La cosa più penosa era vedere i media di tutte le tendenze esorcizzare l’evento. Non facevano più cronaca ma pronunciavano dei vade retro. E mentre scorrevano immagini che nessuno di loro aveva girato, i corrispondenti emettevano accorate previsioni su quanto ancora sarebbe potuto succedere di peggio. Diciamolo, quest’aria funesta non era ingiustificata. Era accaduto che i rappresentati avevano invaso il palco della rappresentanza e avevano scacciato in malo modo i rappresentanti. La democrazia rappresentativa non c’era più. Certamente, la dissacrazione era opera solo di una parte, e la parte restante ribolliva di rabbia, come si capiva dal “now” con cui il nuovo presidente ingiungeva al vecchio di andare in tv e porre fine allo scempio. Si badi bene, non in piazza, non fra i suoi sostenitori che erano lì a due passi e su cui pure si poteva presumere che avesse un qualche ascendente, ma in tv. Bisognava insomma ricostruire, “now”, ciò che era stato distrutto, non solo la rappresentanza, ma la rappresentazione televisiva della rappresentanza. Tuttavia, l’aria sonnolenta (è proprio così, sembra che dorma in piedi) con cui quel “now” veniva scandito faceva sorgere tanti interrogativi. Come si era arrivati a tanto? Quale sentire era stato così profondamente sfidato da infondere a quella parte di rappresentati quel coraggio sconsiderato? Beh, intanto bisognava subito etichettarla, e dare un’idea del suo abominio: estremisti di destra, neonazisti, suprematisti, complottisti, negazionisti. E in effetti per molti aspetti si trattava proprio di quell’abominio, ma non una parola però sulla politica intrigante che con patti e promesse più o meno inconfessabili forma coalizioni, compatta interessi, aggrega cordate dietro le quinte della rappresentanza, il cui copione può essere così recitato nelle forme e nei riti che tutto lavano e purificano. Al momento della formazione della nuova compagine dei ministri, non era stato infatti annunciato che il ministero dei trasporti sarebbe stato assegnato al giovane sindaco che con il suo ritiro dalla contesa presidenziale aveva favorito il raccordo attorno al vispo, ehm, Joe Biden? Era l’egemonia, bellezza, ridotta però a un minuetto di incipriati convinti di poter soffocare nel buio della sala l’egemonia maior che si gioca tra la sala e il palco e che consente al palco di rilucere solo se la sala vuole. Quegli incipriati invece, al netto di qualche fischio, davano ormai per scontato questo consenso, la democrazia non è forse la fine della storia? E invece la storia stava per rimettersi in moto, era da mesi che le sue ruote sgommavano nel fango, ma quegli azzimati continuavano a pavoneggiarsi nei loro sparati bianchi, trattando posti e cariche da cui gestire l’eternità. Certo, quante altre volte l’esasperazione per un così sfrontato disprezzo era montata, la sala aveva rumoreggiato, ondeggiato, si era scagliata contro il palco, ma la sua furia alla fine domata? Cos’era accaduto questa volta per permetterle di invadere il palco e sloggiarne gli occupanti? C’erano dei filmati che lo mostravano: da un lato poliziotti che sparavano a bruciapelo, dall’altro barriere che si aprivano, gente in divisa che faceva filtrare i dimostranti, plotoni di poliziotti che menavano pugni nell’aria e spruzzavano peperoncino con cui al massimo condire una pasta scotta. Erano gli apparati di forza divisi e squagliati di fronte a ordini ambigui – la morte per un apparato di forza. Ed ecco dunque squadernate davanti alla platea mondiale tutte le budella del potere, donde l’orrore dei media che non riuscivano a rimetterle frementi e fumiganti nella pancia squarciata da cui erano fuoriuscite. Sudamericana, proruppe ad un certo punto il corrispondente davanti a tanto spettacolo, sì, era una situazione sudamericana, come quando, ignobili assassini, nel Cile degli anni Settanta gli aerei foraggiati dai cultori della democrazia avevano bombardato il palazzo di un presidente legittimamente eletto. Ecco, ora quella oscenità, quel sacrilegio che in quel remoto paese era stato ritenuto giusto e necessario accadeva lì dove mai nessuno avrebbe immaginato che la sacra rappresentanza potesse essere violata.
