Sicilia

Il gattopardismo, ideologia universale del capitalismo

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Nella Sicilia che si avvia al voto, una frenesia immobile percorre i raggruppamenti politici. Tutti promettono il cambiamento, tutti coniugano il futuro, tutti si proiettano sul domani, ma le vecchie facce, i vecchi nomi, le vecchie cordate presidiano come sempre i loro territori, pronti a riciclarsi nell’ennesima rivoluzione passiva. Imputare questo costume ai soli siciliani, sarebbe però a dir poco ingeneroso. Ormai tutti, o con rassegnata disillusione o con malcelata rivendicazione, si confanno all’assioma secondo cui «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», e semmai ci si deve chiedere com’è potuto accadere che il gattopardismo sia divenuto una regola universale. Tomasi di Lampedusa era uno scrittore, ma nel suo romanzo ha descritto meglio che un teorico questa ideologia, facendola apparire nelle parole e nei comportamenti dei suoi personaggi, alti e bassi, dominanti e dominati, intellettuali e minuta gente del volgo. Il principe Fabrizio e il nipote Tancredi sono naturalmente quelli che la incarnano per eccellenza, il primo con disincanto il secondo con fervore, ma lo scopo è lo stesso, conservare il potere: «se non ci siamo anche noi, quelli ti combinano la repubblica. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. Mi sono spiegato?». Ma su quale concezione poggia questa spregiudicata regola d’azione? Anzitutto, il naturalismo: ciò che conta non è il caotico mondo sociale, ma il regolare mondo fisico. Così, nelle ore in cui ferve lo sfrenato movimento politico che abbatte i Borbone e innalza i Savoia, «sostenuti, guidati, sembrava, dai numeri, invisibili ma presenti gli astri rigavano l’etere con le loro traiettorie esatte. Fedeli agli appuntamenti le comete si erano avvezze a presentarsi puntuali sino al minuto secondo dinanzi a chi le osservasse. Ed esse non erano messaggere di catastrofi: la loro apparizione prevista era anzi il trionfo della ragione umana che si proiettava e prendeva parte alla sublime normalità dei cieli». La ragione umana è tale, dunque, perché è in sintonia con la perfezione matematica della natura, dalla cui altezza può guardare con distacco agli appetiti e alle passioni del mondo storico-sociale: «Lasciamo che qui giù i Bendicò inseguano rustiche prede e che il coltellaccio del cuoco trituri la carne di innocenti bestiole. All’altezza di quest’osservatorio le fanfaronate di uno, la sanguinarietà dell’altro si fondono in una tranquilla armonia». Perché il gattopardo, se ha un problema, è «quello di poter continuare a vivere questa vita dello spirito nei suoi momenti più astratti, più simili alla morte». Questa astrattezza funerea, che fa del dominante più un meccanismo naturale che un prodotto sociale, non impedisce però al gattopardo di vivere nel mondo, anzi, egli sa benissimo che «viviamo in una realtà mobile» alla quale bisogna adattarsi «come le alghe si piegano sotto la spinta del mare». Ritorna il naturalismo, ma il Principe spiega a Padre Pirrone, l’arrovellato intellettuale organico di una istituzione cui il gattopardo riserva solo un formale ossequio, che se «alla Santa Chiesa è stata esplicitamente promessa l’immortalità; a noi, in quanto classe sociale, no». Per la classe dominante, «un palliativo che promette di durare cento anni equivale all’eternità». Un pragmatismo assoluto, dunque, che baratta volentieri la dimensione spirituale, per quanto immortale, con il potere materiale, per quanto caduco. In questo mondo di cieche forze fisiche, in cui per sopravvivere, cioè per comandare, non bisogna nutrire nessuna fede, l’unica regola che vale è il calcolo politico. Così, se