Severino

Le lotte di classe acefale in Francia

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In Francia, da due mesi ormai le lotte di classe, dal cielo del parlamento e del dibattito pubblico sono debordate in strada nell’aperto conflitto con le forze dell’ordine. Ci sono diversi fattori che hanno spinto a questo esito. Anzitutto si è acuita la contraddizione di base di ogni rivoluzione, cioè il contrasto tra le forze produttive moderne e le forme capitalistiche di produzione (Marx). Il conflitto è scoppiato nel settore dei trasporti, dove la tecnologia fa intravvedere la possibilità di mezzi di trasporto meno inquinanti e automatizzati. Ma questo sviluppo di forza produttiva avviene senza che venga modificata la concezione individualistica del trasporto. Anzi, quest’ultima viene rinforzata: perché prendere un autobus affollato, se posso avere una macchina non inquinante e automatizzata? Se poi questa macchina è anche condivisa (car sharing), c’è pure la magia di una forma collettiva di trasporto individuale. La premessa occulta di tutta questa costruzione è che non esistano tecnologie che possano rendere i mezzi di trasporto pubblico non inquinanti, automatizzati e comodi da prendere. Impostata la tecnologia sulla fruizione privata del trasporto, i vincoli che ne discendono (strade fornite di sensori, ecc.) limitano l’innovazione alla ristretta cerchia urbana, contro la più estesa e disagiata campagna. La tecnologia diventa così la base falsamente oggettiva di una inevitabile disuguaglianza, che trasforma in anti-moderni coloro che, subendola, si ribellano. C’è insomma un nesso strutturale, tecnologico e sovrastrutturale che eternizza la vecchia concezione egemonica, legittimando l’appropriazione capitalistica dell’avanzamento tecnologico. Le punte più aperte della filosofia idealistica contemporanea riconoscono l’esistenza delle forme capitalistiche di produzione, ma semplificano quel nesso opponendo la “tecnica” al “capitalismo” (Severino). In realtà, la tecnica è al servizio dell’egemonia, poiché serve a tacitare nuove concezioni, la cui oggettivazione metterebbe in crisi le forme capitalistiche di produzione. La protesta dei gilet gialli si esprime immediatamente come difesa della vecchia macchina diesel, inquinante ed essa stessa portatrice di una concezione individualistica, ancorché rurale, del trasporto. Indirettamente, però, la loro lotta evidenzia il limite di un assetto egemonico la cui permanenza ostacola l’intera totalità sociale, poiché crea diseguaglianze e favorisce la sola concezione che va d’accordo con l’appropriazione capitalistica, quella individualistica. Qui si coglie un significato essenziale del contrasto tra le forze produttive moderne e le forme capitalistiche di produzione che, se inteso economicisticamente, si perde: la lotta di classe avviene sul terreno ampio dell’egemonia, poiché la protesta contro la diseguaglianza e l’ingiustizia non può risolversi in un puro atto redistributivo, ma deve essere in grado di rimettere in questione intere concezioni che reggono la prassi sociale in ogni suo settore.

Le odierne lotte di classe in Francia presentano però un carattere politico specifico che spiega perché stentino a radicarsi sul terreno della lotta egemonica, e ristagnino nella rabbiosa lotta di strada. La Francia, da un buon cinquantennio, controlla la forma capitalistica di produzione grazie al sistema politico gollista che, in nome dell’ideologia repubblicana antifascista, tiene ai margini la tradizione passatista e risucchia al centro ogni velleità di cambiamento. Questo gioco però si è esaurito con la presidenza Hollande, in cui quel che restava del socialismo, con il suo totale ralliement alle esigenze produttive e al modo di vita imposto dal capitalismo finanziario europeo (austerità + consumo), ha definitivamente dilapidato ogni residua possibilità di condurre vittoriosamente anche solo un barlume di lotta di classe nelle istituzioni esistenti (Engels). Di fronte a questa immane disillusione a sinistra, e al residuo ma sempre più stanco persistere del discrimine antifascista a destra, la sortita di Macron (En marche) si è rivelata quindi, più che un incitamento (en marche!), una marche en solitaire, l’ultima fiammata di un sistema politico in cui minoranze privilegiate tiranneggiano, al netto di forme democratiche sempre più vuote, una maggioranza che si percepisce, quando non è effettivamente, più povera.