Trump
Il dolce stil novo della finanza che ha ammazzato la Grecia
Che giornata! Sul Corriere di oggi, sabato 17 giugno 2017, l’informazione sul massiccio sciopero dei trasporti di ieri, venerdì 16 giugno, si riduce alla semplice citazione, quasi en passant, della organizzazione sindacale che l’ha indetto: “la Confederazione unitaria di base (CUB) e sigle minori”. Per il resto, pur ammettendo che lo sciopero ha sconvolto l’Italia, ha cioè avuto una amplissima adesione da parte dei lavoratori, neanche una parola su cosa siano questa CUB e le altre “sigle minori”, e sul perché queste organizzazioni hanno indetto lo sciopero. Resoconto minuzioso, invece, dei gravi disagi patiti dai viaggiatori, intervista al docente di diritto del lavoro per approfondire i possibili, futuri provvedimenti da prendere contro scioperi del genere, e intervista finale alla segretaria generale della Cisl, che da tempo, tra un acquisto e l’altro di sedi faraoniche da parte della sua organizzazione, definisce “populismo sindacale” il sindacalismo cubista e siglo-minoritario. Il Corriere però si riscatta non nascondendo, in un riquadro in taglio basso, che il grande patriarca Helmuth Kohl, morto il giorno prima, aveva un lato oscuro, distribuiva mazzette per assicurarsi il controllo assoluto del suo partito, la CDU.
Lo stesso trattamento informativo, ehm, è riservato allo sciopero dei trasporti da Repubblica, che addirittura dà voce all’anatema del ministro contro le minoranze che prendono in ostaggio il paese, ma il giornale scalfariano si riscatta riportando, in un unico solo rigo su tre pagine di giornale, che “la vendita delle aziende di trasporto ai privati è una delle principali ragioni dello sciopero”. Se a qualcuno è rimasto in mente il debolissimo ricordo della famosa lettera del 2011, di Draghi e Trichet al governo italiano, da quel rigo solitario come il passero leopardiano potrà evincere che questi lavoratori cubistisiglominoritari stanno continuando a combattere l’austerità e le sue politiche, mentre tanti predicatori televisivi si sbracciano dagli schermi a spiegare che la crisi è finita.
Repubblica però ci dà una bella dritta su Kohl: “pensava come de Gaulle e Adenauer che l’economia è subordinata alla politica”, e forte di questa convinzione spinse per il varo dell’euro. Ecco, se non avesse scambiato la politica per la sistematica corruzione degli avversari, avrebbe compreso che l’economia stava entrando in una fase nuova, in cui per dominarla, ci sarebbe stato bisogno di una politica nuova, non mazzettara. Invece scambiò fischi per fiaschi, e mise il bazooka, cioè l’euro, nelle mani degli incendiari, cioè i nuovi samurai del finanzcapitalismo (copyright, Luciano Gallino). Ma qualche pagina avanti, a proposito del memorandum con cui, sempre ieri, venerdì 16 giungo 2017, Trump ha fatto piazza pulita del disgelo con Cuba avviato da Barack Obama, Federico Rampini ci spiega la logica stringente che ispirava tale politica: “oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori”. Ecco, leggendo queste righe dal sen sfuggite, si ha la prova ontologica dell’esistenza della dialettica. Grazie al dietrofront di Trump, infatti, Cuba è salva, anche contro i tentennanti e incauti suoi dirigenti, tentati di seguire le orme del grande pifferaio Deng Xiaoping, colui che ha portato la Cina in bocca al più spietato capitalismo. Ma perché Trump, il miliardario capitalista Trump, si fa strumento di questa felice piroetta dialettica? La sua svolta, ci dice Rampini, “è una conferma che per Trump la politica fa premio sull’economia”. Brutte notizie. Siamo tornati a de Gaulle e Adenauer. Ma Trump sarà di questa schiera o, come Kohl, confonderà fischi per fiaschi? Vedremo se l’establishment democratico-repubblicano, avvezzo a trent’anni di globalizzazione liberal-liberista, gli darà il tempo di manifestarsi in un senso o nell’altro, fremente com’è di sbalzarlo di sella con l’impeachment del fantomatico Russiagate.
