Trump

Dazi, austerità e fine dell’americanismo

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Spaventati dalle bordate di dazi sparate da Trump, molti si sono concentrati sui loro effetti sull’economia mondiale ma pochi hanno considerato le loro conseguenze interne agli Stati Uniti. Come nota Jeffrey Sachs in vari suoi interventi, se si prende il caso dell’industria automobilistica, le tariffe aumenteranno i prezzi delle automobili e i salari dei lavoratori del settore automobilistico, ma per effetto complessivo dei dazi questi aumenti salariali non serviranno a compensare l’abbassamento complessivo del tenore di vita degli americani. Sempre Sachs si sofferma sul nesso tra deficit commerciale e deficit di bilancio e mostra che il deficit totale risulta dalla differenza tra la spesa totale dell’America nel 2024 (30,1 trilioni di dollari) e il suo reddito nazionale (29,0 trilioni di dollari). Conclusione, l’America spende più di quanto guadagna e prende in prestito la differenza dal resto del mondo grazie alla forza del dollaro e al suo ruolo di valuta di riferimento. Qui Sachs si ferma, ma è chiaro che la forza del dollaro non deriva solo dalla sua funzione economica ma da fattori politici, altrettante voci del deficit di bilancio, quali le spese di guerra dirette e indirette, quelle per le agenzie di intelligence e da una fiscalità favorevole ai ricchi. E siccome il commercio globale erode la base produttiva dell’America, che così rischia di montare la guardia a un sistema produttivo mondiale che non la rafforza ma la indebolisce, si vede come i costi dell’impero sono dei circoli viziosi che non è folle ma saggio interrompere, proprio quello che sta cercando di fare Trump con il mix di dazi esterni per rinvigorire la base produttiva industriale interna e tagli interni per ridurre la spesa pubblica come quelli avviati da Musk con il suo DOGE. Il fatto però è che il DOGE ha licenziato migliaia di impiegati pubblici, stretto i controlli su chi è rimasto, tagliato fondi per istruzione, ricerca e sviluppo, ma si è guardato bene dal revocare i tagli fiscali per i ricchi e dall’avviare controlli sull’elusione e sull’evasione fiscale, anzi pare che il DOGE, con la scusa di tagliare la spesa pubblica, abbia svuotato la capacità di controllo dell’IRS, l’agenzia governativa per la riscossione dei tributi. Insomma, mentre i dazi sono una guerra inter-capitalistica, il risanamento del bilancio, cioè i costi interni dell’impero, sono tutti a carico delle classi lavoratrici. E siccome i miglioramenti salariali che dovrebbero derivare da un rinvigorimento della base produttiva industriale saranno annullati, come detto prima, dall’abbassamento complessivo del tenore di vita degli americani, cioè dalla riduzione dei loro consumi, tutta l’operazione di Trump si configura come una gigantesca manovra di austerità introdotta nel paese che, grazie al suo ruolo imperiale, non aveva sinora conosciuto questa lebbra del capitalismo. Ma c’è dell’altro. Abbiamo detto che il DOGE di Musk ha tagliato le spese della CIA e di agenzie di intelligence come l’USAID, che per decenni ha distribuito fondi a ogni sorta di amici dell’America, compresi i preti ortodossi ucraini scismatici per la stampa, a questo punto di necessità sospesa, dei loro nuovi calendari liturgici. Inoltre, è stata chiusa Voice of America, la stazione radio simbolo della Guerra fredda. Questi tagli, sommati alla svolta dal consumo all’austerità imposta surrettiziamente alle classi lavoratrici, segnalano sol che lo si voglia vedere che l’America sta iniziando a sganciarsi dall’americanismo, cioè da quel modo di vita libertino e appariscente promosso da ogni sorta di prodotto culturale per la cui suggestione tutto il mondo si identificava con