Una maggioranza, ecco un terzo fattore dell’esito conflittuale ma scarsamente egemonico delle attuali lotte di classe in Francia, che è tale perché, oltre al fronte proletario, la cui coscienza è stata però distrutta dall’opportunismo delle sue rappresentanze politiche, vi confluisce l’ampio ceto medio sparso in tutto il territorio nazionale, l’erede sociologico di ciò che nella Francia ottocentesca era l’immensa classe contadina, la quale non fu mai capace di nessuna iniziativa conseguentemente rivoluzionaria (Marx). Un po’ per questo suo carattere storico, un po’ per il carattere composito del fronte in cui confluisce, le lotte di classe che essa sta conducendo da due mesi a questa parte, appaiono acefale, un affrontamento che resta accanita lotta di strada, a volte sfociante in episodi truci ma militarmente impari, e sinora senza sbocco politico, poiché la richiesta di dimissioni del presidente della repubblica appare a tutti un salto nel vuoto, dal momento che solo il rabbuiato e paternalistico sparire e riapparire di De Gaulle davanti al maggio ’68 è l’unico modello di via d’uscita dalle crisi sperimentato dalla V repubblica. Vorrà il giovane Macron tentare questa strada? Visibilmente non ne ha la capacità, poiché ogni suo scomparire e ricomparire viene interpretato come l’arroganza di un debole Luigi XVI. E d’altra parte, le sue dimissioni aprirebbero la strada ad una lotta confusa tra raggruppamenti politici che da tempo indulgono in una più o meno aperta negazione di una netta demarcazione tra destra e sinistra, le quali non sono specie naturali, ma categorie che vanno difese e coltivate al fine di una corretta prassi politica. È insomma l’interregno “populista”, il lungo e caotico periodo intermedio tra egemonia in atto e nuova egemonia, che in Francia dilaga nello scontro di strada senza sbocco, e in Italia nel “contratto di governo” che prelude alla ciclica stabilizzazione moderata. In mancanza di un adeguato canale egemonico, culturale ed organizzativo, un’enorme energia rivoluzionaria viene così dissipata, senza che possa tornare utile ad incardinare la “riforma economica” (Gramsci), da cui trarrebbero vantaggio non solo le classi oppresse, ma l’intero assetto europeo contemporaneo, che ristagna invece in un plumbeo clima penitenziale, reso ancora più stridente dall’obbligo di godere in tutti i luoghi di consumo di cui quotidianamente abbisogna l’austerità per autoalimentarsi.

La metafisica del capitalismo di Emanuele Severino

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Ad Emanuele Severino, metafisico sommo, bisogna riconoscere il coraggio di essere uno dei pochi che, riferendosi all’odierna realtà del profitto privato, che con la sua dittatura soffoca la ricerca di ogni altra forma alternativa di produzione, non ricorre a perifrasi ed eufemismi, “economia di mercato” e quant’altro, ma usa il termine crudo e veritiero di “capitalismo”.

Nelle sue opere, Severino ha evidenziato quello che potremmo chiamare il paradosso del capitalismo1, e in un suo intervento giornalistico di qualche tempo fa lo ha collegato al fondamentalismo e al terrorismo islamico2.

Secondo Severino, dal punto di vista capitalistico, il fondamentalismo e il terrorismo islamico sono forme degenerate del passato. Il capitalismo, invece, è il tempo intermedio tra il passato e il futuro, in cui esso ristagna per ignoranza filosofica. Infatti, se il capitalismo, spinto dalla sua intrinseca natura utilitaristica, non rifiutasse l’“inutile” conoscenza filosofica, vedrebbe che l’agire non ha alcun limite intrinseco, come invece pretende la falsa conoscenza del passato. D’altra parte, se acquisisse tale nuova conoscenza filosofica, e trapassasse nella pura e incontrollata potenza dell’agire, esso cesserebbe di essere capitalismo e diverrebbe altro da sé, cioè uno strumento subordinato della tecnica.