La giornata non è finita. Sempre in Repubblica, nelle pagine della cultura, ehm, viene recensito un libro edito dalla Nave di Teseo, novella e birichina casa editrice di ambiziosi progetti, a firma di due buontemponi, l’ex industriale, romanziere da premio Strega, deputato montian-centrista Edoardo Nesi, e il finanziere, scrittore anzitempo di autobiografie, fondatore di boutique finanziarie dal rassicurante nome teologico, Kairos, ovvero il tempo designato nello scopo di Dio, il Dio mammona del qui e ora, Guido Maria Brera, i quali due esternano tutto il loro disagio sulla crisi in corso dal 2007. Ecco alcuni crucciati pensieri del teologo finanziere, riportati nella recensione: “non mi piaceva per nulla impoverire i greci. Lo facevo, certo. Perché dovevo. Lo dovevo ai miei clienti: al mandato fiduciario che mi avevano dato e che consisteva nel farli guadagnare. Se per qualche ragione avessi smesso di farlo, qualcuno avrebbe preso il mio posto”. Guido Maria Brera confessa che, a forza di queste speculazioni teologico-monetarie, “dormire diventò difficile, e raro“, e subito il romanziere discepolo del gran tecnico Mario Monti, premuroso rincalza: “che fine ha fatto la funzione principe della finanza di cui parlavi prima, Guido, la ragione profonda e irrinunciabile per cui era stata creata secoli e secoli fa, e cioè portare soldi a chi vuole investire nell’economia reale?”. Ecco cos’è il dolce stil novo finanziario: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio. È proprio un bello spettacolo, questo di Edoardo e Guido, che nel vasel di Teseo vanno incantati per lo liquido mare del denaro. E si stupiscono. Ma, sordi a tanta poesia, ci si chiede se mai sorgerà un’Alta Corte di giustizia che acquisisca come prove irrefutabili le sfrontate, ancorché dolenti, ammissioni circa il genocidio dell’economia greca, e proceda alle doverose condanne.
Trump e il Tao G7 dell’Europa che verrà
Il G7 di Taormina, come quelli che lo hanno preceduto, e quelli che lo seguiranno, è stato la solita passerella delle case regnanti democratiche, supportate dagli odierni cicisbei, le aziende di moda che colgono l’occasione per celebrare il cattivo gusto di questa sfrontata società dei ricchi. Tuttavia, non è stato un vertice inutile, perché ha messo in evidenza, come mai in passato, le contraddizioni che attraversano il gruppo di testa del capitalismo mondiale, identificato per figura retorica come Occidente. Contraddizioni che, diciamolo subito, fanno ben sperare in un prossimo futuro. Chi maggiormente incarna queste contraddizioni è Donald Trump. Un presidente detestato da tutti i sinceri democratici, cioè da tutto l’establishment che, globalizzando e liberalizzando, ha condotto il mondo nell’attuale palude. Ma detestato anche da tutti i sinceri regimi autoritari, a cominciare dalla Cina, che vede come il fumo negli occhi ogni misura antiglobalizzatrice che possa mettere in pericolo i suoi floridi commerci. La politica di Trump, che con accuse traballanti i sinceri democratici americani vorrebbero far fuori quanto prima, nei suoi chiaroscuri si sta cominciando a delineare, e il G7 è stato un proscenio ideale per una sua prima rappresentazione.
Come ha mostrato a Taormina, con tutti i suoi atteggiamenti verbali e non verbali, Trump non è affatto contento del crescente peso economico della Germania che, squassando l’Europa, (scandalosamente, la Grecia continua a gemere), non solo mette in difficoltà il suo paese, ma getta la Russia nelle braccia della Cina. Quest’ultima è il secondo attore mondiale di cui Trump vuole contenere l’aggressività economica. La Germania ha avvertito immediatamente il pericolo, e infatti la Merkel, in chiusura del G7, ha già chiamato l’Europa a non fare più affidamento sull’America, e a prendere in mano il proprio destino. Che cosa ciò voglia dire non si sa bene. Sembra solo il monito rabbioso di chi non ha piani alternativi. È facile prevedere che per la Germania si stia avvicinando il tempo in cui dovrà uscire dalla sua comoda posizione di potenza egemone riluttante. Se vorrà essere tale, dovrà farlo a viso scoperto, e le risposte che riceverà non saranno tutte positive, innanzitutto al suo interno, dove la grande coalizione rischierà di trasformarsi in una tomba di ghiaccio, dalla quale i superstiti socialdemocratici alla fine dovranno scappare per non estinguersi del tutto.
