Sraffa

Sraffa, le carote e la pericolosità dell’economia politica

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Ora che le note manoscritte di Sraffa cominciano a circolare,1 si capisce meglio perché Wittgenstein dicesse che, dopo una discussione con Sraffa, ci si sentiva come un albero spogliato di tutti i suoi rami. Le domande che Sraffa pone e si pone sono infatti spiazzanti, tali da non permettere mai di poterlo ascrivere ad un paradigma (i classici, Marx, i marginalisti). Antidogmatico, antimetafisico, realista, conscio dell’importanza della storia, come luogo in cui la mente sociale prende forma nelle concrete lotte di classe. Il materialismo storico, perciò, non è un a priori ideologico, ma un canone scientifico per spiegare la questione politica di quale «abisso di incomprensione» si sia aperto tra gli economisti classici e i marginalisti, tra l’economia politica e la scienza economica. Una incomprensione, appunto, non ristrettamente intellettuale, accademica, ma attinente alla mente sociale, che è tale se incorpora le divisioni di classe (mind class).

E, dunque, il valore come questione cruciale di questa incomprensione storico-sociale. Il valore proviene dal lavoro? «È una concezione puramente mistica quella che attribuisce al lavoro umano il dono speciale di determinare il valore». In effetti, si chiede Sraffa, che differenza fa per il capitalista, che è il vero soggetto di valutazione e scambio, pagare un salario o servirsi di uno schiavo? Lo stesso potremmo dire del valore linguistico. Che differenza fa se un enunciato è prodotto da un apparato fonatorio umano o da un sintetizzatore vocale? Ecco i materialisti duri e puri pronti a strapparsi le vesti: come, le forme storiche del comando sul lavoro, e la pienezza della “voce”, tutto ciò non ha forse importanza? Ma schiavo, salariato o macchina, una volta che il capitalista-imprenditore “enuncia” i fattori della produzione, il valore non è forse comunque prodotto? Dunque, radicale posizione antimetafisica, a costo di prosciugare l’oggetto, sin quasi a disseccarlo. Ma è il prezzo da pagare se si vuole vedere in fondo al pozzo del valore, in cui galleggiano… le carote. Con quel understatement che è del personaggio, e che Cambridge ha potuto solo affinare, Sraffa si chiede, infatti, se le carote sono necessarie se vogliamo che un asino funzioni. Solo che ci sono due tipi di carote: quelle che dobbiamo avergli dato prima per consentirgli di lavorare (altrimenti sarebbe morto), e quelle che devi mostrargli e promettergli per indurlo a lavorare. Il primo genere di carote cade sotto la categoria delle cause efficienti. Il secondo, sotto quella delle cause finali. Categorie quante altre mai differenti. La carota retta dal regime delle cause efficienti, infatti, è un numero definito o un peso di carote vere, determinato da condizioni fisiologiche, e dal momento che l’asino le ha effettivamente consumate, è stato possibile pesarle e sapere esattamente fino all’oncia la loro quantità: nessun trucco, nessun inganno. Le carote rette dal regime delle cause finali non hanno nemmeno bisogno di essere vere carote, perché si potrebbe trattare di un purè di carote di carta, strofinate contro carote vere per assorbirne l’odore, che semplicemente mostriamo al povero asino, al quale potremmo anche mostrare un bastone travestito da carota, o potremmo addirittura dargli alla fine della sua giornata lavorativa quel bel puré di carote di carta. Certo, l’indomani l’asino non funzionerebbe al meglio, e inoltre ai suoi occhi avremmo perso qualsiasi credibilità. Perciò, dato all’asino quel che è dell’asino, che cosa si vuole dimostrare con questa storia delle carote? Una cosa semplice ma fondamentale, e cioè che mentre l’economia classica si occupava di cause efficienti e di carote vere, la scienza economica pattina sulle cause finali e le carote immaginarie. L’economia classica si occupava di “cose materiali” esistite nel passato, mentre l’economia moderna si occupa di speranze per il futuro, come utilità, astinenza, disutilità, insomma, illusioni. L’economia politica era una scienza delle cose, la scienza economica è una scienza delle illusioni. Da ciò consegue che nei classici il valore è la