Garibaldi, l’avventuriero mazziniano tutto capelli e barba, è venuto quaggiù, non bisogna poi preoccuparsi tanto; vuol dire che il Galantuomo, il re Savoia, un altro della razza che comanda, è sicuro di poterlo imbrigliare. E Tancredi non può che essere l’alfiere di un contrattacco che, sotto mutate fogge, il vecchio ordine può portare contro il nuovo. Certo, ha bisogno di soldi, «e per farsi avanti in politica, adesso che il nome avrebbe contato di meno, di soldi ne occorrevano tanti: soldi per comperare i voti, soldi per far favori agli elettori, soldi per un treno di casa che abbagliasse». Dunque, lo sposalizio con Angelica, l’angelo sorto dagli inferi del denaro, la terra divenuta liquida. E quando Tumeo l’organista, altro intellettuale organico, preposto al bello quanto Padre Pirrone lo è al bene, categorie di una scheletrica esistenza, protesta con il Principe per il suo tradimento di classe che lo getta nella costernazione, come può infatti un Tancredi Falconieri sposare una volgare Angelica Sedara?, il Principe, benché furente di collera, riconosce che «Tumeo aveva ragione, in lui parlava la tradizione schietta. Però era uno stupido: questo matrimonio non era la fine di niente ma il principio di tutto; era nell’ambito di secolari consuetudini». Ma in quest’arido mondo sociale, mero dettaglio delle sterminate regolarità naturali, anche il calcolo di potere, per quanto scevro di illusioni spirituali, ha bisogno di una qualche fronda ideologica. E il gattopardo, che è pur sempre un animale politico dotato di linguaggio con il quale calcola l’utile e il nocivo, il giusto e l’ingiusto, ha una sua corposa ideologia. Una ideologia che rientra sempre nel suo naturalismo di base, in cui il giusto e l’ingiusto coincidono con il suo utile o il suo disutile, ma pur sempre un’ideologia. Così, al piemontese Chevalley, onesto funzionario della rivoluzione passiva, che gli propone di divenire un esponente di punta del nuovo ordine, il Principe spiega che lo sfrenato movimento che tale ordine vuole imprimere al corso sociale, non potrà facilmente dispiegarsi, perché «il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di “fare”. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso». Che paradosso! Un dominante che si sente un estraniato subalterno! Come può essere? Può essere. «Ho detto i Siciliani – continua infatti Fabrizio rivolto allo stupìto Chevalley – ma avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali». Ecco che ritorna la natura. La natura è il fondamento oggettivo della regola che tutto cambi perché tutto permanga, ma è anche la giustificazione soggettiva del comportamento che fa sì che tutto cambi perché tutto permanga. La giustificazione è ben congegnata, perché non è arrogante, ma illuminata da una superiore intelligenza, che si compiace di mettere in evidenza il proprio irrazionale fondamento: «i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla». Così, al naturalismo, al calcolo di potere, si affianca un nichilismo senza scampo per l’uomo intrappolato in questo inferno paradisiaco e per i risultati del suo comportamento. Perché il potere è dappertutto, in alta Italia, in Francia, in Inghilterra, ma se qui dà così cattivi frutti, «la ragione della diversità deve trovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità». Su questa lucida disamina, benché tutta morale, si potrebbe costruire un programma attivamente rivoluzionario, ma il gattopardo dovrebbe rinnegare se stesso. Ecco perciò l’ultimo tocco del quadro, il paternalismo: «questi sono discorsi che non si possono fare ai siciliani». L’uomo di potere, infatti, sa quali sono le verità che i subalterni possono conoscere, e quelle che nuocerebbero alla loro infantile coscienza. Perciò tutto