Lo stesso si può dire della Cina, le cui merci, spesso dall’infimo valore d’uso, incorporano nel loro valore di scambio uno dei più alti tassi di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da parte di una “classe proprietaria”, debitamente allargata, che identifica l’“armonia sociale” con l’eternizzazione del proprio potere assoluto. Se la politica di Trump servirà a scuotere lo Stato che, dopo avere imbalsamato Mao, imprigiona in una nuvola di divieti il “grande spazio” sino-asiatico, avviando uno storico decentramento dalle possibili forme federali, sarà tutto di guadagnato non solo per la libertà, ma anche per l’uguaglianza, che non sia un orpello per promuovere una classe media dai comportamenti (a proposito di ambiente) ancora più consumistici di quella dello storico capitalismo metropolitano.
Tutte queste cose ovviamente Trump non le porta in dono come Babbo Natale. Trump è il plutocrate demagogo che sappiamo, e il suo scopo è di riportare in auge il complesso militare-industriale, di cui in questo momento è il commesso viaggiatore. Un accordo con la Russia, che Trump in ogni modo cercherà di chiudere, verterebbe sicuramente anche su “condivisioni” militari, e altrettanto ai paesi del sud Europa verrebbe offerto su questo terreno una via d’uscita dall’asfissia austeritaria. Ciò ovviamente preoccupa, altrettanto quanto preoccupano gli inarrestabili trionfi in Borsa della Silicon Valley, i cui imprenditori della sovrastruttura hanno fittamente mercificato la vita quotidiana dell’intero pianeta. È innegabile però che il capovolgimento delle priorità globalizzatrici che Trump intende operare riapre, con i suoi “effetti indesiderati”, la partita per tutti gli attori in gioco, grandi e piccoli. Certe dinamiche sarà difficile poterle controllare, e se ne vede già l’esempio in Inghilterra, dove i postumi della Brexit stanno avviando la May, come dicono gli ultimi sondaggi, allo stesso destino di Cameron.
In tutto questo, quale dovrebbe essere il ruolo della nostra cara Italia? L’Italia, che a Taormina ha così diligentemente svolto il ruolo di padrona di casa, dovrebbe staccarsi dalla crescente integrazione economica (manifatture per l’esportazione) e ora anche politico-istituzionale (proporzionale “tedesco”) con la Germania, se avesse una classe governante che ha a cuore l’interesse nazionale. Ma dov’è la borghesia italiana? E mancando la borghesia, si capisce che manchi anche una sinistra degna del nome. Bisogna aspettare dunque che la spinta venga dall’esterno. Dalla Francia, dove Mélanchon ha raccolto una forza che può mettere in crisi il fragile equilibrio cristallizatosi attorno all’esile Macron, la cui unica carta, come si è visto a Taormina, è di baciare la pantofola a Frau Merkel. Dall’Inghilterra, dove la tracotanza dei conservatori può regalare a Corbyn la più onorevole e più salutare delle sconfitte. Dalla Spagna e dal sorprendente Portogallo. L’Europa, insomma, è in fermento, e che l’Occidente tramonti, francamente è affare di Oswald Spengler e dei suoi nipotini. In ogni caso, il domani non sembra risiedere nei paesi dalle colossali economie emergenti ma, senza perciò essere eurocentrici, in quell’Europa dei Gramsci e degli Spinelli, solo per nominarne alcuni, che appare come l’unico posto al mondo dove la ripresa della “guerra di movimento” non sarebbe il grand guignol di massacri e teste mozzate, ma un effettivo avanzamento di forme economiche sociali e politiche realmente nuove.