quantità di lavoro incorporato nelle merci, e che nei moderni il valore sparisce perché la scienza economica è divenuta scienze delle illusioni del soggetto, che ha preso il posto del sistema. Sraffa, che ha evidentemente un penchant per la cristallina scienza dei classici, qui sembrerebbe aderire ad una concezione “referenzialista” del valore. Ma egli non si fa intrappolare dal suo pur robusto realismo e, continuando a scorticare la questione, non si nasconde che nei classici, compreso Marx, il lavoro che produce valore è un residuo metafisico. Per Sraffa, infatti, lavoro è il nome non della quantità di lavoro incorporato nelle merci, ma dell’intero processo di produzione. Come dobbiamo intendere questa profonda intuizione? Si potrebbe forse tradurre dicendo che il valore non è il nebuloso significato che si riferisce ad una cosa fisica, ma neanche una tale metafisicheria da essere seppellita tout court dal soggettivismo della scienza economica. Né significato di un referente, né astruseria sostanzialistica, il valore, allora, può essere concepito come una proprietà normativa della struttura produttiva. Per analogia, è questo infatti che mostra il valore linguistico, il quale non è né il significato del segno, rinviante ad un referente, né il gioco illusorio del significante, ma è una proprietà normativa del sistema linguistico, descrivibile saussurianamente in termini di identità e differenza2. È Marx stesso, d’altra parte, a suggerire questa soluzione, quando nel Capitale afferma che «la determinazione degli oggetti d’uso come valori è un loro [degli uomini] prodotto sociale non meno del linguaggio». Il che significa che lo scambio economico non è una nomenclatura linguistica (cartellino del prezzo –> bene economico), e che il sistema economico non è una totalità additiva (prezzo + prezzo + n). Esso invece è un sistema di scambi, retto da valori la cui produzione, come evidenziò a suo tempo Claudio Napoleoni, socializza individui privati. Anche qui, dunque, come nel linguaggio, il fatto sociale della collettività presiede al sistema dei valori, la cui unica ragion d’essere è nel consenso generale derivante dalla possibilità che esso continui a generare valori. Senza di essi, infatti, gli oggetti che sorgono continuamente dal sostrato naturale dei bisogni e degli interessi, sono economicamente “indicibili”, cioè non scambiabili. Tali valori, infine, non sono fissati dagli individui, poiché il sistema funziona indipendentemente dal loro controllo e dal loro agire, cioè come cosa ad essi aliena ed estranea. E, riprendendo fiato, si ritrova qui quella che forse a Sraffa, nel suo spietato realismo antimetafisico, dovette sempre sembrare un retaggio non scientifico di Marx, cioè il feticismo della merce e l’alienazione capitalistica. Ma certi eccessi sono benefici, se possono servire a diradare equivoci e a porre domande stimolanti. Sraffa infatti conclude tutto il suo ragionamento chiedendosi cosa sia successo nel frattempo, per cambiare così tanto la mente degli economisti, e indurre i marginalisti a distruggere tutto ciò che i classici avevano fatto fino a quel momento. Solo un cambio di paradigma nell’algido cielo dell’epistemologia? No, fu il socialismo la causa di questa cesura. Infatti, l’economia politica classica, con il suo surplus da dividere secondo scelte dettate dai rapporti di forza, conduce direttamente al socialismo. Perciò, quando dopo la morte di Ricardo furono fatti i primi timidi tentativi di usare socialisticamente la sua teoria del valore, Senior & Mill & Cairnes si strinsero a coorte facendo dei costi un fatto psicologico. E quando Marx mosse il suo potente attacco, e la dilagante Internazionale minacciò la matrice sociale che generava quel determinato sistema di valori, fu necessaria una difesa ancora più drastica: non solo sacrificio, ma utilità, donde il successo dei Jevons, dei Menger, dei Walras e, non si può non aggiungere, dei Pareto. L’economia classica, insomma, stava diventando troppo pericolosa socialmente, e doveva essere demolita. Era una casa in fiamme che minacciava di incendiare la struttura dell’intera società capitalista, termine quanto mai felice per un sistema che funziona strutturalisticamente!