l’America. Intendiamoci, al consumismo, all’edonismo, alla morale libertina dovranno rinunciare non i ricchi, invitati anzi ad arricchirsi di più, bensì i salariati, ma i ricchi, non si sa se per giustificare la svolta che i vincoli della struttura loro impone o perché effettivamente c’è stato un cambiamento nella loro grassa sovrastruttura ideologica, sono entrati in modalità cupa tipica di quando il rimosso si risveglia materializzandosi in inattese inversioni dialettiche. Prendi la lettura a controsenso nei circoli dei miliardari hi-tech, di cui Musk è la figura più in vista, del vecchio libro di James Burnham, The Managerial Revolution, con la quale lo scontro fra capitalisti e manager si trasforma in quello tra capitalisti tecnologi, tornati grazie alla tecnologia smart a mettere le mani nella produzione, e i loro manager e dipendenti soggiogati dall’ideologia Woke con cui insidiano il loro potere. O prendi le analisi, tenute in gran conto sempre nei suddetti circoli, di Alexander Karp e Nicholas Zamisky avanzate nel loro recente libro The Technological Republic: Hard Power, Soft Faith, and the Future of the West, con cui, rifacendosi a Irving Kristol, il troskista che divenne il papa del fondamentalismo “liberal”, si sostiene che compito odierno della nostra civiltà non è quello ormai impossibile di riformare l’ortodossia secolare e razionalista, ma di dare nuova vita con spirito profetico alle ortodossie religiose tradizionali. È tutta la ben nota disperazione un tempo provocata dalla minaccia comunista che oggi si traduce in una funerea morale in cui l’edonismo delle masse viene sostituito dal ritorno del patriottismo quale si espresse nella Seconda Guerra Mondiale, il ruolo dello Stato si rafforza con espulsioni e deportazioni, una nuova etica della partecipazione si afferma tra i talentuosi della scienza e degli affari, l’innalzamento costante degli standard di vita della popolazione a tutti i costi viene abbandonato, e ci si prepara a una dura sopravvivenza nelle condizioni di crescente turbolenza globale, di riduzione delle risorse, di peggioramento delle sfide ambientali e naturalmente di aggressione demografica dall’esterno. Ma nell’attesa che, come vuole Musk, un’avanguardia di cotali eletti voli su Marte per scongiurare la fine dell’umanità, che fare? Anche qui, a capirlo aiuta un dettaglio. Trump freme di abbandonare la NATO e di poter tagliare le spese di guerra in Ucraina (e forse in Medio Oriente). Come mai? È così sciocco da voler abbassare il ponte levatoio permettendo così ai suoi nemici di penetrare nella fortezza occidentale? No, è che la NATO e avventure come il sostegno all’Ucraina (e forse a Israele) non servono più, poiché molto più utile appare, ad esempio, un’Alleanza del Nord tra America e Russia al posto di un’Europa morente, contro Cina musulmani e resto del mondo. Al posto dello “scontro di civiltà”, dunque, un “patto di civiltà” con cui, come pensano i rispettivi circoli dirigenti, per quanto grandi possano essere le rispettive differenze, in quanto ortodossi e protestanti si può rinvenire un terreno comune nei valori della tradizione propri della comune matrice cristiana. E poiché sia cinesi che musulmani, i primi con il loro confucianesimo, i secondi con il loro comunitarismo autoritario, guardano alla tradizione come al modo di vita più sicuro per conseguire la ricchezza, il cristianesimo dell’Alleanza del Nord finirebbe per essere il tempio sconsacrato in cui al posto del tabernacolo potrà essere reinstallato il vitello d’oro che tutto il mondo adorerà. Se così sarà, non sarebbe insensata l’attesa di un nuovo Mosè che, raggiante di due fasci di luce, scende a profligare questi sfacciati sfruttatori che spacciano per civiltà il loro vile commercio.

