1. La premiata ditta Heidegger ha fatto le cose per bene. Dovendosi pubblicare le note segrete che il filosofo tedesco, sin dagli anni Trenta, aveva affidate a dei quaderni scolastici dalla copertina nera, che sarebbero dovute restare inedite sino al completamento della monumentale opera omnia, nel senso di monumento al culto ossessivo della propria personalità, cosa c’era di meglio che pubblicizzare su tutti i media che contano le pagine di contenuto antisemita, magari inscenando dei bisticci tra nipotini che si accapigliano sulle parole del vate? E siccome non bisogna farsi mancare mai niente, cosa c’era di meglio che segnalare all’edotto pubblico i presunti temi no global, anti-liberali e cripto-comunisti che il veggente avrebbe riposto in detti quaderni? La traduzione italiana del primo blocco di tali note1 è così venuta alla luce nella trepida attesa del pubblico pagante, che non si è certo sobbarcata la levataccia come per uno smartphone, ma insomma, la curiosità c’era, e la vendita, si presume, è andata bene. Aperto il volume e trangugiatone il contenuto, viene però alla mente, ma con il significato opposto, la famosa domanda di Derrida: ma avete mai letto Essere e tempo? Certo che sì, e certamente non ieri2. Ed è per questo che le distanze che Heidegger prende in questi quaderni da quell’opera, verso la cui celebrità si mostra ora sdegnoso, non impressionano per niente, perché, insomma, a parte la posa, esibita con movenze così ieratiche da risultare comiche, il contenuto è sempre quello, e cioè un esserismo o essenzismo che con gli anni diviene sempre più un eroico ruminare, o meglio un ruminare che si vuole eroico. Qualcosa, però, in questi quaderni appare in una luce più chiara. Qui, infatti, la filosofia è ridotta ad un fisicalismo metafisico il cui oggetto è l’essenza che decade nella presenza dell’essere, laddove l’essenza è l’unità originaria, e l’essenzismo l’anelito a ricomporre tale unità, per permettere all’ente di accedere alla potenza. Ma questo fisicalismo metafisico dove lo si è già incontrato? Da Rosenzweig ad Altmann a Löwith, e più recentemente e più precisamente da Marlène Zarader a Elliot Wolfson, si è sempre notata la vicinanza di Heidegger alle modalità di pensiero della teologia ebraica e in particolare della cabala. Nelle note di questi quaderni questa somiglianza è particolarmente evidente. Come la cabala, infatti, Heidegger costruisce una fisica della creazione il cui contenuto è l’elaborazione linguistica dell’essenza da cui deriva l’essere. In particolare, l’essenza di Heidegger corrisponderebbe nella cabala al Nome di Dio, da cui, in quanto essere linguistico, tutto promana3. Tuttavia, nonostante Heidegger ce la metta tutta, la sua cabala è molto più povera di quella ebraica. Manca, infatti, tutto il simbolismo razionale delle vie della sophia, che Heidegger sostituisce, appunto, con il suo ossessivo ruminare intorno alla domanda del domandare sull’essenza, che dovrebbe consentire di risalire a quell’inizio dispersosi nella decadenza dell’essere, contro la quale bisogna linguisticamente imbastire il ritorno al cominciamento, in modo da ottenere il potenziamento dell’essenza indebolitasi nella decadenza dell’essere. Un vero e proprio “gnommero”, avrebbe detto Gadda, che sembra la formula di un culto, il culto della fissità originaria, che guarda al divenire come alla lebbra dell’essere. Qui entra in ballo il compito della filosofia e del filosofo che Heidegger, quando non è impegnato a salmodiare la formula esseristica, affronta. Per Heidegger, la filosofia ha due compiti. Il primo è mostrare che all’iniziale esperienza panico-beante dell’essenza è subentrata la macchinazione tecno-scientifica e la fatica morale della cultura e della formazione culturale. Il secondo è mantenere aperta la domanda dell’essenza, in modo da poter tornare ad esperire i grandi stati d’animo propri dell’essenza, ovvero lo spavento e la benedizione. Ma chi deve svolgere questo gravoso compito essenzialistico, e chi deve e può tornare ad esperire tale originario stato d’animo essenzistico? Forse i più, i molti, i tanti individui accalcati nelle masse? Non ce n’è bisogno e non è neanche possibile. Bastano i pochi, gli eletti, gli autentici che, magari da qualche cattedra di filosofia ben avviata del glorioso Reich tedesco, sanno e agiscono tacendo. Non c’è altro. Questa è la grandiosa filosofia di Heidegger, che giustappunto stava già tutta contenuta in Essere e tempo, ma solo in forma più urbana e controllata. Una filosofia per la quale Heidegger ha ragione di rifiutare l’etichetta di filosofia dell’esistenza, della quale anzi si fa beffe. Ad Heidegger, infatti, non interessa minimamente la situaziome umana dell’individuo contemporaneo, ma interessa la questione materialistica dell’essenza debilitata dal suo precipitare nell’essere. Una cabala irrazionale, insomma, sbocciata su una cattedra di filosofia tenuta da un filosofo tedesco di tendenze politiche antisemite.