Trump e i problemi dell’egemonia
L‘ideologia nazionalista, neoisolazionista e primatista, cioè centrata sulla superiorità dell’etnia bianca, ha consentito a Trump di essere eletto con il voto decisivo dei proletari destrificati dall’ultima tornata di globalizzazione capitalistica. Ottenuto il potere, dopo alcune mosse puramente dimostrative, come il decreto sugli immigrati rigettato dai tribunali e l’attacco fallito alla riforma sanitaria di Obama, ha cominciato ad appoggiarsi a ex generali per la difesa e la sicurezza interna, e a governare insieme ad imprenditori e finanzieri come i ministri del Tesoro, degli Esteri e del Commercio, Mnuchin, Tillerson e Ross, e a banchieri ex Goldman Sachs, come Gary Cohn e Tina Powell, nominandoli consiglieri per l’economia e la politica estera. E tutto ciò, sicuro come sempre che, come lui stesso disse durante la campagna elettorale, «potrei sparare a qualcuno in mezzo alla Fifth Avenue e non perderei nemmeno un voto»1, ovvero sono il grande stregone di una politica ridotta a circo mediatico-pubblicitario, in cui mi si crede a prescindere. Trump, insomma, ha portato a termine con il suo brand la missione di perpetuare il periclitante dominio del complesso affaristico-militare2 che, in quella “grande disgregazione” etnica che è la società americana3, ha ancora il suo asse egemone nell’America wasp. Egli, adesso, può anche riposarsi, dedicandosi alle relazioni pubbliche, le sole in cui veramente eccelle, mentre i generali testano rabbiosamente i loro ordigni in territori che la ormai cronica mancanza di un governo centrale degrada a comodi poligoni di tiro, come in Afghanistan, in cui gli innocenti possono morire senza che nessun timorato di Dio debba temere di dover pagare i suoi crimini nel giorno del giudizio, anche perché è giusto ai fini di una sempre più faticosa pax mondiale a stelle e strisce andare a vedere il bluff atomico della Corea del Nord. C’è però chi pensa che i venti di guerra siano solo refoli delle grandi correnti commerciali. Tra questi, Romano Prodi, che vede in Trump il solito fasso tuto mi che la realtà si incarica di mettere a posto: «ma cosa vuoi fare e brigare con un paese come la Cina? Guardate come sta usando appunto la Corea del Nord: alla grande!». «Alla grande?», chiede il giornalista sbigottito. E Prodi, con l’allegria del commesso viaggiatore della grande globalizzazione: «La Corea del Nord vive perché la fa vivere la Cina. Materie prime, cibo. Gli americani lo sanno e vogliono che i cinesi si muovano. La verità è che per i cinesi la Corea del Nord vale un niente del commercio estero. E quindi possono anche chiudere il confine senza sacrifici: ma facendo così agli americani un favore enorme. E qui scatta il do ut des. Adesso, diranno, tocca a voi pagare: state buoni, per esempio, sulle restrizioni commerciali»4. E se la juche, questa ipertrofia dell’autonomia, fosse per la Corea del Nord non solo la garanzia della propria indipendenza, ma anche lo strumento della propria psicotica potenza? E se l’egemonismo cinico di Trump, costringendo la Cina ad un confronto con la Corea del Nord da cui uscirebbe perdente, la precipitasse in una nuova povertà, questa volta non più quella antica delle campagne, espressione di una arcaica stagnazione che aveva una sua sostenibilità sociale, ma quella di un urbanesimo industriale e terziario dai costi via via più grandi, e perciò tanto più degradata? Costringendola così a mettere in discussione il denghismo che l’ha retta sino ad oggi, e a riscoprire un maoismo ridotto ormai solo al collante nazionalistico? E il quadro diventa ancora più fosco se si considera la coda di paglia della Russia connection che il magnate americano assurto a uomo di Stato si porta dietro. Perché, nonostante la scaramuccia in Siria, è molto probabile che il suo egemonismo cinico faccia blocco, bon gré mal gré, con l’affarismo putiniano, cui è visibilmente subalterno. Ma che ne sarà di questo blocco quando entrerà in contraddizione con i “valori eurasiatici” – Dio, patria, famiglia tradizionale – tanto cari ad Aleksandr Dugin5, ascoltato consigliere di Putin? Saranno questi valori destinati alla stessa fine dei “valori cristiani”, di cui negli ultimi due secoli è stata custode nel blocco euroamericano la Chiesa di Roma, cioè a divenire foglie di fico di un mondo dominato solo dalla “non-etica degli affari”? Oppure, i dominati dell’Est e dell’Ovest, scoperto l’inganno degli infimi miglioramenti materiali derivanti dalla rivitalizzazione di produzioni “novecentesche” (auto, infrastrutture stradali, e tutto quanto legato a petrolio e cemento), si solleveranno selvaggiamente nella sovrastruttura, parlando il violento linguaggio degli antichi valori profanati6? Tutto ciò per dire che quando l’egemonia non è decentramento strategico ma cinismo elettorale, ovvero semplice forza corazzata di consenso, le cose non possono che prendere una brutta piega. E che contro questa reductio dell’egemonia alle arti magiche della persuasione, tipica dell’attuale dittatura del capitale, sbrigativamente denominata nelle sue multiformi manifestazioni come “populismo”, l’unica ricetta non può che essere il perseguimento della contro-dittatura. Lo dimostra il fatto che le deviazioni tattiche, da Tsipras a Sanders, non aprono vie per il futuro, ma demoralizzano e disperdono gli eserciti che dovrebbero condurre la battaglia contro-egemonica.