Per Severino, il paradosso del capitalismo è lo stesso in cui è intrappolato l’Islam. L’Islam identifica il capitalismo con Satana, ma non vede che rispetto a sé, e alla stessa religione cristiana, il vero Satana è la voce filosofica, l’inutile “voce del sottosuolo”, come egli la chiama con una metafora dostoevskiana, la quale chiarisce la potenza della tecnica, mettendo così la tecnica nella posizione di poter abolire tutti i limiti posti dal passato, che la voce ha dimostrato inesistenti, e quindi anche i limiti che l’Islam pone alla tecnica in nome del passato.

L’Islam, però, sostiene Severino, avrebbe un vantaggio rispetto al capitalismo, quando usa terroristicamente la tecnica moderna contro gli infedeli. Tuttavia, esso non solo è in ritardo rispetto alla gestione capitalistica della tecnica, ma, come già detto, pone a sua volta limiti alla tecnica ancora più rigidi di quelli che il capitalismo le pone non ascoltando la voce del sottosuolo in nome dell’utile immediato. Come il capitalismo, dunque, e nel conflitto con il capitalismo, anche l’Islam si avvia all’estinzione.

Certo, conclude Severino, l’Occidente, che è il luogo in cui per prima la voce filosofica del sottosuolo ha fatto conoscere l’illimitatezza della tecnica, può giungere al massimo della sua potenza rispetto all’Islam. Ma quando questo accadesse, quando il capitalismo si imponesse su ogni avversario, sia esso il cristianesimo o l’Islam, in quel momento cesserebbe di esistere, perché a vincere non sarebbe il capitalismo, bensì la tecnica dalla potenza illimitata, liberata cioè anche dai limiti che il capitalismo, in quanto età di mezzo che ignora l’inutile voce filosofica del sottosuolo, ancora le pone.

Come si vede, tutto ruota attorno alla “voce del sottosuolo”. E che cos’è tale voce, se non una trasfigurazione della conoscenza delle leggi oggettive della struttura? Severino probabilmente si ritrarrebbe contrariato da un simile accostamento “storico-materialistico”, ma tutto il suo ragionamento vi converge. La sua concezione della tecnica, suo storico cavallo di battaglia che egli cavalca senza la perfida malafede del mago di Todtnauberg, ne è una prova evidente. Per Severino, infatti, la tecnica non è solo la cultura, il sistema politico e il modo di vita, ma anche il modo di produzione che succederà al capitalismo, mettendo così fine al processo storico, divenuto un eterno presente.

E quindi non appaia fuori luogo opporgli la giustezza dell’affermazione di Gramsci, circa l’egemonia di Lenin come «grande avvenimento metafisico»3, perché organizza la dispersa volontà umana per finalizzarla non allo sviluppo economicistico, cioè tecnico, delle forze produttive, bensì allo stabilirsi di rapporti sociali da cui possa derivare lo sviluppo integrale della cognizione umana. La tecnica è dunque il destino dell’uomo se l’uomo resta prigioniero delle entificazioni produttive generate da un ascolto sbagliato della “voce del sottosuolo”. Al contrario, la tecnica diviene solo uno strumento se l’agire è impostato in modo ontologicamente corretto, cioè non scisso dall’ascolto, ma incorporato nell’organizzazione egemonica. Bisogna quindi distinguere tra agire e organizzazione. L’agire è illimitato, e quindi soggetto alla corruzione della tecnica. L’organizzazione è una potenza percettivo-motoria subordinata agli scopi “inutili” della cognizione umana. L’agire si reifica e ingloba in sé asservendolo l’agente; l’organizzazione è il controllo continuo da parte dell’agente del divenire dell’azione. L’agire è l’essere che si pietrifica, l’organizzazione è il divenire che sfida il nulla in cui l’azione può precipitare se non è istante per istante diretta alla sua “inutile” finalità.

