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Nel segno del fallimento

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I più pensosi rilevano che una delle conseguenze della pandemia in corso è l’accentuarsi del conflitto tra Stato e regioni, e subito ti cominciano a parlare di quella calamità che è stata la riforma del titolo V della Costituzione. Ma c’è un significato di questo contrasto che non sia riconducibile a una dotta ma arida questione di diritto pubblico? Da dove sbuca fuori questo regionalismo che in pochi anni ha trasformato l’azzimata palandrana di Cavour in un chiassoso vestito di Arlecchino? Qui è bene ricordarsi della lezione del vecchio ma sempre attuale materialismo storico che insegna che sulla struttura economica si eleva la gigantesca sovrastruttura giuridica e politica ecc. ecc. E se la struttura italiana è sempre stata un organismo produttivo vivace, capace di produrre enormi ricchezze, non ha mai però saputo prolungarsi in una sovrastruttura che completasse e difendesse l’intera formazione nazionale. Alla metà del ‘500, in assenza di tale usbergo si ebbe la perdita del controllo dei propri interessi che diede il via libero definitivo al saccheggio da parte delle nuove potenze europee della ricchezza accumulata nei quattro secoli precedenti e causò la decadenza dei tre secoli successivi terminata solo con il Risorgimento. D’altra parte, il Risorgimento poté avviarsi grazie al portato giuridico e politico della Rivoluzione francese, sicché si può dire che se la borghesia comunale mancò di forza creativa perché non seppe annodare l’associazionismo cittadino in un saldo legame federale, quella risorgimentale creò il suo Stato per forza mimetica, senza un moto interiore quindi che fondesse in un tutto organico le singole parti che per secoli avevano languito le une separate dalle altre. Ciò nonostante, proprio perché caratteristica della struttura italiana è di essere quell’organismo capitalistico produttivamente vivace che si diceva, il nuovo Stato, benché spesso incespicando e addirittura a volte cadendo rovinosamente, assolse in parte quella funzione di corazza in grado di proteggere e promuovere la produzione di ricchezza nazionale, come si vide soprattutto nel trentennio 1945-1975, quando anche la vecchia divisione tra Nord e Sud, risalente al modo in cui l’Italia venne fuori dai secoli del disfacimento romano, fu in qualche misura intaccata. Si ebbe quindi in quest’epoca di relativa rinascenza un nuovo e imponente accumularsi di ricchezza che da qualche decennio è concupita dai concorrenti capitalismi ormai non più solo europei, parallelamente alla ricorrente incapacità di proteggerne il perimetro con una adeguata sovrastruttura. Il regionalismo, allora, portato avanti con argomenti pseudo-federalistici è l’alienazione in una politica avulsa dalle concrete sfaccettature della struttura produttiva italiana, che ha come protagonisti non più i casati nobiliari, i capitani di ventura o le meteore sorte dai ceti subordinati come nei secoli dei Comuni, ma le fazioni, i “leader” e le cuoche ambiziose di governare lo Stato che emergono dall’incessante processo elettorale, divenuto lo strumento per accaparrarsi briciole di ricchezza nazionale, nel mentre che gli altri capitalismi depredano le fortezze e casematte in cui nei decenni scorsi si è cristallizzato il vitalismo produttivo della struttura. È un altro ciclo borghese che si compie nel segno del fallimento, senza che dai subordinati, nel frattempo addirittura sdegnosi di sentirsi definire “subalterni”, venga un progetto nuovo che pure alla metà del secolo scorso per un momento sembrò prendere corpo. Tutta la nazione così ancora una volta si inebria del gioco machiavellico della politica mentre, e chissà per quanto tempo, perde di nuovo il controllo dei propri interessi.