenti, sostenuti dagli spritz, dagli happy hours, dalle coca lines delle “Terrazze sentimento” ad alto contenuto pornografico di tutte le smart city che non chiudono mai. Ora si aspetta il vaccino, prodotto da un nugolo di monopoli farmaceutici in feroce lotta tra di loro che, quale sotto-settore imperialistico deputato alla bisogna, dovrà provvedere a “immunizzare il gregge” per far risalire gli indici altamente depressi del sistema imperialistico complessivo, da sfrenare in un nuovo ciclo di guerre fame e pestilenze. È così che, da dieci secoli, l’“uomo”, dogmatica ipostasi che ha asservito e sviato Homo sapiens, da oculus mundi quale orgogliosamente si auto-rappresentava è divenuto il vicolo cieco della specie.

  1. W. Streeck, Engels sociologo empirico. Tecnologia, guerra e crescita dello Stato, «Micromega», 8/2020, pp. 215-230. []