ritorna a piombo sul proprio potere, che è oggettivo come il moto di un astro. E che se mai un giorno dovesse tramontare, sarà per cedere il posto ad un potere altrettanto oggettivo ed assoluto. Questa è una verità che il gattopardo non enuncia in prima persona, poiché l’autore, equanime, la fa dire a Padre Pirrone mentre parla con un uomo del volgo, l’umile erbuario don Pietrine: «e vi dirò pure, se, come tante volte è avvenuto, questa classe dovesse scomparire, se ne costituirebbe subito un’altra equivalente, con gli stessi pregi e gli stessi difetti: non sarebbe più basata sul sangue forse, ma che so io… sull’anzianità di presenza in un luogo o su pretesa miglior conoscenza di qualche testo presunto sacro». Questo presunto testo sacro è la Bibbia o Il Capitale? Qui sembra trasparire il motivo di una certa polemica conservatrice à la Pareto. Ma se è così, di quel paradigma il romanziere mutua anche l’onesto realismo, e non esita perciò a riconoscere che, in quest’universo di sfere che girano su se stesse di un moto perfetto, don Pietrine è l’atomo che devia dalla traiettoria. Al lungo sproloquio che gli infligge Padre Pirrone, egli infatti replica chiedendogli come è stata sopportata dal principe di Salina la rivoluzione. E alla risposta del gesuita, in tutto e per tutto allineata con la concezione del padrone cui monda periodicamente la coscienza, «non c’è stata nessuna rivoluzione e tutto continuerà come prima», l’erbuario obietta fulminandolo: «evviva il fesso! E a te non pare una rivoluzione che il Sindaco mi vuol far pagare per le erbe create da Dio e che io stesso raccolgo? o ti sei guastato la testa anche tu?». Il che d’un colpo e con semplicità svela, da un lato, quanto spontaneamente perspicace sia la percezione dell’ingiustizia da parte dei subalterni, dall’altro quanto pesi su di essi l’ideologia del gattopardo, la concezione di una finta natura che serve a mettere sempre nuove tasse sulla vera natura che Dio ha creato per tutti. E questo, alla fine, potrebbe spiegare com’è potuto accadere che il gattopardismo, nato e cresciuto nell’arretrata Sicilia, sia divenuto una regola universale. Il gattopardismo è l’ideologia di un potere che riduce la società alla natura, dopo avere ovviamente privatizzato la natura, e averla ridotta alla misura del proprio sentire e della propria ragione. E siccome il mondo d’oggi è totalmente dominato da questo potere, un potere che è maleducato chiamare con il nome storico che gli si addice, il potere capitalistico, allora il gattopardismo è l’«inferno ideologico» non solo siciliano, come denunciò lo scrittore, ma universale. Si dirà, ma c’è qualcosa di stonato in questo discorso. Il gattopardo era nobilmente conservatore, le piccole volpi di oggi sono troppo ignoranti per pensare che valga la pena di conservare. Ma quando si dice che, nei “paesi avanzati”, destra e sinistra non hanno più senso, non si eleva forse a sistema il gattopardismo? Che poi i gattopardini odierni, da Macron a Di Maio, non abbiano la grandezza di Fabrizio e la stoffa di Tancredi, perché meravigliarsi? Tutto ciò che diventa seriale e di massa si svalorizza, il nichilismo perde la sua aura, la poesia diventa prosa. E invece ciò che resta immutato, ma anzi si indurisce, è proprio quel potere capitalistico che Fabrizio e Tancredi, caratteri di superfice di immobili trasformazioni strutturali, annunciano al suo sorgere, e contro cui ancora oggi, più di ieri, tutti i don Pietrine del mondo protestano e si infuriano, anche perché stufi dei grandi ragionamenti dei tanti Padre Pirrone che, famelici di cooptazione negli esclusivi apparati di consenso, diventano esperti di una presunta oggettiva scienza sociale che però celebra sempre il trionfo del padrone.