- M. Gaggi, “Sorprese e dietrofront: ma Trump non cambia la sua visione tribale della politica (e della vita)”, Corriere della sera, 15 aprile 2017, p. 2. [↩]
- P. Baran, P. Sweezy, Il capitale monopolistico, (1966), Torino, Einaudi, 1968. [↩]
- F. Aqueci, Il lupo per le orecchie. La questione meridionale al di qua e al di là dell’Atlantico, «Il Contributo», gennaio/dicembre 2014, pp. 29-61. [↩]
- M. Aquaro, “La risposta di Pechino non ci sarà gli Usa cederanno sul commercio”, la Repubblica, 16 aprile 2017, p. 4. [↩]
- F. Aqueci, Tra Dugin e Huntington. Epistemologia dello scontro di civiltà, «Politeia», n. 119, settembre 2015, pp. 10-23. [↩]
- P. Cherchi, Il tramonto dell’onestade, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017. [↩]
A scuola da Trump, per imparare l’egemonia
Molti, di fronte alla vittoria di Trump, hanno alzato le braccia sconfortati: la sinistra è morta, non c’è alternativa, prepariamoci al peggio. Ma Hillary, la signora Rodham che si faceva chiamare Clinton, rappresentava la sinistra? E poi, la sinistra, in questi anni, è stata davvero così assente? Occupy Wall Street, referendum italiani del 2011 vinti alla grande, Indignados, Syriza che vince in Grecia, Corbin che strappa il Labour al blairismo e, ancora in corso, nuit debut in Francia, non contano? Certo, alla fine, però, vince Trump. Come mai? Proviamo a mettere assieme, uno dietro l’altro, alcuni fatti:
1) Trump da destra attacca la corruzione, la disonestà e il politicamente corretto dei media che, quando non sono governativi, sono di destra (v. sconro con Fox News). La sinistra non disdegna le tribunette che in quei media corrotti riesce a lucrare, nell’illusione che le diano la “rispettabilità” da establishment, che la renda degna di “andare al governo”. Questa è una tipica mentalità subalterna, che invece la destra rigenerata che Trump incarna non ha, così come non l’ha avuta il Comico Penstastelluto, che ha snobbato per anni la tv, arrivando lo stesso al 30% di consensi, con la “lunga marcia” dei Vaffa Day;
2) la sinistra denuncia la “globalizzazione liberistica”, ma non dice una parola sulla svalorizzazione del lavoro su cui si fonda il miracolo del “socialismo alla cinese”, come con sprezzo del ridicolo viene ancora chiamato da alcuni buontemponi. Trump invece non esita ad attaccare la Cina, unendo in un unico fronte tanto i capitalisti rovinati dalla Cina, quanto i lavoratori licenziati dai capitalisti rovinati dalla Cina. Piaccia o meno, questa è capacità egemonica;
3) Trump si oppone a ulteriori tagli alla sicurezza sociale e vuole fare una politica di investimenti pubblici. Da noi, dall’Ulivo in poi, si susseguono governi che prendono voti a sinistra e fanno politiche destrorse di tagli a sanità, pensioni, scuola e a tutto ciò per cui la sinistra si è battuta nei decenni trascorsi. Questa non è egemonia, ma opportunismo degli stati maggiori, tipico di partiti la cui unica ragione sociale è rimasta quella di “andare al governo”, pensando che stando al governo, la sinistra è “egemone”. Questa mentalità machiavellica ha purtroppo contagiato anche la base. Non si spiega altrimenti come tanti ex-Pci si riconoscano nell’attuale PD, che porta all’estremo quel falso teorema. Il machiavellismo è una deteriorie cultura politica che non ha niente a che fare con l’egemonia, ma che anzi la nega alla radice, perché permette agli stati maggiori opportunisti di avere il consenso di una base ridotta a “parco buoi” elettorale;