2. Negli stessi anni in cui Heidegger metteva a punto questa (povera) fisica linguistica dell’essere, nella quale uno psicoanalista potrebbe scorgere una raggelata nostalgia del grembo materno, altri si interrogavano sulla natura e il compito della filosofia e dei filosofi. Uno di questi era György Lukács, che non ebbe timore di temprare l’essenza dell’essere nella corrente del divenire. Non mancano le comparazioni tra il vate dell’essere e Lukács, che andrebbero però rinfrescate, non foss’altro che per rimarcare che la reificazione, amputata della sua determinazione di merce, diventa una edulcorata protesta contro l’aggressione che l’essere subirebbe da un Gestell, la cui generica identificazione con la tecnica e la scienza non lo rende meno fuorviante ai fini di una corretta analisi dell’alienazione dell’essere sociale. E un altro che si interrogò sulla natura e il compito della filosofia e dei filosofi fu Antonio Gramsci, che casualmente, e per ben più tragiche circostanze, condivide con Heidegger la modalità di scrittura, i quaderni, ma il cui percorso è esattamente l’opposto di Heidegger. Tanto Heidegger, infatti, tiene alla fissità dell’essenza, tanto Gramsci è proteso al suo divenire: “tutto si muove”, poiché l’essenza si preserva se può slanciarsi nel divenire, che non è l’impulso meccanico di un esserismo verbalistico, ma una pratica etico-politica intesa come “tutto ciò che è possibile per mezzo della libertà”. E tanto Heidegger oppone alla fatica morale della cultura e della formazione culturale il disprezzo dell’autentico asserragliato nella cerchia degli eletti, tanto Gramsci fa della filosofia un compito di tutti, perché tutti sono dotati di quella cognizione il cui vertice normativo sta nella creazione permanente. Non meraviglia perciò che Heidegger e Gramsci mettano capo in teorie politiche ugualmente opposte: l’uno in una metapolitica etnica in cui il popolo tedesco è destinato dal suo “radicamento” alla missione mondiale di restaurare l’essenza dell’“esserci”; l’altro nell’egemonia, in cui il “popolo-nazione” supera il particolarismo etnico e culturale, e si inscrive nello sviluppo della cognizione universale.