Ovviamente, questa conclusione leninian-gramsciana per Severino è uno scandalo, lui che da una vita nega il divenire. Ma l’essere per il quale egli da una vita si batte è illusorio, poiché, pur scorgendo con le sue lenti metafisiche le condizioni materiali della cognizione umana, Severino rifugge dall’organizzazione egemonica. Si dirà che tutto il corso storico degli ultimi decenni giustifica tale rifuggire. Non è forse fallita in tutti gli scacchieri l’organizzazione egemonica? Non sta addirittura fallendo sotto i nostri occhi, oggi, in quell’America Latina che sembrava avviata verso il socialismo del XXI secolo?

Così, Severino, in suo ulteriore, recentissimo intervento, ha buon gioco nell’affermare che «non funziona l’idea che ci possa essere una forma storica così persuasiva e forte da impedire la dissoluzione delle cose del mondo»4. Ad un certo punto, infatti, la “voce filosofica del sottosuolo”, ovvero i Leopardi, i Dostoevskij, i Nietzsche, intervengono a mostrare «l’impossibilità di ogni eterno, di ogni unità definitiva del mondo»5. Ma, viene qui da obiettare, Severino, come abbiamo già prima ricordato, non ha forse passato tutta la sua vita filosofica a mostrare che la follia dell’Occidente è stata di allontanarsi dall’essere di Parmenide? In questo suo ultimo intervento, Severino illustra la pretesa dell’uomo di divenire altro da ciò che è, con il mito di Adamo che mangia la mela di Eva per divenire, da uomo che è, il Dio che vuole essere6. Con questo mito profondamente radicato nella tradizione occidentale, l’uomo ha allora inscritto tutta la civiltà sotto il segno di una colossale alienazione. E qui si chiarisce, allora, che in realtà Severino vuole emendare questo errore, curare questa follia, non con l’essere, non con un ritorno all’essere, ma con una modulazione tutta sua della “voce del sottosuolo”, ossia con il nulla che altro non è, se non la morte. Con quella morte che, come egli stesso ammette, lo mette di buon umore, e di cui teme solo il dolore e l’agonia7.

Un macabro ghigno, dunque, che Severino ha buon gioco di rivolgere pure all’Europa. Infatti, se tutti i grandi eventi della storia sono un tentativo di superare l’angoscia della separazione delle cose, che il divenire causa rispetto all’unità originaria dell’essere, e se tutte le figure della storia europea sono un tentativo di unificazione per superare la separatezza degli elementi che caratterizzano la terra del tramonto, allora, così come l’Occidente, anche l’Europa è nata vecchia, cioè sotto il segno dell’errore, della follia di voler unificare la dissoluzione delle cose del mondo8.

La scommessa di Severino è dunque che l’alienazione originaria da cui proviene l’Europa, l’Occidente, e ormai la civiltà mondiale, sia reintegrabile non tramite l’infinita e positiva pluralità di una forma che si trae incessantemente dal nulla che vorrebbe inghiottirla, ma nella morte che il divenire apporta alle cose, poiché è tramite la morte che, negando la spinta dissolutrice originaria, si può tornare all’essere. È un viluppo logico che, ogni volta che si attenua la spinta costruttrice dell’organizzazione egemonica, sembra elevarsi a verità storica. Ma la scommessa storica, in cui a ben pensarci consiste la vita dell’uomo, sta proprio nello smentire istante per istante quel viluppo logico che, senza quello sforzo contrario, attirerebbe l’uomo nella spaventevole beatitudine della morte.

  1. Da ultimo, in E. Severino, Dike, Milano, Adelphi, 2015, pp. 189-190. []
  2. E. Severino, Sfida tra Islam e Occidente. Il vincitore è la tecnica, “Corriere della sera”, 10 aprile 2016, supplemento “La Lettura”, pp. 6-7. []
  3. Quaderni del carcere, ediz. cr. Gerratana, 7, § 35, p. 886. []
  4. A. Gnoli, Intervista a Emanuele Severino, “la Repubblica”, 19 marzo 2017, p. 70. []
  5. Ibidem. []
  6. Ibidem. []
  7. Ibidem. []
  8. Ibidem. []