4) Trump si batte contro la finanza (tasse sui mediatori di hedge fund, ripristino della legge Glass-Steagall). Da noi i governanti che prendono i voti della sinistra, la sera giocano a carte con banchieri, finanzieri e grandi capitalisti, e quando un Bersani si scaglia contro il finanzcapitalista Serra, resta la nota stonata che nessuno capisce, il primo lui: come avrò fatto, io, il Magnifico Lenzuolatore, a dire quella enormità? Su, coraggio, Bersani & Co., è quella la strada, ma il discorso deve essere sviluppato negli anni, non può essere una resipiscienza in articulo mortis;
5) Trump è contro le sanzioni alla Russia e quindi contro l’estensione della Nato sino ai confini russi. L’Italia di centrosinistra lo sarebbe pure, per ragioni di bottega, ma intanto manda truppe in Lituania, e un presidente della repubblica “realista togliatttiano” scavalcò a destra Berlusconi quando si trattò di bombardare la Libia, perché Hillary lo reclamava. Se una sinistra che “viene da lontano e va lontano” produce simili dirigenti, non c’è forse un problema? Si dirà: ma chi li vota più quelli?! Già, ma se il gramscian-leninista Alexis Tsipras fugge a gambe levate dall’esito di un referendum che gli ha dato mandato pieno di sottrarsi all’“ordoliberismo”, non c’è forse un problema ancora più grande, visto che questa nuova sinistra si mostra più infingarda e opportunista di quella appena trascorsa?
Si potrebbe continuare ad accumulare fatti e notazioni, ma per non farla lunga si può concludere dicendo che forse il criterio per distinguere destra e sinistra c’è, e ce lo offre Trump: saper fare una politica egemonica, partendo dal senso comune, ma non per cristallizzarlo a livello di “senso comune”, come fa Trump, facilitandosi le cose, e non per caso è di destra, ma per elevarlo a “buon senso”. È ciò che alcuni chiamano l’uscita dalla condizione di minorità sociale, politica e culturale di coloro che, proprio a causa di quella minorità, votano “populista”. È positivo che riemerga la consapevolezza che questa fuoriuscita non può essere un processo spontaneo, ma organizzato. Ed è positivo che si rivendichi il carattere non meramente identitario ma propositivo del femminismo, ma si potrebbe dire lo stesso dell’ecologismo, del consumo critico, delle classiche lotte per il lavoro, ecc. ecc. Purtroppo, però, le concrete proposte organizzative restano a dir poco vaghe, come quando si auspica una «composizione collettiva di pratiche collegate all’etica dell’affermazione di alternative condivise e situate»1. Si ha l’impressione che dietro queste cortine fumogene verbali c’è il rifiuto, derivato da un comprensibile trauma, ad affrontare il nodo vero del partito, il partito che coordini tutti i fronti della lotta, costringendo effettivamente i singoli movimenti ad autodecentrarsi, per convergere, a partire da una sorta di reciproco “velo di ignoranza”, verso la finalità comune. Quando e chi sarà capace di fare una simile operazione, che evidentemente non è un’operazione logica, ma pratica, nessuno lo può dire. Sappiamo però che l’esigenza è posta, una esigenza resa ancora più pressante dalla urticante lezione egemonica del “deplorevole” Donald Trump.
- R. Braidotti, La storia finisce con Trump? Do not agonize: Organize!, “il Manifesto”, 11.11.2016, p. 19. [↩]