3. L’approdo völkisch di Heidegger ci consente di tornare al paradosso di un filosofo che, partendo dai Greci, dà fuori una cabala antisemita. Michael Fagenblat, docente al Shalem College di Gerusalemme, ha osservato che Heidegger è il filosofo che, nonostante il suo antisemitismo, offre il miglior sostegno per un‘articolazione filosofica della teologia ebraica, in particolare delle “teologie del sionismo” sorte intorno alla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso4. Lo “scandalo” dell’antisemitismo di Heidegger, continua Fagenblat, basato sulla sua visione dello sradicamento metafisico dell‘Ebraismo mondiale, non deve indurre a facili indignazioni, ma deve spingere ad un confronto con «l‘abisso interno al pensiero ebraico»5. E alludendo all’affermazione con cui Heidegger, con l’usuale modestia, giustificò il suo coinvolgimento nel nazismo, ovvero “Grandi pensieri, grandi errori”, Fagenblat conclude: «il radicamento della teologia ebraica in una terra santa è il “grande pensiero” in cui noi ebrei vaghiamo oggi»6. Come si vede, qui siamo ben oltre il dibattito erudito sull’antisemitismo metafisico di Heidegger. Infatti, se la teologia ebraica, specie nelle sue più recenti manifestazioni sionistiche, è un “grande pensiero”, allora non si ha torto di pensare che siano in corso “grandi errori”. Beninteso, nella “terra santa” non è in corso nulla di comparabile all’Olocausto, e sicuramente Fagenblat sopravvaluta il ”grande pensiero“ tanto di Heidegger, quanto della teologia ebraica. Ma la sua tortuosa ammissione autorizza a pensare che l’esserismo, o meglio l’essenzismo, tanto nella versione heideggeriana, quanto in quella della teologia tardo-sionista, sia una sorta di ideologia permanente, a disposizione di chi, in nome della purezza di un mitologico inizio, intende imporre nel presente il suo dominio assoluto. E in questo complesso ideologico, forse che le “teologie del sionismo” non si rispecchiano paradossalmente nelle riesumazioni di altrettanti mitologici califfati, in cui restaurare con il jihad la purezza della sharia originaria? Chi si preoccupa, allora, che si possa prendere congedo da Heidegger, ritenendo che ormai non abbia più nulla da dire7, si tranquillizzi. Heidegger è quanto mai attuale, è anzi l’ideologo degli “abissi” contemporanei. Un’attualità sinistra, però, che richiede una presa di distanza per troppo tempo rimandata.
4. Fuori sacco, vorrei far notare che la pur brava traduttrice dei Quaderni neri incorre in una imprecisione traducendo völkisch con nazionalistico. Con tale termine, infatti, si perde la fondamentale connotazione etnica di völkisch, senza considerare che nazionalistico, nasce in Herder con una connotazione negativa che l’italiano mantiene. Si sarebbe potuto tradurre con nazional-popolare ma, alla luce di quanto abbiamo visto circa la puntuale contrapposizione tra Gramsci e Heidegger, sarebbe stato provocatorio, poiché avrebbe volto in positivo un termine che, proprio a causa del suo etnicismo, gli eredi della Rivoluzione francese, nella cui temperie il termine nazional-popolare è coniato, giudicano a ragione come regressivo e reazionario. Ma qui ciò che importa è rendere in italiano il punto di vista di Heidegger, per il quale völkisch è una qualificazione positiva dell’“esserci”. Traducendo con nazional-popolare, il lettore però avrebbe sempre dovuto tenere presente il fondo etnico da cui Heidegger muove. Sicché una soluzione più adeguata sarebbe stata etnico-popolare, che in italiano però non ha la scioltezza di nazional-popolare, e forse allora la soluzione più giusta sarebbe stata di lasciare il termine nell’originale tedesco e mettere tra parentesi il significato italiano di etnico-popolare8.
- M. Heidegger, Quaderni neri. 1931/1938, (2014), trad. it. di Alessandra Iadicicco, Milano, Bompiani, 2015. [↩]
- F. Aqueci, Modelli della comunicazione non-dialogica: Pareto e Heidegger, “Le Forme e la Storia”, n.s. II (1990), pp. 335-336, ora in Id., Ricerche semioetiche, Roma, Aracne, 2013, pp. 15-33. [↩]
- G. Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, Milano, Adelphi, 1998. [↩]
- M. Fagenblat, Quello che più mi spaventa. L‘antisemitismo di Heidegger e il ritorno a Sion, “Kasparhauser”, rivista on line di cultura filosofica, anno 4, numero 12, 2015, pp. 40-71, pp. 67 e 70. [↩]
- Ivi, p. 71. [↩]
- Ibidem. [↩]
- G. Vattimo, Non basta un Quaderno nero per liquidare Heidegger, “Il Fatto Quotidiano”, 12 dicembe 2015, p. 22. [↩]
- Ringrazio Nicolao Merker, dalle cui osservazioni su questo punto ho tratto utili chiarimenti. [↩]