P.S. La revoca per 90 giorni dei dazi non cambia nulla agli effetti interni sopra descritti perché le trattative tra gli USA e i paesi colpiti dalle misure protezionistiche avranno esito positivo solo se si tradurranno in una ripresa del tessuto industriale americano.

L’oceano delle nostre speranze

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Nella ormai celeberrima conferenza stampa finita a pesci in faccia, Trump dice a Zelensky più o meno così: «tra noi e l’Europa c’è un oceano, eppure siamo lì molto coinvolti con tutto quello che ci costa. Se siete interessati alla sicurezza, facciamo l’accordo economico, noi veniamo a lavorare da voi e scava, scava, scava, saremo impegnati a difendere la nostra presenza, e questo basterà a calmare la Russia e assicurarvi la pace. Se non volete fare l’accordo, ve la dovrete vedere tra di voi, e voi ucraini avrete la peggio perché, senza il nostro aiuto militare, Putin vi schiaccerà. Se volete essere forti, dovete fare l’accordo». Zelensky più o meno ribatte così: «certamente, voi grazie a Dio avete l’oceano che oggi vi protegge, ma domani anche voi avrete da temere dalle mire espansionistiche della Russia. Putin non si ferma perché l’unica cosa che capisce è la forza militare. Per noi quindi la sicurezza è un esercito forte che ci difenda e questo ce lo potete assicurare solo voi in collaborazione con gli europei. Quindi dateci armi e truppe, con annesse Nato e UE, da schierare ora e sempre ai confini della Russia». Tutta la conferenza stampa si è giocata attorno a quest’immagine dell’oceano, introdotta da Trump e ritortagli velenosamente contro da Zelensky. Trump, che con questo suo secondo mandato vuole passare alla storia come il pacificatore del mondo, voleva dimostrare il suo relativo disinteresse: «potremmo restarcene a casa, ma veniamo per difendere un nostro interesse economico che creiamo con l’accordo, così facendo però otteniamo la pace nel mondo che è quello che mi interessa». Zelensky voleva dimostrargli l’illusorietà di questo piano: «la Russia assassina e terrorista non mantiene la parola data come dimostra tutto ciò che ci ha fatto dal 2014 a oggi, e un giorno aggredirà anche voi». Questa profezia ha fatto uscire Trump dai gangheri e i due hanno cominciato ad altercare addirittura più volte sfiorandosi. Una scena tragica e penosa, in cui Zelensky sembrava davvero il bifolco che litiga con il proprietario del fondo da cui prende in prestito le sementi e gli attrezzi di lavoro. Eppure un simile personaggio tiene testa all’America e riesce a sobillare l’intera Europa compresa l’Inghilterra. Come mai? Intendiamoci, il legame economico offerto da Trump non è cooperazione economica ma uno scambio economico-politico sotto cui si nasconde una spoliazione: «le vostre risorse ci servono per sviluppare le nostre tecnologie e quant’altro, condizione essenziale per continuare a essere la Great America, il demiurgo del mondo che io Trump voglio incarnare e che può darvi pace e sicurezza». Il legame economico invece offerto dai globalisti europei rinserrati a Bruxelles, cui si accodano a corrente alternata i londinesi della City, è in apparenza cooperazione economica, ma in realtà è il classico scambio economico-finanziario ineguale la cui conseguenza macroscopica è, oltre alla corruzione endemica, l’immigrazione di massa che distrugge la coesione sociale dei paesi di partenza e di quelli di arrivo. Ora, lo scambio economico-politico di spoliazione di Trump è un attacco diretto alla falsa cooperazione economica globalista. Trump parte dal presupposto che a lungo andare il traliccio a cui è attaccato il pallone sempre più gonfio della globalizzazione crollerà e, prima del disastro che gli europei invece si ostinano a ignorare, mira a ridisegnare lo spazio economico