In conclusione, l’economia politica classica, con il suo valore come corrispettivo referenziale di una cosa fisica, il lavoro, era sbagliata perché metafisicamente sostanzialistica. Essa era però politicamente pericolosa, poiché implicava il socialismo. Abbiamo visto però che il valore, almeno in Marx, non è un residuo metafisico, e che Sraffa in qualche modo avverte ciò, nella misura in cui parla di lavoro come nome dell’intero sistema produttivo, autorizzando così una interpretazione strutturalistica, cioè saussuriana, dell’intera questione. Potremmo chiudere, allora, a nostra volta, chiedendoci quali sono le implicazioni politiche di una concezione “semiotica” del valore economico, ovvero quale mind class essa porta alla luce, che possa di nuovo insidiare la struttura dell’intera società capitalistica. La risposta è alquanto ovvia. La concezione “semiotica” del valore economico rianima il fantasma politico del feticismo della merce e dell’alienazione, contro cui tanto ad Oriente quanto ad Occidente muovono le truppe cammellate dell’economicismo globale. E il paradosso è che, al momento, mentre ciò che resta della sinistra è attestato sul fronte morale dei diritti civili, del merito, e dell’onestà, o scambia le lanterne cinesi per le lucciole del socialismo, l’unico che inconsapevolmente, e per tutt’altri fini, getta qualche manciata di sabbia in questo infernale meccanismo ontologico, è quel populista, quel plutocrate, quel demagogo di Donald Trump.

  1. Le note cui faccio riferimento in questo scritto, sono citate nel perspicuo saggio di Saverio M. Fratini, Sraffa on the Degeneration of the Notion of Cost, Centro Sraffa Working papers on line, agosto 2016, e possono essere consultate in originale al seguente link: https://www.trin.cam.ac.uk/Piero_Sraffa []
  2. Per una esposizione analitica di questa interpretazione, mi permetto di rinviare a F. Aqueci, L’arbitrarietà della merce, «Il pensiero economico italiano», a. XVII, n. 2, 2009, pp. 129-158. []