Liberatori

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Oggi, su “la Repubblica”, p. 34, Francesco Bei segnala alcuni libri che ripercorrono con nuove testimonianze lo sbarco angloamericano in Sicilia, nel luglio del ’43. Ecco una di queste testimonianze, riguardante la cosiddetta battaglia di Biscari, dal nome dell’aereoporto di una località del ragusano: «Gli avieri italiani, aiutati da qualche elemento della “Goering”, si trincerano all’aeroporto di Biscari e ingaggiano quella che viene ricordata come la più dura battaglia della campagna siciliana. Al termine il tenente li raduna nell’ultimo avamposto: “Avieri, vi siete battuti bene”. Ne restano vivi meno di 40. Si arrendono e vengono consegnati al sergente Horace West, che li dispone in fila lungo un fossato. L’aviere Giuseppe Giannola viene ferito a un braccio e alla testa. Ma la sua giornata gli riserva un’altra tragica sorpresa. Medicato da un’ambulanza militare, aspetta la sorte sul ciglio della strada: “È arrivata una Jeep con tre soldati. Quelli davanti sono scesi: penso mi avessero scambiato per uno di loro. Mi parlavano sorridendo, poi si sono accorti che non capivo. Li ho visti guardarsi in faccia: quello con il fucile ha indicato all’altro la Jeep, lo ha mandato via. È rimasto solo, in piedi, di fronte a me. Io ero seduto, lui mi fissava. Poi ha imbracciato il Garand, ha mirato al cuore e ha sparato”. Eppure, miracolosamente, Giannola “resuscita” una seconda volta perché il proiettile non colpisce organi vitali». West, processato poi negli Stati Uniti, si difese affermando che «avevamo l’ordine di prendere prigionieri solo in casi estremi». Fu condannato, graziato e reintegrato in servizio come soldato semplice. Ed ecco l’ordine, direttamente, dal generale Patton: «Se si arrendono quando tu sei a 2-300 metri da loro, non pensare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola e poi spara. Si fottano. Nessun prigioniero». Avendo sparato da una distanza inferiore ai 2-300 metri, si può dire tecnicamente che il sergente West disobbedì agli ordini. All’epoca, Apocalypse Now fu un onesto tentativo di riflessione “metafisica” su questa follia omicidiaria al servizio di una implacabile volontà di potenza, all’opera immutata nella Sicilia del ’43 come nel Vietnam degli anni Settanta, nell’aggressione all’inerme Grenada degli anni Ottanta come nell’Afghanistan e nell’Iraq dell’inizio del nuovo Millennio. Ma tutto il lavoro resta ancora da fare, perché è difficilissimo divincolarsi dal punto di vista del “liberatore”, introiettato dai “liberati”, su cui si fondano ideologie, tra cui lo stesso antifascismo, che hanno accomunato vittime e carnefici, assolvendo gli uni e imponendo alle altre di giustificare la violenza subita in nome di valori universali. E viene in mente La ciociara di Moravia che, sotto la generica denuncia della violenza della guerra, è una riflessione precocissima su una potenza che stupra il mondo, annichilendo le sue vittime, costrette poi ad un’esistenza deumanizzata, dove il flusso generale delle merci può scorrere senza più l’impaccio dei minuti scambi dei mondi particolari. Quando gli analisti di JP Morgan denunciano le Costituzioni antifasciste dei paesi del Sud Europa come fattori di rallentamento di tale flusso, si arriva al paradosso che l’antifascismo, già ideologia che occulta alle vittime il proprio massacro, non può più essere tollerato neanche in questa estrema funzione anestetica. È giunta l’ora, infatti, che il vinto si stacchi definitivamente dalla sua essenza, di cui un’ombra residuava nell’ideologia che l’accomunava al vincitore, e pervenga alla “novità categoriale” di un mondo senza storia. C’è da chiedersi perciò se, di fronte alla “smisuratezza” del vincitore, non sia venuto il momento per il vinto di denunciare l’impostura di un complesso ideologico – l’antifascismo, la libertà americana, il consumo – che, se nell’asservimento gli ha regalato una parvenza di umanità, gli chiede ora di estraniarsi del tutto da sé.