riconducendolo dentro i confini degli Stati. Di qui i dazi, che magari nell’immediato non hanno logica economica, ma sono il prezzo pagato volentieri per riprendere il controllo politico dell’accumulazione. Quindi Trump da un lato con Musk, l’utile idiota a libro paga NASA, combatte la superfetazione burocratica dello Stato che ai globalisti à la Biden serviva per acquisire consenso sociale, dall’altro rafforza lo Stato come guardiano politico del capitale al punto che i monopolisti di Internet, padroni del campo con i globalisti, da un giorno all’altro hanno abiurato tutto il ciarpame ideologico del globalismo e ora sono tutti inginocchiati ai suoi piedi, lui che forte del pieno mandato elettorale ricevuto può schiacciarli quando vuole. E questo è la campana a morte per i globalisti di Bruxelles i quali ciechi e sordi come sono si accodano ed esaltano il buzzurro ucraino, il quale però ha capito che tiene per gli attributi Trump, perché se lui non firma l’accordo economico tutta la costruzione con cui Trump intende restituire all’America lo scettro di arbitro del mondo non parte. Di qui la sua tracotanza che traspare in ogni istante della conferenza stampa, specie nei confronti del vicepresidente americano, ma anche nei confronti di Trump verso cui ha l’atteggiamento insofferente del nipote sveglio che sopporta a stento il nonno un po’ stupido. Che dire? Per le sorti del mondo, l’umanitarismo affaristico di Trump è più desiderabile del falso vittimismo ucraino che si traduce in una paradossale idolatria della forza militare. Oltretutto, con la sua strategia Trump reintegrerebbe la Russia nel tessuto capitalistico occidentale, e Putin che non è stupido e per ovvie ragioni non teme lo scambio economico-politico gli ha subito offerto di sfruttare insieme le sue risorse minerarie. Questo naturalmente è benzina sul fuoco per i globalisti di Bruxelles, perché dovrebbero andare a Canossa, e per i nazionalisti ucraini, perché dovrebbero finalmente cessare dalle paranoie con cui intossicano il mondo dal 1991 a oggi, se non da prima. Ma trasportato nel quadrante medio-orientale che ne è dell’umanitarismo affaristico di Trump? Mentre l’Ucraina potrebbe anche rifiorire, sebbene in una situazione di vassallaggio a parti rovesciate (prima la Russia, ora gli Stati Uniti. Bel risultato da fessi!), i palestinesi verrebbero semplicemente deportati, rendendo eterno il loro risentimento contro Israele in cui trionferebbero le peggiori tendenze razzistiche. Nella strategia di Trump, comunque, se non ci si fa traviare dalle stupidaggini dei social su Gaza trasformata in resort di lusso di cui si pascono i nostri media, il quadrante medio-orientale appare molto meno elaborato di quello europeo, e potrebbe riservare delle sorprese in riferimento al torvo e ormai anacronistico regime iraniano degli ayatollah. La situazione dunque è in movimento e non si starà qui a rievocare le scoppiettanti sparate del tycoon su Groenlandia, Panama e lo sbarco su Marte, per non parlare della Cina che incombe sfuggente sullo sfondo. In fin dei conti, sono i primi trenta giorni, e chi vivrà vedrà. E l’Italia? Mentre Giorgia Meloni come una faina sta acquattata prudente per capire quale maschera indossare non appena la situazione si chiarisce, l’Italia se la passa come l’Ucraina. Infatti, abbiamo un ex comico, Michele Serra, che convoca sotto casa sua i sindacati, i sindaci e chi ci sta, e da lì si mette alla testa di una manifestazione per… l’Europa (grasse risate dal pubblico). Insomma, stante la situazione attuale e stante la perdurante paralisi cerebrale di qualsiasi forza anticapitalistica di sinistra, l’unica cosa che ci si può augurare è che almeno ancora per un po’ Dio, di là dell’oceano, salvi l’America e soprattutto salvi Donald Trump.