Non son solo canzonette

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 In un’intervista al Fatto Quotidiano1, l’editore Giuseppe Laterza rievoca i suoi studi giovanili di Economia e commercio, scelti perché da marxista figicciotto amendoliano quale era all’epoca, era convinto che bisognasse studiare la «struttura». Nel corso di questi studi, racconta Laterza, «facendo un esame scoprii che Piero Sraffa, economista grande amico di Gramsci, in un piccolo ma denso saggio, smontava il meccanismo della teoria classica della creazione del valore e contemporaneamente anche la teoria del plusvalore di Marx. Molto ingenuamente, in un attivo della Fgci, chiesi a Gerardo Chiaromonte come la mettevamo con la teoria di Sraffa. E lui mi liquidò così: “Ma cosa vuoi, son problemi filosofici…”. Per me era un problema decisivo, perché se non si riesce a dimostrare lo sfruttamento dei lavoratori crolla tutta la teoria di Marx. E rimane l’analisi laburista, cioè il conflitto per chi si prende la fetta grande dei guadagni. Ma non lo sfruttamento». Peccato che il pacioso Chiaromonte abbia liquidato così sommariamente il giovane Laterza, perché il punto da lui sollevato era tutt’altro che campato in aria. È vero che Sraffa ha fatto ciò che Laterza dice, ma questo non significa che egli abbia mostrato che il fatto sociale dello sfruttamento del lavoro non esiste. Sarebbe stato come voler nascondere il sole con il setaccio. Ciò che Sraffa ha mostrato è solamente che questo fatto sociale non è la causa economica del profitto. Per Sraffa, infatti, il sovrappiù è una proprietà tecnologica del sistema. Questo però significa che Sraffa fa dell’economia una scienza logicamente rigorosa, ma socialmente e storicamente muta. Che contrappasso, per lui che destabilizzò il logicismo di Wittgenstein, inducendolo alla “svolta linguistica”!2 Visto che l’economia assolve il capitalista, ci dobbiamo buttare allora tutti sul laburismo, come vorrebbe Laterza? Me se si riflette sui tanti autori così meritoriamente pubblicati e tradotti dalla sua casa editrice, dal vecchio Colletti all’inquieto Napoleoni, dall’olimpico Habermas al pugnace Sen, ma ahimé non il filosofico Lukács, si vede che nella realtà odierna, la merce non solo non è divenuta trasparente, mero rapporto tecnologico, come voleva Sraffa, ma si è fatta doppiamente opaca. Infatti, se da un lato lo sfruttamento sociale necessario a produrre il suo supporto oggettuale è stato occultato nel sottosuolo delle delocalizzazioni produttive, dall’altro, quello necessario a produrre il brand, vero fulcro del sistema, è stato nobilitato a prestigioso pseudo-artigianato autonomo. Il sistema, insomma, piuttosto che trasmutarsi in un meccanismo neutro e trasparente, così come voleva l’elegante soluzione di Sraffa, avvolge gli individui in un supplemento di alienazione, che addirittura, alla sua periferia, con il falso brand, si mescola inestricabilmente con il crimine, ovvero con un modo di produzione capitalistico non statuale. In tali condizioni, il dibattito pubblico, appare ben lontano dall’essere quell’arena laburistica accessibile a tutti, in cui si decide la spartizione della «fetta grande dei guadagni». Su di esso, infatti, non pesano solo restrizioni cognitive e pragmatiche, difficilmente sormontabili anche nell’ovattato modello di Habermas, ma ben più profondamente incidono le distorsioni che lo stesso modo di produzione opera, come avvertiva Lukács, sulla relazione tra soggetto e oggetto. Resta dunque il problema del superamento della fatticità reificata del sistema, cioè di quel rapporto puramente empirico e immediato con gli oggetti, funzionale ad un intervento su di essi di tipo calcolistico-strumentale. Una reificazione che, dopo tante illusioni, nutrite dallo stesso Lukács, almeno nella sua prima vita, possiamo dire che tocchi tanto il soggetto estraniato della “borghesia”, quanto il soggetto “proletario” della “presa di coscienza” disalienante. Questo è infatti il dato attuale che da Marcuse, autore quanto mai malcompreso, ai più onesti osservatori contemporanei, un nome per tutti, Luciano Gallino, non possono fare a meno di registrare, e cioè il fatto che la totalità capitalistica si è estesa, erodendo e annullando la posizione del soggetto alternativo, senza per questo irrigidirsi, anzi pervenendo ad una inarrestabile fluidificazione oggettuale. La “fatticità estraniata” si è rivelata quindi più forte della “presa di coscienza”. Questo però non ha pacificato l’essere sociale, né gli ha dato la chiave per l’equa distribuzione del sovrappiù, che invece è divenuta sempre più diseguale. Segno che la giustizia non è da porsi nel momento sovrastrutturale e distributivo del dibattito pubblico, ma in quello strutturale e produttivo del modo di produzione. E così siamo rimandati di nuovo al problema economico, che la soluzione di Sraffa evidentemente non ha affatto chiuso. Non bisogna perciò farla tanto facile, e prendersela, come fa Laterza, a conclusione del suo ragionamento, con il «retaggio marxista» che alimenta in Italia il «pregiudizio negativo nella sinistra contro gli imprenditori»3. Nessuno vuole ammazzare gli imprenditori, ma essi devono pur capire che non sono la soluzione, ma una parte del problema. Se l’economia di Sraffa li assolve, l’alienazione di Hegel, Marx e Lukács non li benedice. Oppure, vogliamo pensare come Gerardo Chiaromonte che, al fondo, sono solo canzonette filosofiche?

  1. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, intervista di Silvia Truzzi, “Il Fatto Quotidiano”, 13.7.2014, p. 18. []
  2. Su questo punto, cfr. A. Sen, Sraffa, Wittgenstein, and Gramsci, “Journal of Economic Literature”, Vol. 41, No. 4 (Dec., 2003), pp. 1240-1255 []
  3. Giuseppe Laterza, Croce, i libri e i ragazzi della Fgci. Il dovere di essere un editore, cit. []