L’era di Trump

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Per trovare un simbolo dell’era di Trump non bisogna andare negli Stati Uniti, ma in Argentina dove due tappi di sughero portati su da un’ondata di fango planetaria salutano dalla Casa Rosada una rada folla di cui cercano disperatamente di attirare l’attenzione. Da quel balcone antistante la piazza in cui in questi decenni si sono ritrovate le madri dei desaparecidos, avrebbe dovuto affacciarsi Papa Bergoglio per chiedere perdono dell’affronto di Papa Wojtyla ad Allende, quando si è affacciato a sua volta in Cile dal Palazzo della Moneda in compagnia di Pinochet. Ma Bergoglio, vecchio e malandato, mostra di avere solo qualche vaga idea del futuro, essere in buoni rapporti con la Cina, non esagerare con i froci, finirla con la schifezza della pedofilia, e un buffetto agli ebrei in uniforme da scavezzacollo israeliani. Troppo poco per la più alta figura morale dell’Occidente, di cui i due succitati tappi di sughero dicono di voler difendere i valori, no alla maternità surrogata, no all’aborto, sì alla famiglia, sì alle radici cristiane. Curioso il destino di questi valori, difesi da una manica di apostoli dalla doppia morale che celebrano il paganesimo organizzando raduni orgiastici in cui la folla delira per un razzo che ritorna docile al traliccio che lo sosteneva prima del lancio. Un abbattimento di costi da ragiunatt trasformato in un rito religioso. L’era di Trump è il compimento della religione del capitalismo. Non ci sono più diaframmi, preti in paramenti che benedicono combattenti, imprenditori, finanzieri. I guerrieri, i capitani d’industria, i nababbi officiano in prima persona il pontificale della ricchezza, con la sterminata massa pustolosa di poveri che dalle ultime fila spera di essere toccata dalla medesima grazia. Tutto il mondo è unificato dalla stessa febbre dell’oro che si sublima nella guerra all’eros condotta con gigantesche esplosioni di pornografia, la Russia di Putin, l’Iran degli ayatollah, la Cina del Partito comunista, in realtà nome di fantasia di un redivivo Partito socialdemocratico che ricicla il ciarpame umanitario della Seconda Internazionale. Ma nonostante il mondo sia unificato sotto le insegne rilucenti dell’unica fede nel capitale, mai come ora è stato così prossimo alla catastrofe nucleare. Liberali di tutto il mondo, spiegateci questo mistero gaudioso.

Contrappasso

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La cosa più penosa era vedere i media di tutte le tendenze esorcizzare l’evento. Non facevano più cronaca ma pronunciavano dei vade retro. E mentre scorrevano immagini che nessuno di loro aveva girato, i corrispondenti emettevano accorate previsioni su quanto ancora sarebbe potuto succedere di peggio. Diciamolo, quest’aria funesta non era ingiustificata. Era accaduto che i rappresentati avevano invaso il palco della rappresentanza e avevano scacciato in malo modo i rappresentanti. La democrazia rappresentativa non c’era più. Certamente, la dissacrazione era opera solo di una parte, e la parte restante ribolliva di rabbia, come si capiva dal “now” con cui il nuovo presidente ingiungeva al vecchio di andare in tv e porre fine allo scempio. Si badi bene, non in piazza, non fra i suoi sostenitori che erano lì a due passi e su cui pure si poteva presumere che avesse un qualche ascendente, ma in tv. Bisognava insomma ricostruire, “now”, ciò che era stato distrutto, non solo la rappresentanza, ma la rappresentazione televisiva della rappresentanza. Tuttavia, l’aria sonnolenta (è proprio così, sembra che dorma in piedi) con cui quel “now” veniva scandito faceva sorgere tanti interrogativi. Come si era arrivati a tanto? Quale sentire era stato così profondamente sfidato da infondere a quella parte di rappresentati quel coraggio sconsiderato? Beh, intanto bisognava subito etichettarla, e dare un’idea del suo abominio: estremisti di destra, neonazisti, suprematisti, complottisti, negazionisti. E in effetti per molti aspetti si trattava proprio di quell’abominio, ma non una parola però sulla politica intrigante che con patti e promesse più o meno inconfessabili forma coalizioni, compatta interessi, aggrega cordate dietro le quinte della rappresentanza, il cui copione può essere così recitato nelle forme e nei riti che tutto lavano e purificano. Al momento della formazione della nuova compagine dei ministri, non era stato infatti annunciato che il ministero dei trasporti sarebbe stato assegnato al giovane sindaco che con il suo ritiro dalla contesa presidenziale aveva favorito il raccordo attorno al vispo, ehm, Joe Biden? Era l’egemonia, bellezza, ridotta però a un minuetto di incipriati convinti di poter soffocare nel buio della sala l’egemonia maior che si gioca tra la sala e il palco e che consente al palco di rilucere solo se la sala vuole. Quegli incipriati invece, al netto di qualche fischio, davano ormai per scontato questo consenso, la democrazia non è forse la fine della storia? E invece la storia stava per rimettersi in moto, era da mesi che le sue ruote sgommavano nel fango, ma quegli azzimati continuavano a pavoneggiarsi nei loro sparati bianchi, trattando posti e cariche da cui gestire l’eternità. Certo, quante altre volte l’esasperazione per un così sfrontato disprezzo era montata, la sala aveva rumoreggiato, ondeggiato, si era scagliata contro il palco, ma la sua furia alla fine domata? Cos’era accaduto questa volta per permetterle di invadere il palco e sloggiarne gli occupanti? C’erano dei filmati che lo mostravano: da un lato poliziotti che sparavano a bruciapelo, dall’altro barriere che si aprivano, gente in divisa che faceva filtrare i dimostranti, plotoni di poliziotti che menavano pugni nell’aria e spruzzavano peperoncino con cui al massimo condire una pasta scotta. Erano gli apparati di forza divisi e squagliati di fronte a ordini ambigui – la morte per un apparato di forza. Ed ecco dunque squadernate davanti alla platea mondiale tutte le budella del potere, donde l’orrore dei media che non riuscivano a rimetterle frementi e fumiganti nella pancia squarciata da cui erano fuoriuscite. Sudamericana, proruppe ad un certo punto il corrispondente davanti a tanto spettacolo, sì, era una situazione sudamericana, come quando, ignobili assassini, nel Cile degli anni Settanta gli aerei foraggiati dai cultori della democrazia avevano bombardato il palazzo di un presidente legittimamente eletto. Ecco, ora quella oscenità, quel sacrilegio che in quel remoto paese era stato ritenuto giusto e necessario accadeva lì dove mai nessuno avrebbe immaginato che la sacra rappresentanza potesse essere violata.

Il dolce stil novo della finanza che ha ammazzato la Grecia

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Che giornata! Sul Corriere di oggi, sabato 17 giugno 2017, l’informazione sul massiccio sciopero dei trasporti di ieri, venerdì 16 giugno, si riduce alla semplice citazione, quasi en passant, della organizzazione sindacale che l’ha indetto: “la Confederazione unitaria di base (CUB) e sigle minori”. Per il resto, pur ammettendo che lo sciopero ha sconvolto l’Italia, ha cioè avuto una amplissima adesione da parte dei lavoratori, neanche una parola su cosa siano questa CUB e le altre “sigle minori”, e sul perché queste organizzazioni hanno indetto lo sciopero. Resoconto minuzioso, invece, dei gravi disagi patiti dai viaggiatori, intervista al docente di diritto del lavoro per approfondire i possibili, futuri provvedimenti da prendere contro scioperi del genere, e intervista finale alla segretaria generale della Cisl, che da tempo, tra un acquisto e l’altro di sedi faraoniche da parte della sua organizzazione, definisce “populismo sindacale” il sindacalismo cubista e siglo-minoritario. Il Corriere però si riscatta non nascondendo, in un riquadro in taglio basso, che il grande patriarca Helmuth Kohl, morto il giorno prima, aveva un lato oscuro, distribuiva mazzette per assicurarsi il controllo assoluto del suo partito, la CDU.

Lo stesso trattamento informativo, ehm, è riservato allo sciopero dei trasporti da Repubblica, che addirittura dà voce all’anatema del ministro contro le minoranze che prendono in ostaggio il paese, ma il giornale scalfariano si riscatta riportando, in un unico solo rigo su tre pagine di giornale, che “la vendita delle aziende di trasporto ai privati è una delle principali ragioni dello sciopero”. Se a qualcuno è rimasto in mente il debolissimo ricordo della famosa lettera del 2011, di Draghi e Trichet al governo italiano, da quel rigo solitario come il passero leopardiano potrà evincere che questi lavoratori cubistisiglominoritari stanno continuando a combattere l’austerità e le sue politiche, mentre tanti predicatori televisivi si sbracciano dagli schermi a spiegare che la crisi è finita.

Repubblica però ci dà una bella dritta su Kohl: “pensava come de Gaulle e Adenauer che l’economia è subordinata alla politica”, e forte di questa convinzione spinse per il varo dell’euro. Ecco, se non avesse scambiato la politica per la sistematica corruzione degli avversari, avrebbe compreso che l’economia stava entrando in una fase nuova, in cui per dominarla, ci sarebbe stato bisogno di una politica nuova, non mazzettara. Invece scambiò fischi per fiaschi, e mise il bazooka, cioè l’euro, nelle mani degli incendiari, cioè i nuovi samurai del finanzcapitalismo (copyright, Luciano Gallino). Ma qualche pagina avanti, a proposito del memorandum con cui, sempre ieri, venerdì 16 giungo 2017, Trump ha fatto piazza pulita del disgelo con Cuba avviato da Barack Obama, Federico Rampini ci spiega la logica stringente che ispirava tale politica: “oltre mezzo secolo di sanzioni e di embargo non hanno piegato il regime castrista, forse ci riuscirebbe invece la penetrazione del capitalismo, gli investimenti yankee, il business che porta benessere e aumenta i flussi di visitatori”. Ecco, leggendo queste righe dal sen sfuggite, si ha la prova ontologica dell’esistenza della dialettica. Grazie al dietrofront di Trump, infatti, Cuba è salva, anche contro i tentennanti e incauti suoi dirigenti, tentati di seguire le orme del grande pifferaio Deng Xiaoping, colui che ha portato la Cina in bocca al più spietato capitalismo. Ma perché Trump, il miliardario capitalista Trump, si fa strumento di questa felice piroetta dialettica? La sua svolta, ci dice Rampini, “è una conferma che per Trump la politica fa premio sull’economia”. Brutte notizie. Siamo tornati a de Gaulle e Adenauer. Ma Trump sarà di questa schiera o, come Kohl, confonderà fischi per fiaschi? Vedremo se l’establishment democratico-repubblicano, avvezzo a trent’anni di globalizzazione liberal-liberista, gli darà il tempo di manifestarsi in un senso o nell’altro, fremente com’è di sbalzarlo di sella con l’impeachment del fantomatico Russiagate.

La giornata non è finita. Sempre in Repubblica, nelle pagine della cultura, ehm, viene recensito un libro edito dalla Nave di Teseo, novella e birichina casa editrice di ambiziosi progetti, a firma di due buontemponi, l’ex industriale, romanziere da premio Strega, deputato montian-centrista Edoardo Nesi, e il finanziere, scrittore anzitempo di autobiografie, fondatore di boutique finanziarie dal rassicurante nome teologico, Kairos, ovvero il tempo designato nello scopo di Dio, il Dio mammona del qui e ora, Guido Maria Brera, i quali due esternano tutto il loro disagio sulla crisi in corso dal 2007. Ecco alcuni crucciati pensieri del teologo finanziere, riportati nella recensione: “non mi piaceva per nulla impoverire i greci. Lo facevo, certo. Perché dovevo. Lo dovevo ai miei clienti: al mandato fiduciario che mi avevano dato e che consisteva nel farli guadagnare. Se per qualche ragione avessi smesso di farlo, qualcuno avrebbe preso il mio posto”. Guido Maria Brera confessa che, a forza di queste speculazioni teologico-monetarie, “dormire diventò difficile, e raro“, e subito il romanziere discepolo del gran tecnico Mario Monti, premuroso rincalza: “che fine ha fatto la funzione principe della finanza di cui parlavi prima, Guido, la ragione profonda e irrinunciabile per cui era stata creata secoli e secoli fa, e cioè portare soldi a chi vuole investire nell’economia reale?”. Ecco cos’è il dolce stil novo finanziario: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento / e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio. È proprio un bello spettacolo, questo di Edoardo e Guido, che nel vasel di Teseo vanno incantati per lo liquido mare del denaro. E si stupiscono. Ma, sordi a tanta poesia, ci si chiede se mai sorgerà un’Alta Corte di giustizia che acquisisca come prove irrefutabili le sfrontate, ancorché dolenti, ammissioni circa il genocidio dell’economia greca, e proceda alle doverose condanne.